Le condizioni detentive: standard minimi nel trattamento dei detenuti


La  vicenda del caso Torreggiani ha messo in luce le condizioni in cui versavano i detenuti nelle carceri italiane, e la natura sistemica e strutturale del sovraffollamento in Italia.


A cura di Fabiana Esposito*

Le Regole ONU sono state adottate dal primo congresso delle Nazioni Unite tenutosi a Ginevra nel 1955, sul tema “the Prevention of Crime and the Treatment of Offenders”, ed approvate dal Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) con risoluzione 663 C (XXIV) del 31 Luglio 1957 e 2076 (LXII) del 13 Maggio 1977. Le Regole sono anche note come Mandela Rules[1], così definite a seguito del quarto incontro, fissato dall’Assemblea Generale NU, per procedere alla revisione delle Regole suddette, tenutosi a Cape Town, Sud Africa, nel 2015. L’organo intergovernativo di Esperti, istituito per procedere alla revisione, formulò un nuovo corpo di regole ampliato, e nel Maggio 2015 questo venne approvato dalla Commissione delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e la giustizia penale (CCPCJ), dal Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) ed infine dall’Assemblea Generale NU, raccomandando che fossero anche note come Mandela Rules, per onorare l’eredità lasciata dal  Presidente del Sud Africa Nelson Mandela, il quale ha passato 27 anni della sua vita in prigione, lottando ogni giorno per l’affermazione dei diritti umani fondamentali, della democrazia e della pace, oltre che per la promozione di condizioni detentive umane e dignitose. “The Rules are based on an obligation to treat all prisoners with respect for their inherent dignity and value as human beings, and to prohibit torture and other forms of ill-treatment”[2], queste hanno lo scopo principale di fissare dei principi generali e regole minime di organizzazione delle strutture penitenziarie e di trattamento dei detenuti, e non di descrivere un “sistema penitenziario modello”[3], e hanno svolto l’importantissimo compito di influenzare lo sviluppo delle leggi in materia in tutti i Paesi Membri delle NU. L’insieme delle Regole non hanno la presunzione di voler essere applicate tutte contemporaneamente ma potranno esserlo in ogni momento ed in ogni luogo a seconda delle situazioni differenti che si presentino[4], per assicurare che tutti i prigionieri vengano trattati con rispetto e dignità al pari di ogni essere umano. Nel 2011 è stato istituito un apposito organo di esperti intergovernativo, (Group of Expert), che svolge la funzione di revisionare ed eventualmente correggere o modificare gli Standards per migliorarne la qualità, promuoverne una maggiore sicurezza all’interno degli istituti penitenziari e fissare condizioni detentive minime più elevate per i prigionieri; le Regole soggette al suddetto procedimento che subiranno una modifica non potranno essere revisionate in peius ovvero non potranno scendere sotto la soglia degli standard già fissati. Dalla sua nascita ad oggi sono state revisionate e modificate più di 9 aree tematiche per circa il 35% delle Regole[5].

In base a quanto detto nell’Osservazione Preliminare n. 4, le Regole sono applicabili a tutte le categorie di detenuti, civili e penali, imputati e condannati, compresi quelli sottoposti a misure di sicurezza, inoltre appaiono applicabili anche alle strutture rieducative per i minori (solo la prima parte, cioè quelle norme concernenti l’amministrazione generale degli istituti penitenziari).  Sono dunque dotate di portata generale e acconsentono anche ad eventuali deroghe da parte dello Stato purché siano comunque in armonia con i principi e gli scopi delle Regole.

