Strategia, competizione e interesse nazionale attraverso il diritto: la “legge del più forte”


Il rafforzamento delle normative protettive, le sanzioni, il controllo degli investimenti e delle esportazioni sono la prova di come gli Stati ricorrano allo strumento giuridico in nome dell’interesse nazionale. Il fine ultimo è garantire realisticamente l’esercizio della sovranità e la sopravvivenza dell’architettura statale stessa.
Può il diritto essere considerato arma della politica in un contesto globale competitivo? Un commento al saggio di Luca Picotti “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (LUP, 2023).


 A cura di Valentina Chabert

Se il diritto viene spesso associato a staticità, aridità e incapacità di adattarsi in maniera celere ai cambiamenti del presente, il volume di Luca Picotti “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press, 2023. Acquista qui) porta ad un sostanziale ripensamento di tale prospettiva nel contesto dell’analisi dell’interesse nazionale, della competizione statale e dei più ampi paradigmi securitari contemporanei. Un focus sul diritto – compresi i suoi limiti – permette infatti di cogliere le sfumature dell’ampia gamma di strumenti di cui dispongono gli Stati nel contesto competitivo globale del presente.  Centrale in questa prospettiva è la cosiddetta “guerra economica”, ossia quell’insieme di pratiche adottate dagli Stati con l’obiettivo di indebolire ed eventualmente piegare economicamente Paesi considerati rivali o concorrenti. Un’infrastruttura i cui pilastri possono essere colti integralmente anche ponendo l’attenzione sull’insieme di leggi, regolamenti e provvedimenti statali che la compongono, sebbene gli scopi siano finalmente di natura geoeconomica. Nelle parole di Picotti, “la guerra economica in questo senso non è altro che l’effetto di una guerra combattuta con le armi del diritto”. Ancor più interessante, la guerra economica e il conseguente impiego dello strumento giuridico non si configurano solamente come pratiche offensive, bensì riguardano tutto il complesso normativo protezionistico attraverso il quale gli Stati tentano di tutelare i propri interessi nazionali e i settori che considerano strategici. L’impedimento dell’ingresso nel mercato domestico di imprese straniere connesse a realtà considerate ostili ne rappresenta un esempio.

L’evoluzione dell’uso politico del diritto

L’impiego del diritto per il raggiungimento di fini politici ed economici trova il suo fondamento nei flussi di capitale straniero – i cosiddetti Investimenti Diretti Esteri – che fanno il proprio ingresso in un’impresa che risiede sul territorio di un determinato Stato, con il fine di esercitarvi un controllo o comunque un’influenza. Ai flussi di capitale si è accompagnata l’eliminazione delle barriere, che a sua volta ha consentito la divisione del ciclo produttivo e il perseguimento di un’economia basata sul perseguimento dei vantaggi derivati dal concetto ricardiano del comparative advantage. Soprattutto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, le economie si sono integrate in lunghe catene del valore in cui lo Stato si è progressivamente ridimensionato a vantaggio del mercato, tanto da far aleggiare una parvenza di tramonto della statualità in favore della lex mercatoria degli scambi commerciali nell’euforia del processo di globalizzazione. Dai primi anni Duemila, tuttavia, iniziarono ad emergere i primi timori che l’integrazione economica senza condizioni e il progresso tecnologico potessero avere impatti negativi sulla sicurezza nazionale. L’inversione di tendenza può essere ricondotta in primis alla sensibilità per gli imperativi securitari a seguito degli attentati dell’11 settembre, nonché all’emergere di nuovi investitori asiatici e mediorientali con capacità in termini di risorse tali da permettere una notevole penetrazione nel mercato societario occidentale per mezzo di “mergers and acquisitions”. Non meno importante la crisi finanziaria del 2008, che tra le sue conseguenze ha avuto quella di esporre imprese (specialmente europee) ad acquisizioni straniere con il rischio di una progressiva perdita di controllo su settori considerati strategici. Il tutto amplificato, più recentemente, dalle vulnerabilità legate all’interconnessione e alla dipendenza dai dati, dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina e dalla conseguente crisi energetica.

