La figura dell’ergastolo ostativo pone da sempre dubbi di compatibilità con i principi costituzionali e convenzionali, come confermano, peraltro, gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza interna e sovranazionale.
La recente modifica dell’art. 4-bis ord. pen. (in forza del d.l. n. 162 del 2022, convertito nella legge n. 199 del 2022) sembrerebbe essersi mossa nel senso di garantire un superamento delle criticità riscontrate. Agli interpreti l’ardua sentenza: avrà la riforma Cartabia armonizzato l’ergastolo ostativo con la funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla pena?
A cura di Maria Di Lauro
Fondamento e funzione della pena: a cosa serve la sanzione penale
La pena è la conseguenza pregiudizievole connessa alla violazione di un precetto penale e si traduce nella limitazione dei diritti di cui è titolare l’autore dell’illecito.
Un vastissimo dibattito si è sviluppato, negli anni, con riguardo al fondamento della pena e alla finalità che si intende perseguire attraverso la sua irrogazione ed esecuzione.
Sul punto, sono state elaborate, in particolare, quattro teorie.
Secondo la teoria retributiva, la pena è il compenso per il male arrecato e rappresenta il mezzo con cui lo Stato ristabilisce idealmente l’ordine violato. Ciò implica che la stessa sia personale, inderogabile e proporzionata alla gravità del fatto commesso.
La teoria dell’emenda sostiene, invece, che la pena sia protesa al ravvedimento morale del reo.
A una logica utilitaristica si ispira la teoria della prevenzione generale, che assegna alla pena una funzione deterrente.
La teoria della prevenzione speciale attribuisce, infine, alla pena la funzione di elidere o, quantomeno, ridurre il pericolo che il reo, in futuro, ricada nella commissione di ulteriori reati.
In realtà, nessuna delle menzionate teorie è da sola idonea a spiegare il senso della punizione, che, nei moderni ordinamenti, ha una connotazione plurifunzionale. Ne consegue che la pena deve essere non solo “giusta”, ma anche “utile” per il reo e per la collettività.
Questa impostazione è confermata dalla Carta Costituzionale e, in particolare, dall’art. 27 comma 3 Cost., il quale stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
L’esplicito riferimento alla “funzione rieducativa” porta ad escludere che, tra i principi che caratterizzano la sanzione penale, figuri quello di obbligatorietà della pena, derivante dal modello retributivo puro. Una conferma in tal senso deriva, del resto, dall’art. 131 bis c.p., il quale dimostra che la rinuncia all’espiazione presenta, talvolta, un’utilità maggiore rispetto all’espiazione stessa.
Pertanto, nell’ottica del Costituente, la pena è soggetta alla legge (art. 25 co. 2 Cost); è personale (art. 27 co. 1 Cost.); è commisurata alla gravità del fatto commesso e alla colpevolezza dell’agente (artt. 3 e 27 co. 3 Cost.); è umana (27 co. 3 Cost. prima parte) e deve tendere alla rieducazione del condannato (27 co. 3 Cost. seconda parte).
Ciò posto, sul concetto di rieducazione sono state formulate nel tempo diverse opinioni.
Per un risalente orientamento dottrinale la rieducazione andava intesa in senso morale: la funzione ineludibile della pena era quella di ingenerare nel reo un processo di pentimento.
L’orientamento oggi predominante ritiene, invece, che la rieducazione vada intesa come sinonimo di risocializzazione del condannato, in vista del futuro rientro in società. Aderire alla concezione morale comporterebbe, infatti, il rischio di irrogare una pena inutile poiché il reo, una volta rientrato nella comunità, si confronterebbe con un contesto sociale, culturale ed economico che gli è estraneo.
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L’ergastolo e la funzione rieducativa della pena: dubbi di compatibilità
La funzione rieducativa (in senso sociale) che la Carta Costituzionale assegna alla sanzione penale pone dubbi di compatibilità con la pena dell’ergastolo.
L’ergastolo è la pena più grave tra quelle previste dall’ordinamento giuridico italiano e consiste nella privazione della libertà personale per tutta la vita.
Alcuni interpreti hanno sostenuto che l’art. 27 co. 3 Cost. non espone di per sé la pena in commento a una censura di incostituzionalità in quanto l’evoluzione normativa l’ha di fatto privata dell’originario carattere della perpetuità.