La prima parte , in riferimento alle Regole ONU dalla prima alla quinta, sono di applicazione generale e possono così esserne riassunti i tratti caratterizzanti: innanzitutto tutti i prigionieri devono essere trattati con rispetto e dignità[6]; è proibito e devono essere protetti dal compimento di atti di tortura o altre forme di maltrattamento (trattamenti o pene inumani e degradanti), per i quali nessuna circostanza può essere invocata come giustificazione[7]; ancora il regolamento deve essere applicato in modo imparziale, non sono ammesse discriminazioni di sesso, razza, religione, lingua, opinioni politiche, o qualsiasi altra condizione[8], avendo cura dei bisogni dei prigionieri in condizione di maggiore vulnerabilità e infine assicurandosi che i prigionieri con disabilità (fisica o mentale) siano trattati nel rispetto della loro salute [9]; il sistema carcerario non deve aggravare ulteriormente la condizione di tali soggetti , che già sono stati privati della loro libertà[10]; la condanna detentiva ha lo scopo sì di proteggere la società ma, allo stesso tempo, di consentire il reinserimento del detenuto nella società, in modo da adempiere alla funzione rieducativa della pena[11]; inoltre è previsto che la struttura fornisca istruzione e formazione professionale, programmi di lavoro e di assistenza sociale e morale al detenuto tenendo conto delle esigenze personali di ciascuno[12]; infine il regime carcerario dovrebbe tentare di ridurre al minimo le differenze con la vita in libertà[13]. E’ possibile concludere affermando che sia le Nazioni Unite che l’ UNODC, ovvero l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, hanno sviluppato una strategia comune per l’implementazione delle Regole Mandela e per un generale miglioramento delle condizione detentive e dell’organizzazione delle prigioni, con lo scopo di rendere effettiva la tutela dei diritti umani, facendo soprattutto leva sulla reintegrazione nella società libera del condannato al momento del rilascio[14]. Nel 2018 sono state condotte circa duemila visite in diversi luoghi di detenzione da parte dell’OHCHR[15], l’anno successivo 121 soltanto nello Yemen, in cui sono state evidenziate generali pessime condizioni detentive, soprattutto in ambito sanitario (mancanza di acqua potabile), l’Ufficio dell’Alto Commissariato in coordinazione con  altre agenzie umanitarie “ensured that the wards for women and juveniles in one prison received a solar power system, food items, blankets and water filter”[16]. In tutti questi anni e in occasione delle costanti visite condotte, le Nazioni Unite hanno fornito assistenza e supporto agli Stati per garantire il rispetto dei diritti umani per tutti i prigionieri. Un esempio in questo senso proviene dal carcere di Nicosia, nella Repubblica di Cipro, qui, dopo una lunga e travagliata legislazione carceraria in cui vi sono stati una serie di eventi tragici ( diversi suicidi e tentativi di suicidio, violenza da parte del personale carcerario sui detenuti, punizioni corporali), la nuova direttrice Anna Aristotelus, è riuscita a sovvertire l’intero sistema penitenziario, grazie a corsi di formazione , attività culturali , programmi di lavoro ed un approccio più moderato. Nel corso della loro permanenza possono infatti frequentare laboratori gestiti dal personale carcerario completamente attrezzati, per migliorare il loro livello professionale, vengono formati dai cuochi ai sarti, ai falegnami ai barbieri, ad ognuno di loro è data la possibilità di lavorare, scegliendo il lavoro che preferiscono compatibilmente con le singole caratteristiche[17]. I programmi sviluppati hanno incoraggiato i detenuti ad adottare un comportamento più mite, si sono ridotte le risse e il tasso dei suicidi, e i prigionieri possono godere di un contesto di semi libertà, in cui vi sono ridotte restrizioni a favore di regime meno duro. Sono inoltre predisposti corsi di studio e di formazione anche al di fuori della prigione, classi di psicoterapia, in gruppo e in presenza dei familiari dei detenuti, sono assicurati loro regolari permessi e uscite per vedere i propri cari, attività ricreative quali sport (sono presenti diversi campi per calcio, pallavolo e basket), laboratori teatrali ,performance musicali, ed una classe di scacchi[18]. La filosofia sottesa è quella di favorire il reinserimento sociale, fornendo una seconda possibilità a chiunque lo desideri. Il modello sviluppato dalla Direttrice, con la previsione di programmi di lavoro, esercizio fisico, formazione professionale, educazione, attività ricreative e creative,  hanno lo scopo di riabilitare i detenuti al mondo libero, riducendo sensibilmente il tasso di recidiva una volta scontata la pena. La filosofia della Direttrice Aristotelus è stata sin da subito quella di trattare i prigionieri come esseri umani, rispettandoli, fornendo loro gli strumenti per poter affrontare la vita oltre il carcere, cercando di ricreare potenzialmente le condizioni che troverebbero nel mondo esterno, chiedendo in cambio un cambiamento reale, un miglioramento personale, favorendo un totale reinserimento nella società.[19]

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“The degree of civilization in a society can be judged by entering its prisons. No one truly knows a nation until one has been inside its jails. A nation should not be judged by how it treats its highest citizens, but its lowest ones” è quanto affermato da Nelson Mandela nella sua autobiografia, “Long Walk to Freedom, in cui evidenzia il problema delle condizioni in cui versano gli istituti penitenziari e di conseguenza i detenuti al loro interno.

