Un’estate di fuoco per la MINUSMA e la MONUSCO che fanno riflettere sullo stato di salute delle missioni ONU in Africa.
Il contesto securitario degradato in RDC fa aumentare il malcontento della popolazione
Il teatro è quello della provincia del Nord Kivu, ormai terra di nessuno in cui si mescolano l’esercito ugandese, le Allied Democratic Forces, l’esercito congolese, l’ONU e altre milizie armate minori che prostrano un contesto umanitario già compromesso da trent’anni.[1] A marzo gli scontri nella provincia orientale si sono riaccesi, provocando 140 000 sfollati interni e facendo fuggire più di 40 000 persone nella vicina Uganda.[2] In questo contesto, verso la fine di luglio sono riprese le proteste dei civili nei confronti della missione MONUSCO che il 26 luglio hanno portato alla morte di quattro caschi blu e dodici civili tra Goma e Butembo. L’apice delle violenze è arrivato il 31 luglio nei pressi della città di confine Kasindi, dove alcuni caschi blu della missione ONU per ragioni inspiegabili hanno aperto il fuoco sui civili, provocando due vittime e quasi una quindicina di feriti. Un epilogo scandaloso che ha alimentato le manifestazioni richiedenti il ritiro della missione, considerata troppo passiva nei confronti dei gruppi armati e non in grado di proteggere i civili. Nel frettoloso comunicato della capo-missione Bintou Keita si legge che i responsabili sono in stato d’arresto e in collaborazione con le autorità congolesi si sta procedendo all’indagine. Inoltre sono stati presi contatti con le autorità dei Paesi di provenienza degli indagati per procedere all’apertura di un procedimento giudiziario. La pressione delle manifestazioni civili, esplicitata anche in attacchi alle postazioni della missione, aveva portato qualche giorno prima il governo congolese ad indurire i toni richiedendo l’espulsione del portavoce della MONUSCO Mathias Gillmann e il ritiro della missione prima della scadenza del suo mandato naturale, stabilito per il 2024. Questo cambio di rotta è indicativo, infatti dall’inizio del mandato di Felix Tshisekedi i rapporti con la missione si erano ammorbiditi, al momento il malcontento dei civili sta facendo virare le posizioni del governo.
La MINUSMA in Mali incontra aperto ostruzionismo
Il 22 luglio il ministro degli affari esteri maliano ha invitato il portavoce della missione a lasciare il Paese dopo che 49 soldati ivoriani, membri della MINUSMA, sono stati fermati all’aeroporto di Bamako con l’accusa di essere mercenari pronti alla destabilizzazione del governo instauratosi a seguito del colpo di stato. La mancata consegna dell’ordine di missione e dei piani di volo dell’aereo che ospitava i soldati ha generato una forte tensione che ha fatto pensare che dall’estero si stesse organizzando un colpo di stato per cacciare il governo di Assimi Goita.[3] Questo incidente ha provocato la sospensione fino a nuovo ordine della rotazione dei contingenti militari e di polizia della missione da parte di Bamako, che sta bloccando sul suo territorio circa 3500 unità di cui era previsto il cambio nei mesi prossimi. Le misure intraprese potrebbero essere viste come il tentativo di cacciare la MINUSMA, presente sul territorio dal 2013, infatti negli ultimi mesi alle proteste anti francesi contro la missione Barkhane si sono affiancate anche quelle contro le forze ONU. Il personale onusiano non ha vita facile nel Paese, dall’arrivo della Wagner l’ostruzionismo governativo nei confronti delle varie attività è aumentato. Per esempio è stato negato l’accesso ai territori in cui si sospetta che l’esercito, in collaborazione con i russi, abbia ucciso centinaia di civili paventando l’idea che la MINUSMA stia operando una campagna di disinformazione per screditare l’autorità governativa.
Gli spettri del passato: le missioni in Somalia e Ruanda
Testo con note a piè di pagina Nel gennaio 1992 il rappresentante somalo alle Nazioni unite richiedeva l’intervento a seguito di una combinazione di guerra civile e grande carestia che aveva provocato una situazione umanitaria di proporzioni spaventose, da cui il Paese non riusciva a tirarsene fuori. Il Consiglio di sicurezza adottava allora la risoluzione 733 che prevedeva un cessate il fuoco, embargo sulle armi, assistenza umanitaria. Con risoluzione successiva veniva creata UNISOM I per fare fronte alle continue violenze e supportare gli aiuti umanitari. La forza inizialmente stanziata, circa 3500 unità, non era in grado di fronteggiare gli attacchi alle forniture umanitarie, per facilitare quindi l’assistenza umanitaria un’altra risoluzione autorizzava gli stati membri ad adottare qualsiasi misura per stabilire più rapidamente un contesto più sicuro. In questo modo si gettavano le basi legali per l’operazione statunitense Restore Hope, i cui contingenti rimasti a marzo 1993 venivano assorbiti nella nuova missione UNISOM II. Le diverse milizie all’interno della capitale e nei territori circostanti sono state le più grandi sfide per attori internazionali presenti sul posto, questi ultimi non ne sono usciti con una buona reputazione. Il fallimento di UNISOM si reputa sia stato in gran parte dovuto dagli atteggiamenti tenuti principalmente da Washington, che si ripercuoteranno sull’altro grande scenario che ha segnato il mondo, il genocidio del Ruanda.