In realtà, bisogna distinguere due tipi di ergastolo.
L’ergastolo cd. “comune” consente sempre al condannato di accedere al lavoro all’esterno, ai permessi premio, alla semilibertà e alla liberazione condizionale.
Proprio quest’ultima assicura la compatibilità dell’ergastolo con i principi costituzionali e, in particolare, con quello che affida alla pena lo scopo di risocializzazione del reo.
L’ergastolano ordinario per accedere alla liberazione condizionale deve avere scontato almeno ventisei anni di reclusione, comprese le liberazioni condizionali, e deve aver posto in essere dei comportamenti idonei a dimostrare la convinta revisione critica delle pregresse scelte; lo stesso deve aver adempimento, inoltre, le obbligazioni civili derivanti da reato ovvero fornire la prova dell’impossibilità di adempierle.
Se sussistono queste condizioni, l’esecuzione della pena residua viene sospesa per cinque anni e l’ergastolano è sottoposto a libertà vigilata con l’imposizione di specifiche prescrizioni. La libertà vigilata viene, tuttavia, revocata se il condannato trasgredisce le prescrizioni ovvero se commette un altro delitto o contravvenzione della stessa indole che renda incompatibile la prosecuzione del beneficio. In caso di revoca del beneficio, esso può essere concesso di nuovo, secondo quanto stabilito dalla Corte Cost. nella sentenza 161/97.
L’espressione “ergastolo ostativo” è stata coniata, invece, dalla dottrina ed è riferita alla pena perpetua irrogata per uno dei c.d. reati ostativi di “prima fascia” compresi nel catalogo di cui all’art. 4-bis co. 1 ord. pen.
Per tali fattispecie delittuose era originariamente prevista una preclusione assoluta di qualsivoglia beneficio penitenziario (ad eccezione della liberazione anticipata) se il condannato non avesse instaurato un valido rapporto di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ord. pen. Alla collaborazione effettivamente prestata, il legislatore aveva, poi, equiparato le ipotesi di collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante.
Sulla scorta di ciò, parte della dottrina ha sostenuto che la prevalenza assegnata, in questi casi, alle esigenze di prevenzione generale e difesa sociale compromettesse la finalità rieducativa della pena costituzionalmente imposta e, quindi, che la disciplina dell’ergastolo ostativo necessitasse di una riforma.
La parola alla Corte EDU: il caso Viola contro Italia
Il dibattito domestico in tema di ergastolo ostativo si è, di recente, infiammato a causa della sentenza della Corte EDU nel caso Viola contro Italia (pronunciata il 13 giugno 2019 e divenuta definitiva il 5 ottobre 2019), in cui i giudici di Strasburgo, dopo aver ribadito che l’ergastolo non riducibile è astrattamente compatibile con i principi convenzionali, hanno dichiarato che l’istituto di cui all’art. 4-bis l. 354/1975 è in contrasto con l’art. 3 CEDU.
L’ordinamento italiano consente, infatti, all’ergastolano ostativo di accedere ai benefici penitenziari solo se decide di collaborare con la giustizia, escludendo così che la condanna sia effettivamente usque ad mortem.
Tuttavia, risulta inammissibile, secondo la Corte, l’equivalenza tra il rifiuto di collaborare e la pericolosità sociale del reo.
La scelta di non collaborare con le autorità non può sempre considerarsi una scelta libera e volontaria ovvero sintomo di un persistente legame con la criminalità organizzata. Allo stesso modo, la collaborazione con la giustizia potrebbe essere mossa da motivi opportunistici e non da una effettiva dissociazione dall’ambiente criminale.
Pertanto, la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente a norma dell’art. 4-bis co. 1 ord. pen., limitando eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di ottenere un riesame della pena, è da considerarsi inumana e, quindi, incompatibile con l’art. 3 della Convenzione.
Di qui la pronuncia di condanna dello Stato italiano: la disciplina dell’ergastolo ostativo costituisce, infatti, un problema strutturale, che impone una modifica, da attuare preferibilmente attraverso l’intervento del legislatore.