Il senso stesso della pena detentiva si rinviene nella necessità che il carcere sia visto agli occhi del detenuto come un luogo di legalità, dove non si debba rinunciare alla dignità ed al rispetto, e che garantisca al reo di riacquisire gli strumenti per un corretto reinserimento sociale[20] ai sensi del precetto contenuto nell’articolo 27, comma terzo, della Costituzione italiana, che pone il principio del “finalismo rieducativo della pena”[21], in cui il compito della pena è quello di tendere alla rieducazione del condannato. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte EDU per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella celebre sentenza pilota Torreggiani, che ha definitivamente evidenziato l’ affanno delle autorità italiane nella gestione delle carceri e la contestuale necessità di adottare misure generali per contrastare la violazione in oggetto e apportare le successive modifiche strutturali al sistema italiano così come affermato dalla Corte EDU. È bene indicare anche una sere di dati utili a comprendere il contesto in cui si inserisce la vicenda, riferiti dal Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria nell’ arco temporale che va dal 2012 al 2014, sul territorio italiano sono presenti in totale 206 istituti penitenziari, che sarebbero in grado di contenere un massimo di circa 45 mila persone[22],  ma che fino al dicembre 2012 erano in tutto 65.671 persone[23], nel dicembre 2013 si registra un leggero calo rispetto all’anno precedente con 62.536 detenuti, nel dicembre 2014, passato un anno dalla sentenza Torreggiani, erano presenti 53.623 persone[24] e secondo l’ultima rilevazione delle Nazioni Unite nel dicembre 2021 sono  più di 54 mila, ciò significa che in ogni cella sono presenti più persone della capienza massima consentita, che hanno a disposizione uno spazio personale inferiore ai 3 mq e che di conseguenza la cella risulta piccola e disagevole.

La prima condanna dell’Italia pronunciata a causa del sovraffollamento risale al 2009 in riferimento al caso Sulejmanovic[25], in cui a seguito del ricorso di un cittadino della Bosnia Erzegovina, condannato a due anni e cinque mesi di carcere per rapina aggravata ed altri reati, il quale lamentava l’impossibilità di poter scontare la pena in modo decoroso a causa delle condizioni che i detenuti del carcere di Rebibbia erano costretti a sopportare, ottenne una pronuncia favorevole di violazione dell’articolo 3 della Convenzione per essere stato vittima di un trattamento inumano nel corso della sua detenzione in quanto costretto a essere rinchiuso in una cella per 18 ore e 30 minuti consecutive ed in cui lo spazio a sua disposizione era di soli 2.7 mq. Sul punto il Comitato Europeo afferma che i detenuti devono poter trascorrere almeno 8 ore al giorno fuori dalla propria cella ed avere uno spazio al suo interno di almeno 7 mq. In occasione di questa decisione la Corte sottolineò la sofferenza degli istituti penitenziari, il carattere endemico della situazione carceraria [26] e il conseguente rischio che non ci fossero strumenti compensativi idonei per contrastarla[27]. Inoltre introdusse per la prima volta uno standard da affiancarsi a quello stabilito dal CPT, di 7 metri quadrati, e qualora questo per una serie di fattori non possa essere rispettato, è fissato in almeno 3 metri quadrati minimi, sottolineando che in alcuni casi la mancanza di spazio personale sufficiente può da solo giustificare la violazione [28] dell’articolo 3 della Convenzione.

Prima di ricostruire la vicenda del caso Torreggiani pare opportuno richiamare i principi elaborati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nei report redatti, tra il 2013, il 2014 e il 2015, alla fine di ogni sopralluogo nei centri di detenzione e nelle strutture penitenziarie italiane, possiamo difatti osservare che l’organo di controllo espresse un generale parere positivo, sottolineando il suo disappunto in specifici episodi di latente collaborazione da parte del personale carcerario, e limitandosi in quel caso a chiedere una “garanzia di non ripetizione” alle autorità competenti[29], riconoscendo però che il problema del sovraffollamento fosse ancora attuale. Per anni il Comitato ONU contro la Tortura[30], le Nazioni Unite, e il Comitato europeo per la prevenzione della Tortura hanno denunciato ripetutamente le omissioni da parte dello Stato Italiano invitandolo anche su questo punto ad individuare opportune misure di contrasto[31], e richiedendo l’introduzione nell’ordinamento penale italiano di un reato di tortura.

In questo quadro si inserisce la sentenza del 2013, definita per l’appunto pilota[32], che ha portato alla luce le condizioni in cui versavano i detenuti nelle carceri italiane e il carattere sistemico e strutturale del sovraffollamento in Italia. Per quanto attiene poi alla procedura delle sentenze pilota , di cui questa in esame ne è un esempio, ha la sua prima applicazione storica nel 2004 col celebre caso Broniowski c. Polonia[33], che nasce dall’interpretazione dell’articolo 46 della Convenzione il quale dispone per lo Stato convenuto “l’obbligo giuridico di porre in atto, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o individuali che si rendano necessarie per salvaguardare il diritto del ricorrente di cui la Corte ha constatato la violazione”[34], per cui i giudici di Strasburgo possono adottare questa procedura pilota non solo per condannare la singola violazione, ma soprattutto per evidenziare i problemi strutturali che abbiano determinato la violazione, facilitare la risoluzione del malfunzionamento, offrire soluzioni in tempi ragionevoli ed indicare misure idonee per rimediare efficacemente. Caratteristica della procedura in questione, ed applicata anche al caso in esame, è stata la decisione di dichiarare irricevibile una causa avente come unico oggetto il sovraffollamento carcerario in Italia, che sarà poi riconsiderata alla luce delle eventuali riforme strutturali effettuate dal governo italiano[35]. La procedura delle sentenze pilota induce gli Stati ad introdurre le misure necessarie per adempiere ai loro obblighi ai sensi della Convenzione, e che sebbene potrebbe essere in grado di sostituire la mancanza di effetto diretto e di effetto erga omnes della Convenzione, la collaborazione e la cooperazione delle autorità nazionali appaiono requisiti fondamentali per poter eseguire correttamente le sentenze[36].

