“Scenari di geopolitica per il millennio – Dall’eldorado industrializzato alla crisi planetaria” a cura di Corrado Maria Daclon, edito da Aracne, analizza i possibili scenari e le sfide che ci attendono nei prossimi decenni.
Come sarà il mondo del futuro? Quali sole principali sfide che attendono i governi nei prossimi decenni? Dopo un trentennio di unipolarismo di marca statunitense, il mondo si va articolando verso diversi poli di potere e ricchezza, ciascuno con la propria cultura, identità, tradizione e visione strategica. Un mondo retto da un “multipolarismo disarchico” dove gli interessi possono convergere laddove l’interdipendenza economica non permette altrimenti, ma sotto costante rischio di conflitto a causa delle aspirazioni dei paesi alle leadership regionali o mondiali.

Instabilità dovute agli effetti dei cambiamenti climatici, i conflitti legati all’accaparramento delle risorse energetiche ed idriche, le sfide legate alle crisi alimentari e alla necessità di dover garantire cibo a miliardi di persone sul pianeta. E ancora energia, lavoro, sicurezza tutti temi di primaria importanza.
Per capirne di più, ne parliamo con l’autore del libro: Corrado Maria Daclon, docente di geopolitica presso università italiane ed europee e presso la SIOI (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale), prova a rispondere a queste domande, delineando un quadro interessante per il futuro che ci attende.
Secondo molti analisti, gli Stati Uniti non riusciranno a mantenere la leadership mondiale anche nel XXI secolo. Ci avviamo ad una transizione verso un mondo a trazione cinese, russa o europea? Oppure verso un mondo multipolare?
Non condivido questa analisi. La leadership mondiale degli Stati Uniti è un dato oggettivo frutto di analisi multifattoriali che vanno dalla demografia all’economia alla difesa e così via, ed è fortemente strutturata da non poter essere surrogata rapidamente. Dal profilo geopolitico soggetti come la Russia o l’Europa semplicemente non esistono sul piano competitivo. E anche la Cina, a parte l’economia manifatturiera, è di gran lunga lontana da un dominio geopolitico che non sia limitato ad alcune regioni. Un solo esempio: la spesa militare degli Stati Uniti, da sola, è maggiore di quella di tutti i 10 Paesi che la seguono messi insieme, cioè l’America spende di più per la difesa della somma delle spese di Cina, Regno Unito, Francia Russia, Germania, Giappone, Italia, Arabia Saudita, India, Corea del Sud. La geografia cinese rende impossibili tali trasporti via terra, per quella che è la conformazione della regione, con quindi unico sbocco il mare, che vincola il traffico commerciale cinese all’attraversamento dello Stretto della Malacca fra l’Oceano Indiano e il Mar Cinese Meridionale e lo espone ad ogni rischio di embargo, sanzioni internazionali e in primo luogo possibili blocchi navali. Basterebbe un semplice blocco navale di 4-5 settimane per mettere completamente in ginocchio l’intero sistema economico e finanziario del gigante cinese. Per questo motivo geopolitico la Cina, salvo le analisi di alcuni poco obiettivi appassionati del Paese asiatico, potrà essere una straordinaria potenza regionale, ma non potrà mai divenire una potenza globale.
Come valuta la politica estera di Trump e cosa si aspetta, sempre in tema di politica estera, dal nuovo presidente Joe Biden?
“America First” non era solo uno slogan ma la sintesi di una dottrina che vede gli USA con un sempre minore impegno verso l’esterno. Un proseguimento della presidenza Trump avrebbe consolidato in modo pressoché strutturale il disimpegno verso l’esterno, anche dal punto di vista economico e strategico, e quindi l’abbandono di ogni visione di potenza unipolare. Un disimpegno di sistema di questa portata avrebbe richiesto tempi molto lunghi per essere eventualmente rovesciato da un’altra amministrazione, e non è detto che con la velocità dell’evoluzione degli scenari questo sia possibile, perché ogni spazio geopolitico abbandonato viene occupato da altri, un po’ come nella fisica. Basta vedere, solo per l’esempio più facile, come la Cina abbia di fatto acquisito, nel pieno senso del termine, buona parte del continente africano dopo il disinteresse dell’Occidente per questi territori. Viceversa, la sconfitta di Trump porterà a ritessere la trama geopolitica verso la dottrina unipolare, ripristinando gli interventi e le posizioni su scenari anche molto distanti geograficamente e politicamente come per esempio il Medio Oriente.