Tra il 1993 e il 1994 l’UNAMIR era stata autorizzata a supportare l’implementazione degli Accordi di Arusha, alla missione però mancavano i mezzi e le autorizzazioni per compiere il mandato sul territorio. La stessa risoluzione adottata per lo svolgimento della missione dimostrava la riluttanza del Consiglio di sicurezza nel creare una forza più decisa, riluttanza determinata anche dal fatto che nei giorni precedenti la decisione, 18 soldati statunitensi dell’UNITAF erano caduti a Mogadiscio.[4] Il mandato non prevedeva la raccolta delle armi, la protezione dei civili e la forza impiegata era insufficiente a supportare la transizione politica all’interno del Paese. È così che all’allarme lanciato dal comandante in capo delle operazioni Dallaire, New York ha rispondeva negativamente, consegnando i tutsi e gli hutu moderati nelle mani dei loro carnefici. Per ammissione dello stesso Kofi Annan l’UNAMIR non era stata in grado di prevenire ed arginare il genocidio,[5] sentenziando il fallimento dell’intero sistema onusiano.
Le vecchie e le nuove sfide delle Nazioni Unite
Le missioni di peacekeeping delle Nazioni unite sono state create per svolgere le loro attività in contesti instabili dal punto di vista securitario e geopolitico, altrimenti non si chiamerebbero in questo modo. Gli scenari sono complessi per natura, coinvolgono molteplici attori, statali e non, in cui si sviluppano dinamiche molto labili e impreviste. Nel corso degli anni si è assistito ad un’evoluzione della teoria e della pratica delle operazioni, cercando soluzioni alle nuove sfide e opportunità quali la regionalizzazione delle operazioni di pace, la privatizzazione delle operazioni, una più efficace protezione dei civili con particolare attenzione alla questione di genere e allo sfruttamento e abuso sessuale di cui negli ultimi anni sono stati protagonisti (inevitabilmente) anche gli stessi membri onusiani. Notizie gravissime che negli ultimi anni balzano prontamente sulla stampa internazionale e che non devono essere messe in secondo piano, anche perché la trasparenza delle Nazioni unite, quando avvengono determinati episodi – si veda l’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo – lascia molto a desiderare.
Ombre ce ne sono molte nel sistema, ma ci sono anche le luci. Il British Journal of Political Sciences ha pubblicato nel 2020 uno studio sulla relazione tra operazioni di peacekeeping e pace, tenendo in considerazione le conseguenze negative che può portare lo stanziamento di una missione.[6] Si evidenzia che sono state in grado di contenere le violenze, di evitare il peggioramento delle stesse, e in grado di supportare le istituzioni, ovviamente se le controparti con cui si interfacciano, sono relativamente determinate e in linea con la missione. Come nei casi della MINUSMA e della MONUSCO prima citati, se una delle controparti non è più a favore della missione, è inevitabile che il successo si allontani. Una nota: il peacekeeping si differenzia dalle operazioni militari, si basa infatti su tre principi fondamentali: consenso tra le parti, imparzialità e soprattutto non utilizzo dell’uso della forza se non in caso di autodifesa e/o difesa del mandato. Questi ultimi si distinguono sinteticamente in protezione dei civili, prevenzione dei conflitti o stabilizzazione se sono in atto, implementazione dello stato di diritto, promozione dei diritti.[7]
Note
[1] https://www.opiniojuris.it/africa-la-regione-dei-grandi-laghi-potrebbe-cadere-nelle-mani-dellisis/
[2] Stime del report OCHA, 21 luglio 2022 file:///C:/Users/Alessia/Downloads/Re%CC%81ponse_Nord-Kivu_Snapshot_crise_Rutshuru_Nyiragongo_FR.pdf
[3] A. Cannone, A che punto è il processo di transizione in Mali?, Opinio Juris Luglio 2021, https://www.opiniojuris.it/a-che-punto-e-il-processo-di-transizione-in-mali/
[4] A. Cannone, A che punto è il processo di transizione in Mali?, Opinio Juris Luglio 2021, https://www.opiniojuris.it/a-che-punto-e-il-processo-di-transizione-in-mali/
[5] K. Annan, Conferenza commemorativa sul genocidio del Ruanda, 2004 https://press.un.org/en/2004/sgsm9223.doc.htm
[6] B. F. Walter, L. M. Howard, V. P. Fortna, The Extraordinary Relationship between Peacekeeping and Peace, British Journal of Political Science, 24 Novembre 2020, https://www.cambridge.org/core/journals/british-journal-of-political-science/article/abs/extraordinary-relationship-between-peacekeeping-and-peace/D2D5D262B60315387B0B23D1D4F79CC9
[7] https://peacekeeping.un.org/en/principles-of-peacekeeping