Le origini di tale vicenda vanno rintracciate nelle richieste di condanna presentate da sette cittadini di diverse nazionalità, tre italiani (Torreggiani, Bamba e Biondi ), due marocchini, un albanese e un ivoriano ( Sela, El Haili, Hajjoubi e Ghisoni) per le condizioni imposte presso le strutture penitenziarie di Busto Arsizio e di Piacenza. Essi avevano adito la Corte EDU lamentando che le condizioni detentive fossero compatibili con la qualifica di trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione, in particolare perché condividevano una cella ciascuna di 9 mq insieme ad altre due persone per cui avevano un limitato spazio personale ed inoltre lamentavano la presenza intermittente di acqua calda, ed esclusivamente riferito al carcere di Piacenza anche una scarsa illuminazione delle celle e insufficiente aerazione.
Il solo Ghisoni si rivolse insieme ad altri due interessati al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia nel 2010, sostenendo che le condizioni detentive a cui erano sottoposti fossero mediocri a causa del sovraffollamento nel carcere di Piacenza; nonostante l’accoglimento del ricorso da parte del magistrato di sorveglianza, il quale  osservò che gli interessati occupassero delle celle che erano state concepite per un solo detenuto e che, a causa della situazione di sovraffollamento nel carcere di Piacenza, ciascuna cella accoglieva quindi tre persone (facendo riferimento alla sentenza Sulejmanovic c. Italia concluse che i reclamanti erano esposti a trattamenti inumani per il fatto che dovevano condividere con altri due detenuti delle celle esigue concepite per un solo detenuto)[37], il ricorrente venne trasferito in una cella più grande solo nel 2011. I giudici di Strasburgo nel valutare il ricorso dei ricorrenti affrontarono soprattutto la questione dell’esperimento dei ricorsi interni, venne infatti contestata dallo Stato italiano la qualità di vittima dei ricorrenti, in quanto tutti, ad eccezione di uno, vennero trasferiti in celle più spaziose dopo la presentazione dei ricorsi per cui non c’era più gli estremi per ritenerli tali. In particolare l’Italia eccepì in via preliminare l’irricevibilità dei ricorsi, i quali avrebbero dovuto essere tutti dichiarati inammissibili sia per mancato esaurimento dei ricorsi interni[38] che per carenza del requisito fondamentale della qualità di vittima. Secondo lo Stato italiano qualsiasi persona detenuta o internata nelle carceri italiane può rivolgere al magistrato di sorveglianza un reclamo in virtù degli articoli 35 e 69 della legge n. 354 del 1975, il ricorso consentirebbe di ottenere decisioni vincolanti e suscettibili di riparare eventuali violazioni dei diritti dei detenuti, ciò viene anche dimostrato e confermato dal fatto che l’unico ricorrente ad avvalersene ha ottenuto un’ordinanza favorevole. Per cui si può dedurre che coloro che non si sono avvalsi di detto reclamo non hanno esaurito i ricorsi interni.[39]
Dal loro canto i ricorrenti evidenziarono come non vi fossero sufficienti strumenti idonei per poter porre rimedio al sovraffollamento delle carceri e denunciarono la non effettività del procedimento dinanzi al magistrato di sorveglianza, e che anche quando altri detenuti, in passato, si erano rivolti a quest’ultimo non avevano comunque ottenuto un risultato soddisfacente[40].