Nel 1989 l’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Boutros-Ghali osservò che “La sicurezza nazionale dell’Egitto è nelle mani di altri otto paesi africani”, in riferimento ai problemi idrici. Oggi più che mai si parla di “guerra per l’acqua” come uno dei maggiori rischi per gli equilibri internazionali.
La minaccia di una guerra per il controllo di territori ricchi di petrolio non rappresenta niente di nuovo, ma in un futuro di breve-medio termine l’acqua potrebbe accendere più conflitti politici e militari dell’oro nero. In alcune regioni del mondo la scarsità di acqua potrebbe diventare quello che la crisi dei prezzi del petrolio è stata negli anni Settanta: una fonte importante di instabilità economica e politica. Quasi il 40% della popolazione mondiale dipende da sistemi fluviali comuni a due o più Paesi. L’India e il Bangladesh disputano sul Gange, il Messico e gli Stati Uniti sul Colorado, la Repubblica Ceca e l’Ungheria sul Danubio. Una zona calda emergente è l’Asia centrale, dove 5 ex repubbliche sovietiche si dividono due fiumi già troppo sfruttati, l’Amu Darja e il Sjr Darja. Nel rapporto 2014 dell’Intergovernamental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite si parla chiaramente della prospettiva di una grande sete di fine secolo, stimando nel 2100 almeno un miliardo di persone senza acqua sufficiente nelle città, e una produzione di grano, mais e riso che crolla del 2% l’anno ogni 10 anni fondamentalmente per problemi legati alla carenza di risorse idriche.
Oggi i problemi che sorgono in una regione possono colpire e colpiscono realmente Paesi dall’altra parte del pianeta. Molti sono gli effetti che possono destabilizzare le popolazioni e contribuire ad emigrazioni di massa, tra questi si devono includere la carenza idrica, e le sue conseguenze come ad esempio gli scarsi raccolti agricoli e la desertificazione.
Il futuro della gestione delle risorse idriche appare quindi quanto mai complesso e delicato e allo stesso tempo sottovalutato dai governi e talvolta anche dalle organizzazioni sovranazionali, che non comprendono il potenziale di rischio socio-politico che deriva dall’uso e dalla disponibilità di questa importante risorsa ambientale.
Nel suo libro sostiene che l’invecchiamento della popolazione sarà un grave problema per la Cina (non solo), tanto da essere uno dei principali fattori di instabilità della regione.
Una delle conseguenze che costringerà, forse più di altre, le autorità cinesi a interventi drastici sul piano sociale è l’invecchiamento della popolazione. Oggi quella cinese è ancora una società piuttosto giovane. Nel 2005, infatti, gli anziani rappresentavano soltanto l’11% della popolazione. Tuttavia uno studio dell’ONU ha previsto che entro il 2040 la loro quota passerà al 28%, un dato che supera addirittura le previsioni che riguardano gli Stati Uniti. Entro il 2040 ci saranno 397 milioni di cinesi anziani, cioè una popolazione maggiore di quelle di Francia, Germania, Italia, Giappone e Regno Unito messe insieme. Inoltre, sempre secondo le stime dell’ONU, nel 2050 98 milioni di cinesi avranno più di 80 anni. Il modo in cui la Cina affronterà questa trasformazione demografica avrà un impatto decisivo sulle sue aspirazioni di diventare un Paese sviluppato. Una percentuale così alta di anziani come quella prevista nei prossimi decenni rischia di distruggere tutto lo sviluppo economico del Paese. Nel lungo periodo, deve trovare il modo di prendersi cura di un numero enormemente maggiore di anziani non autosufficienti senza carichi eccessivi per i contribuenti e le famiglie. Se non riesce a prepararsi all’invecchiamento della popolazione, nei prossimi decenni potrebbe trovarsi di fronte a una crisi economica e sociale di proporzioni immense.
I rapporti tra Cina e India si alternano tra periodi di cooperazione e amicizia ad altri caratterizzati da tensioni territoriali e scontri geopolitici. E’ più realistico immaginare una prospettiva di collaborazione strategica o di conflitto anche di tipo militare? E con quali conseguenze?