La posizione della Corte Costituzionale: la sentenza n. 253 del 2019 e l’ordinanza n. 97 del 2021
A distanza di pochi mesi dalla pronuncia resa dalla Corte EDU, stante l’inerzia del legislatore interno, anche la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’ergastolo ostativo. Con la sentenza n. 253 del 2019, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis co. 1 ord. pen. nella parte in cui nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti ivi contemplati, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva sia il pericolo del ripristino di tali connessioni.
In particolare, è stato sostenuto che la presunzione assoluta di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata confligge con i principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. perché risulta insensibile alle circostanze personali e ambientali e ai relativi mutamenti. Potrebbe accadere, infatti, che la personalità del condannato si modifichi in ragione dell’opera di rieducazione attuata durante la detenzione ovvero che l’associazione criminale di riferimento si estingua o si modifichi. In questi casi, è inammissibile continuare a punire il condannato solo perché ha scelto di non collaborare quando vi siano elementi atti a dimostrare la recisione dei legami con il sodalizio criminoso.
Pertanto, la presunzione di pericolosità da assoluta diviene relativa: spetterà al magistrato di sorveglianza valutare, caso per caso, se l’ergastolano ostativo è idoneo ad accedere ai benefici penitenziari.
La sentenza n. 253/2019, pur avendo aperto la strada al superamento dell’ostatività, ha inciso solo sul regime dei permessi premio: per gli altri benefici penitenziari e, in particolare, per la liberazione condizionale restava ferma la necessità della collaborazione, salvo i casi in cui questa risultasse impossibile, inesigibile o irrilevante.
Pertanto, a distanza di otto mesi dalla pronuncia di incostituzionalità, la Prima Sezione penale della Corte di cassazione, con ordinanza del 3 giugno 2020, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis comma 1 e 58-ter ord. pen., nonché dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi in contesti mafiosi, che non abbia collaborato con la giustizia.
La Corte costituzionale, che si è pronunciata con l’ordinanza n. 97 del 2021, ha optato, però, per il rinvio della decisione. La ragione di questa scelta va individuata nel fatto che il giudizio aveva ad oggetto aspetti centrali della normativa impugnata, riferendosi alla pena di massimo rigore e al beneficio di massima ampiezza per l’ergastolano.
Il legislatore interno, accogliendo il monito del Giudice delle Leggi, è intervenuto con il d.l. 31 ottobre 2022, n.162, convertito nella l. 30 dicembre 2022, n. 199, dettando la nuova disciplina in tema di reati ostativi, attraverso la modifica dell’art. 4-bis ord. pen.
Ciò ha permesso alla Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 227 dell’8 novembre 2022, di disporre la restituzione degli atti al giudice rimettente, al fine di valutare la portata applicativa dello ius superveniens nel giudizio a quo.
La riforma dell’ostatività penitenziaria
Il legislatore della riforma ha confermato il sistema del doppio binario, mantenendo ferma la distinzione tra reati comuni e ostativi.
Quanto ai reati ostativi di prima fascia, è stata poi confermata la possibilità di superare il regime preclusivo attraverso l’utile collaborazione con le autorità ex art. 58-ter ord. pen. È stato eliminato, invece, il riferimento alla collaborazione impossibile, inesigibile e irrilevante.
Il legislatore ha riscritto anche il comma 1 bis dell’art. 4-bis ord. pen., prevedendo che, per i reati ostativi di prima fascia, i benefici del permesso premio, le misure alternative alla detenzione nonché la liberazione condizionale possono essere concessi anche al condannato non collaborante purché questi dimostri l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna ovvero l’assoluta impossibilità di adempiervi; alleghi elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al programma rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dal sodalizio criminoso, che dimostrino l’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata e con il contesto in cui è stato commesso il reato; alleghi elementi specifici che escludano il pericolo di ripristino di legami con gli ambienti criminali, potendo, a tal fine, rappresentare le ragioni che lo hanno indotto a non collaborare.
Ai fini della concessione dei benefici, il giudice accerta, altresì, le iniziative intraprese dall’interessato a favore delle vittime sia nelle forme risarcitorie che della giustizia riparativa.
Così come è stata riformulata, la norma in commento suscita delle perplessità.
Essa si presenta, infatti, densa di oneri di allegazione e di concetti elastici al punto che autorevole dottrina ha paventato il rischio di un passaggio dalla presunzione assoluta di pericolosità sociale alla prova impossibile di non pericolosità sociale.
Foto copertina: Ergastolo ostativo