Sul punto relativo  all’eccezione del difetto della qualità di vittima dei ricorrenti la Corte dichiara “che una decisione o una misura favorevole al ricorrente è sufficiente, in linea di principio, a privarlo della qualità di «vittima» solo quando le autorità nazionali abbiano riconosciuto, esplicitamente o sostanzialmente, la violazione della Convenzione e vi abbiano posto rimedio.” Ed ancora aggiunge: “Tuttavia, non si può ritenere che, con ciò, le autorità interne abbiano riconosciuto le violazioni denunciate dai ricorrenti e poi riparato il danno che essi avrebbero potuto subire a causa delle situazioni descritte nei loro ricorsi. La Corte conclude che tutti i ricorrenti possono ancora sostenere di essere vittime di una violazione dei loro diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione.”[41] Sull’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne la Corte rammenta innanzitutto che la Convenzione nel prescrivere il previo esaurimento dei ricorsi interni richiede che questi abbiano “un sufficiente grado di certezza non solo nella teoria ma anche nella pratica, altrimenti mancano dell’effettività e dell’accessibilità volute”[42], e che inoltre fossero accessibili ed in grado di fornire ai ricorrenti “ragionevoli prospettive di successo”.[43] Inoltre in relazione alla valutazione di effettività dei rimedi riguardanti denunce di cattive condizioni detentive, la questione fondamentale è stabilire se la persona interessata possa ottenere dai giudici interni una riparazione diretta ed appropriata, e non semplicemente una tutela indiretta dei diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione[44], e che questi siano anche dotati di un alto grado di efficacia preventiva, che nel caso di un’azione risarcitoria potrebbe non essere sufficiente[45].

Alla luce di queste premesse la Corte delibera che le eccezioni italiane sono respinte per due ordini di considerazioni. Per prima cosa l’Italia non ha dimostrato l’efficacia delle ordinanze emesse dai magistrati di sorveglianza, ad esempio nel caso specifico del ricorrente Ghisoni l’ordinanza favorevole da lui ottenuta è stata ineseguita per oltre un anno nonostante fosse stata adottata per motivi d’urgenza, e la Corte non può ammettere che per ottenere dei risultati soddisfacenti i detenuti debbano proporre ripetuti ricorsi [46]. A seguire infine risulta che il fenomeno, ormai strutturale del sovraffollamento delle carceri italiane, non consenta di dare attuazione alle decisioni dei magistrati di sorveglianza e di garantire ai detenuti condizioni detentive conformi alla Convenzione[47]. Per cui i rimedi esistenti sono insufficienti, non effettivi nella pratica e non assicurano ai ricorrenti un miglioramento delle proprie condizioni detentive.

Entrando poi nel merito della questione, mentre nel caso Sulejmanovic era centrale la questione relativa allo spazio personale inferiore ai 3 mq che da solo è idonea a determinare una violazione dell’articolo 3, qui la Corte ha notato che “nell’esame del rispetto di tale disposizione, andavano presi in considerazione altri aspetti delle condizioni detentive. Tra questi elementi figurano la possibilità di utilizzare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base. Così, persino in cause in cui ciascun detenuto disponeva di uno spazio variabile dai 3 ai 4 m2, la Corte ha concluso per la violazione dell’articolo 3 quando la mancanza di spazio era accompagnata da una mancanza di ventilazione e di luce”[48] concludendo che i ricorrenti non avessero beneficiato di uno spazio vitale conforme ai criteri da essa ritenuti accettabili, ritenendo che le condizioni a cui sono stati sottoposti i 7 ricorrenti integrino una violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

Quanto ai rimedi da adottare per far fronte a tale situazione, la Corte ha rimarcato la necessità di ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure alternative alla detenzione e una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere. Infine la Corte delibera che il reclamo al magistrato di sorveglianza, essendo un rimedio indiretto, non può ritenersi idoneo a contrastare le violazioni commesse[49], e che l’Italia dovrà, entro un anno a decorrere dalla data in cui la presente sentenza sarà divenuta definitiva, realizzare le riforme strutturali auspicate e adottare idonei strumenti, un ricorso o una combinazione di ricorsi[50], che siano allo stesso tempo preventivi e compensativi del danno in caso di sovraffollamento carcerario, introdotti all’interno di un sistema che consenta l’adozione di provvedimenti efficaci volti a ristabilire la preminenza della finalità rieducativa della pena codificata nell’art. 27 della Costituzione Italiana. Ed ancora, la Corte ha disposto nello stesso arco temporale la sospensione di tutti i ricorsi già proposti e da proporsi che abbiano ad oggetto il sovraffollamento delle carceri, al fine di favorire la soluzione stragiudiziale di tutte le controversie ancora pendenti in materia[51]. I rilievi fin qui operati consentono di operare due riflessioni, ampiamente condivise ed apprezzate, tratte dall’articolo di Gabriele Della Morte, “ La prima, più circostanziata, è che la sentenza della Corte europea dei diritti umani qualifica la situazione nei termini generali di violazione dell’art. 3 della Convenzione. A noi è parso un assunto significativo: nelle carceri italiane si può essere sottoposti ‘a tortura e a pene o trattamenti inumani o degradanti’. Ci auguriamo che la gravità implicita in tale rilievo sia presa in debito conto nell’elaborazione dei progetti di riforma. La seconda, più generale, è che se è vero che «il male, una volta inferto, non ha soluzione», da un punto di vista radicale tutte le risposte appaiono fallaci. Il bilanciamento da operare in simili frangenti è quanto mai delicato, e concerne le vittime, gli autori, e l’esigenza di evitare nuove vittime (tanto tra le prime, quanto tra i secondi). La giustizia non ha prezzo, ma è certamente molto cara.”[52]