E’ difficile oggi azzardare una previsione. In una prospettiva di medio-lungo periodo, quando India e Cina avranno consolidato la propria crescita oppure la stessa crescita farà segnare dei rallentamenti, anche le relazioni sino-indiane potrebbero mutare. La cooperazione potrebbe non essere più un imperativo e potrebbe lasciar spazio alla competizione, dovuta alla comunanza di obiettivi strategici: l’accesso alla leadership internazionale, l’egemonia regionale e le rispettive aree di influenza a cominciare dalle acque dell’Asia meridionale, la corsa crescente all’approvvigionamento di energia e di risorse alimentari. Nella geopolitica di un mondo post-sovrano, dove le alleanze assumono una geometria variabile in funzione delle esigenze contingenti, l’equilibrio che oggi appare di fatto stabilizzato da accordi intergovernativi formali e collaborazioni tattiche, potrebbe nel giro di pochi decenni mutare. La prevista crisi della Cina, dovuta alla sproporzionata e irrazionale campana demografica causata dal blocco delle nascite voluto dal regime, che porterà buona parte della popolazione ad invecchiare tutta insieme, potrebbe essere la miccia di innesco di un’alterazione dell’equilibrio. Le conseguenze geopolitiche di tutto ciò non solo per la regione, ma per le relazioni internazionali mondiali, andranno valutate con attenzione.
In questa competizione geopolitica dove si delinea un mondo dominato da grandi potenze, che ruolo ricopre l’Europa? E all’interno dell’Europa quale ruolo per l’Italia?
Purtroppo, e lo dico con grande rammarico, l’Europa gioca un ruolo di secondo piano. Il fallimento di alcune politiche europee è chiaro. E’ vero, l’Europa è nata come accordo tra Stati su base economica, non militare. Ma parlare di Unione Europea quando invece ognuno ha ancora una propria politica estera, proprie ambasciate, una propria politica di difesa e un proprio esercito, rappresenta un caso unico nella storia. Il rifiuto, da parte di molti governi, di una intelligence comune e al contempo il mantenimento di strutture nazionali di sicurezza compartimentate, pur a fronte delle sfide globali, è l’ennesima miopia di questa Europa che non sa guardare ad un mondo sempre più post-sovrano. In un sistema globale interconnesso questioni che nel passato erano responsabilità dei singoli governi nazionali, come il contrasto al terrorismo, diventano oggi sempre più dipendenti da processi transnazionali. Anche l’intelligence ha acquisito, soprattutto dall’11 settembre ad oggi, una sempre più marcata connotazione sovranazionale, una dimensione nella quale l’interscambio di informazioni tra alleati assume un ruolo dirimente. In un mondo non più Stato-centrico, in un mondo post-sovrano, sarà esattamente la capacità di analisi strategica nel medio e lungo termine la vera risorsa della geopolitica globale, lo strumento essenziale per le alleanze che vorranno giocare nella leadership mondiale un ruolo da protagonisti e non da comprimari.
Il suo libro si conclude con un’analisi davvero preoccupante: entro il 2050 i governi dovranno farsi carico di masse di persone non utilizzabili e non impiegabili nelle posizioni lavorative che sopravvivranno. Come si potrà prevenire o gestire questa bomba geopolitica?
Non è affatto detto che si possa gestire. Nella mia analisi mi limito a fotografare uno scenario, e non credo che vi sia possibilità di mutarlo. La robotica e l’intelligenza artificiale cambieranno il mondo nel giro di un paio di decenni. Ma lo sconvolgeranno prima del 2050. Centinaia di milioni di disoccupati, il cui lavoro che svolgevano da una vita sarà scomparso, distrutto, cancellato per sempre. Nella storia vi sono sempre stati mutamenti, con la rivoluzione industriale quando si passò dalle campagne alle fabbriche, o più recentemente con il trasferimento di produzioni manifatturiere in Cina. Ma con la rivoluzione industriale non era certo un problema se i disoccupati di una fattoria lasciavano l’aratro e la mungitura e andavano ad avvitare piastre in una fabbrica. Si trattava pur sempre di masse prive di specializzazioni particolari e facilmente adattabili e riconvertibili.
Oggi tutto è diverso. Quando a breve le cassiere dei supermercati non esisteranno più, come già accade nei negozi Amazon negli USA e presto nei centri commerciali Walmart, queste impiegate non potranno diventare progettisti di microrganismi per nuovi farmaci, oppure tecnici per la gestione del software dei droni militari, oppure manutentori di microimpianti dell’intelligenza artificiale nella telemedicina.
La loro bassa specializzazione e bassa trasversalità sarà un lavoro di esclusiva pertinenza dei robot. Il collasso della domanda dei consumi determinato dal coronavirus è solo una modestissima anticipazione della tempesta sociale che ci attende da qui a qualche decennio.
Foto copertina: Immagine libro