Proprio in relazione a quest’ultimo rilievo in cui la Corte Europea dei Diritti Umani condannò l’Italia nel 2015, in occasione della decisione sul caso Cestaro c. Italia[53], di aver violato non solo l’articolo 3 CEDU ma soprattutto sottolineando la totale assenza di un “adeguato sistema repressivo” del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano, il quale non riconosceva la tortura quale crimine, né era dotata di un meccanismo effettivo di deterrenza dalla commissione di detti atti[54].
Riconosciuta l’esistenza di un problema strutturale che nel caso di specie impediva un’imputazione per negligenza nei confronti delle autorità italiane, affermò che “ the Court considers it necessary to introduce into the Italian legal system legal mechanisms capable of imposing appropriate penalties on those responsible for acts of torture and other types of ill-treatment under Article 3 and of preventing the latter from benefiting from measures incompatible with the case-law of the Court.”[55] Qualche giorno dopo la sentenza con cui la Corte EDU osservò la necessità di adottare un effettivo sistema che punisse efficacemente i colpevoli di atti di tortura ai sensi del dettato dell’articolo 3 CEDU, le autorità italiane non avevano gli strumenti per evitare che si verificasse l’impunità degli autori e per fornire un’adeguata risposta alle azioni commesse.[56]

Fu così che il Governo italiano elaborò un piano di azione nel corso del 2013- 2014, per dare esecuzione a quanto richiesto nella sentenza Torreggiani, volto ad introdurre nell’ordinamento le misure legislative necessarie per offrire una soluzione al problema del sovraffollamento[57] e per  eliminarne le cause strutturali, prevendendo l’istituzione di nuove vie di ricorso interne di tipo preventivo e compensativo, e l’adozione di ulteriori misure per migliorare le condizioni di vita nelle carceri italiane. In merito alle misure prese per decongestionare il sistema carcerario possiamo citare l’accesso facilitato a misure alternative alla detenzione, alla liberazione anticipata ed una più diffusa applicazione degli arresti domiciliari[58], oltre che del braccialetto elettronico[59]. Mentre in relazione alle misure per migliorare la qualità della vita nelle carceri vanno segnalate in particolare quelle che riguardano l’implementazione di un “open prison regime”[60] in cui si assicura una maggiore libertà di movimento fuori dalla cella dei detenuti, ovvero venne disposta l’apertura di tutte le celle per i detenuti in regime di media sicurezza per un periodo minimo di 8 ore al giorno, che potevano arrivare a 14 per i sottoposti al nuovo regime a custodia aperta[61], permettendo ai detenuti di poter trascorrere più tempo fuori dalle celle, un aumento delle visite famigliari ed un accesso facilitato al lavoro extramurario[62].

Ultima nota conclusiva del piano di azione è l’istituzione di nuovi rimedi interni. In particolare il Governo italiano ha espresso l’intenzione di adottare disposizioni legislative volte a risarcire coloro che avevano scontato pene detentive in violazione dell’articolo 3 della Convenzione e avevano presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, rinvenendo la possibilità di ridurre la percentuale di pena da scontare in proporzione al periodo di tempo in cui il prigioniero ha vissuto in condizioni inadeguate. [63] È stato dunque introdotto un rimedio giurisdizionale, che prevede la possibilità per qualunque detenuto di presentare, direttamente o tramite un avvocato, reclamo al magistrato di sorveglianza, a condizione che la violazione contestata (l’inosservanza da parte degli agenti penitenziari delle disposizioni della legge n. 146/2013) abbia comportato un attuale e grave pregiudizio in relazione all’esercizio dei diritti del querelante. La suddetta legge ha modificato la legge penitenziaria al fine di distinguere tra il ricorso ordinario (reclamo generico) al giudice di sorveglianza di cui all’articolo 35 della legge penitenziaria, e un nuovo ricorso giudiziario (reclamo giurisdizionale) introdotto dall’art. 35 bis dell’ordinamento penitenziario[64]. Nel caso di mancata esecuzione della decisione da parte degli agenti penitenziari il ricorrente può proporre un ulteriore reclamo al magistrato di sorveglianza, il c.d. giudizio di ottemperanza, e può inoltre essere nominato un commissario ad interim dal giudice quando necessario per far eseguire la decisione. [65]

 In ultimo è stato introdotto l’articolo 35 ter[66] della legge sull’ordinamento penitenziario con cui, per chi ancora è detenuto, può chiedere al magistrato di sorveglianza una riduzione della pena da scontare pari ad un giorno ogni dieci trascorsi in violazione dell’articolo 3, oppure per chi sia stato già rilasciato una compensazione pecuniaria.[67]

Il bilancio all’esito dell’adozione di queste misure è generalmente positivo così come valutato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, dal suo canto, il Governo italiano affermò che l’implementazione della Convenzione si era rivelata piuttosto impegnativa ma che di fatto la popolazione carceraria era diminuita, nel 2014 si attestava intorno ai 54 mila prigionieri, come  i nuovi ingressi in carcere, grazie soprattutto alle misure alternative della pena, notando inoltre che le condizioni detentive erano migliorate, la procedura della sentenza pilota del caso Torreggiani, si è rivelata essere “a positive way to bring about legislative change in the country where legislative change appears to be extremely difficult and slow”,[68] ed ha spianato la strada per una reazione consistente al problema del sovraffollamento giungendo alla risoluzione, seppur parziale, dei problemi strutturali e sistemici del sistema penitenziario italiano, con l’adozione di nuovi rimedi interni esperibili dai detenuti. Infine nel corso del 2015 venne poi approvato un disegno di legge sia dalla Camera dei deputati che dal Senato della Repubblica, il quale prevendeva il riconoscimento del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano, ma che solo nel 2017 vide effettiva introduzione nel Codice Penale Italiano con la legge 14 luglio 2017, n. 110, ai sensi dell’articolo 613 bis[69], il quale prevede la condanna per crimini di tortura,  commessi sia da privati che pubbliche autorità.


Note

[1]Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 70/175 del 17/12/2015.
[2] A. Gilmour, The Nelson Mandela Rules: Protecting the Rights of Persons Deprived of Liberty, in UN Chronicle.
[3] C. Defilippi, D. Bosi, Il sistema europeo di tutela del detenuto, Milano : Giuffrè Editore, 2001,  125.

[4] UNODC, the Mandela Rules, Osservazioni Preliminari 2, co. 1.
[5] In riferimento a quanto scritto da V. Labaux, The un standard minimum rules for the treatment of prisoners – An updated blueprint for prison management in the 21st century .
[6] UNODC , the Mandela Rules, Rule 1.
[7] Così come modificato a seguito della procedura di revisione da parte de “ Group of experts” a partire dal 1955; V. Labaux, op. cit., 161.
[8] UNODC , the Mandela Rules, Rule 2, co.1.
[9] Inciso aggiunto successivamente dal c.d. “Group of Expert” , V. Labaux, op.cit., 162; UNODC, the Mandela Rules, Rule 5, co. 2.
[10] UNODC, the Mandela Rules, Rule 3.
[11] Ivi, Rule 4 , co.1.
[12] Ivi, Rule 4 , co. 2.
[13] Ivi, Rule 5.
[14] Si veda in merito V. Labaux, op. cit., 166.
[15] Office Of The High Commissioner UN.
[16] A. Gilmour, op. cit.
[17] Press And Information Office, Cyprus Prisons Department, in Cyprus Network, 2005.

[18] Ibidem.
[19] Dichiarazioni rilasciate nel corso di un’intervista nella serie Netflix “ Inside the World’s Toughest Prisons : Cyprus the revolutionary prison”.
[20] C. Scialla, L’inafferrabile reato di tortura nello spazio della detenzione, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2022, vol. 4, 96.
[21] G. Della Morte, La situazione carceraria italiana viola strutturalmente gli standard sui diritti umani (a margine della sentenza Torreggiani c. Italia), in Diritti Umani e Diritto Internazionale, Il Mulino, vol. 7, 2013, n. 1, 148.
[22] Come segnalato ne VII Rapporto Nazionale sulle condizioni di detenzione, Da Stefano Cucchi a tutti gli altri, in Antigone, saranno di seguito riportati ulteriori dati sui numeri del sistema penitenziario italiano per un quadro più generale, 44.612 i posti letto regolamentari; 68.527 detenuti; 43,7% composto da imputati. Record europeo; 15.233 i detenuti in attesa di primo giudizio; 4,35% donne; 2,6% internati; 57 i bambini sotto i tre anni; 11 le donne in gravidanza; 18 gli asili nido funzionanti; 22.675 i detenuti che hanno figli fuori dal carcere; 877 i semiliberi; 7.800 le persone le persone in affidamento in prova.
[23] ECtHR, Torreggiani e altri c. Italia , 08/01/2013, ricorso n. 43517/09, 46882/09, 55400/09 et al., para. 29.
[24] Dati tratti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato statistica ed automazione di supporto dipartimentale – Sezione Statistica. I dati sono rilevati il 31 dicembre di ogni anno. ; Rif. R. Cadin, L.Manca, I diritti umani dei detenuti, tra diritto internazionale, ordinamento interno e opinione pubblica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, 157.
[25] ECtHR, Sulejmanovic c. Italia, 16/07/2009, ricorso n. 22635/03.
[26] M. Migliaccio, Il sovraffollamento carcerario in Italia : la sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cultura e diritti : per una formazione giuridica, II, 3, Pisa : Pisa University Press, 2013, 142.
[27] R. Cadin, L.Manca, op. cit., 108 ss.
[28] ECtHR, Sulejmanovic c. Italia, 16/07/2009, ricorso n. 22635/03, para. 41.
[29]Ivi, paras. 97 ss.
[30] Reportdel Comitato contro la Tortura, 01/12/2007 (A/62/44, § 40 C), reiterando la sua precedente Raccomandazione afferma “that the State party proceed to incorporate into domestic law the crime of torture and adopt a definition of torture that covers all the elements contained in article 1 of the Convention. The State party should also ensure that these offences are punished by appropriate penalties which take into account their grave nature, as set out in article 4, paragraph 2, of the Convention”.
[31] Cfr. Rapporto 19/11/2013, CPT.
[32] La procedura delle sentenze pilota consente alla Corte di indicare misure generali che lo Stato dovrebbe adottare per contrastare una situazione di incompatibilità strutturale con la Convenzione europea.
[33] ECtHR, Broniowski c. Polonia, 22/06/2004, ricorso n. 31443/96, paras. 42-43.  
[34] R. Cadin, L.Manca, op. cit., 122.
[35] G. Della Morte, op. cit., 155.
[36] F. Favuzza, Torreggiani and Prison Overcrowding in Italy, in Human Rights Law Review, Oxford University Press, 2017, 172.
[37] Rif., Sent. Sulejmanovic c. Italia, para. 14.
[38] R. Cadin, L.Manca, op. cit., 118.

[39] Sent. Torreggiani c. Italia, Cit., paras. 41- 43.
[40] Sent. Torreggiani c. Italia, Cit., paras. 44 e 45.
[41] Sent. Sulejmanovic c. Italia, cit., paras. 38 ss.
[42] Sent. Torreggiani c. Italia, cit., para. 49.
[43] Ibidem.
[44] Sent. Torreggiani c. Italia, cit., para. 50.
[45] R. Cadin, L.Manca, op. cit., 119.
[46] Sent. Torreggiani c. Italia, cit., paras. 51 ss.
[47] Sent. Torreggiani c. Italia,cit., para. 54.
[48] Sent. Torreggiani c. Italia, cit., para. 69.
[49] M. Migliaccio, op. cit., 144.
[50] Sent. Torreggiani c. Italia, para. 99.
[51] M. Migliaccio, op. cit., 142-143.
[52] G. Della Morte, op. cit., 157.
[53] ECtHR, Cestaro c. Italia, 07/04/2015, ricorso n. 6884/11.
[54] M. Picchi, The Condemnation of the Italian State for Violation of the Prohibition of Torture, in Journal of Law and Social Sciences, Vol.4 No.2, 2015,  27 ss.
[55] ECtHR, Cestaro c. Italia, 07/04/2015, ricorso n. 6884/11, para. 246.
[56] M. Picchi, op. cit., 29.
[57] F. Favuzza, op.cit., 160.
[58] Misure introdotte con decreto legge n. 78/2013 ‘Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena’ in G.U. n. 153 del 2 luglio 2013, convertito e modificato con legge n. 94 del 9 agosto 2013, in G.U. n. 193 del 19 agosto 2013.
[59] Introdotto con il decreto legge n. 146/2013 c.d. “svuotacarceri” ‘Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria’ in G.U. Serie Generale, n. 300 del 23 dicembre 2013, convertito con legge n.10 del 21 febbraio 2014, in G.U., Serie Generale, n. 43 del 21 febbraio 2014.
[60]F. Favuzza, op. cit., 162.
[61] XIV rapporto sulle condizioni di detenzione, Un anno in carcere, in Antigone, 2018, 16.
[62] R. Cadin, L.Manca, op. cit., 128.
[63] F. Favuzza, op. cit., 162.
[64] Ivi, 163.
[65] R. Cadin, L.Manca, op. cit., 129.
[66] Introdotto con il decreto legge n. 92/2014, , in G.U., Serie Generale, n. 147 del 27 giugno 2014, convertito con legge 11 agosto 2014 n.117, in G.U. n. 192 del 20 agosto 2014.
[67] R. Cadin, L.Manca, op. cit.,129.
[68] F. Favuzza, op. cit., 173.
[69] Articolo 613 bis Codice Penale Italiano : Chiunque,  con  violenze  o  minacce  gravi,  ovvero  agendo  con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile  trauma psichico a una persona privata della libertà  personale  o  affidata alla sua custodia, potestà  vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito  con la pena della reclusione da quattro a  dieci  anni  se  il  fatto è  commesso mediante più condotte ovvero  se  comporta  un  trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.


*Dott.ssa in Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Federico II


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