Il diritto come forma di tutela dell’interesse nazionale statunitense

In un contesto di perseguimento di obiettivi strategici a prescindere dall’interferenza o meno sul mercato, una mancata menzione dell’architettura giuridica statunitense in materia di controllo delle esportazioni e di investimenti esteri risulterebbe disdicevole. Come riporta magistralmente l’autore, in riferimento agli Stati Uniti appare corretto impiegare il termine “capitalismo politico” per descrivere le modalità con cui lo sviluppo capitalista del Paese si intreccia all’interesse nazionale e alla proiezione imperiale fuori dai propri confini. Da qui la forte interconnessione tra pubblico, privato, politica e capitalismo, dai quali deriva la disciplina statunitense del controllo sugli investimenti esteri e il denso panorama di sanzioni, blocchi alle esportazioni e clausole di priorità nazionale. Dal Defense Production Act degli anni Cinquanta per lo screening degli investimenti diretti esteri al più recente Foreign Investment Risk Review Modernization Act voluto dall’amministrazione Trump, che ha ampliato il novero delle operazioni da scrutinare includendo anche investimenti immobiliari ubicati in prossimità di basi militari, negli Stati Uniti è riscontrabile un incrementale rafforzamento dell’infrastruttura giuridica che negli ultimi anni è intesa quasi esclusivamente a fronteggiare le minacce provenienti dalla Cina. Ne è un ulteriore esempio il ruolo del Bureau of Industry and Security del Dipartimento del Commercio, che sotto l’amministrazione Biden nel 2022 ha potenziato la già severa politica di controllo delle esportazioni verso Pechino, con l’intento di strangolare l’industria cinese dei semiconduttori.

L’interesse comunitario alla prova degli obiettivi strategici nazionali

Nell’approcciarsi all’Unione Europea, Luca Picotti analizza la questione dell’interesse nazionale e dell’impiego dell’architettura giuridica in maniera oltremodo lucida. Mentre gli Stati Uniti degli anni Novanta e dei primi anni Duemila uscivano dalla competizione con il Giappone per il dominio nel settore dei semiconduttori e le economie emergenti del sud-est asiatico si avvalevano di strumenti protezionistici per dar vita ai propri giganti, sul continente europeo si cristallizzava un’infrastruttura giuridica neutrale e scollata dalle logiche competitive globali. Tanto che attualmente, a più di un ventennio di distanza, l’UE si trova costretta a riflettere se le trasformazioni dell’ordine internazionale non abbiano reso una simile infrastruttura totalmente inadeguata. Tale riflessione è scaturita all’interno degli Stati membri in seguito ad una serie di acquisizioni di imprese strategiche europee da parte di investitori stranieri, aumentando la consapevolezza delle istituzioni comunitarie della sensibilità e strategicità di alcuni settori economici europei. Tuttavia, una risposta appropriata non potrà prescindere dal riconoscimento di una mancanza, in UE, di un centro politico che sia capace di indirizzare in modo unitario ciò che per ora resta un puro sistema giuridico-economico composto da molteplici interessi nazionali non sempre convergenti e in cerca di un equilibrio tra i vari rapporti di forza. Elementi che l’autore mette in luce appellandosi anche agli schemi in vigore rapidamente sgretolatasi con la pandemia, in conseguenza della quale sono proliferate normative nazionali restrittive in materia di circolazione di capitali, e la concorrenza ha perso il suo ruolo prioritario contrariamente a quanto postulato dal diritto comunitario. Pertanto, Picotti pone la legittima questione del futuro dell’Unione Europea quale entità indebolita da due crisi – pandemia e guerra in Ucraina – che non hanno fatto altro che rivelarne la totale inadeguatezza. L’eventualità di una riforma passerebbe necessariamente attraverso questioni spinose che richiederebbero il superamento del modello vestfaliano. Ipotesi particolarmente improbabile, dato che gli Stati membri sembrano recuperare sovranità avvalendosi di clausole di sicurezza e interesse nazionale che derogano l’infrastruttura giuridica comunitaria ad ogni crisi. Sacrificando così l’interesse comunitario per l’interesse nazionale.

Tre lezioni sull’ordine internazionale

A parere di chi scrive, trascendendo la lettura del saggio di Picotti si evincono tre lezioni sull’attuale assetto giuridico ed economico-politico dell’ordine internazionale ancora a guida statunitense (seppur con forti terremoti geopolitici nelle cosiddette “periferie”).
In primo luogo, non è discutibile la salda tenuta del sistema vestfaliano. Sebbene le relazioni e il diritto internazionale si siano popolati di una molteplicità di attori non statali, l’assetto globale sorto dalla Pace di Vestfalia del 1648 e fondato sulla sovranità statale rimane tutt’ora vigorosamente valido.

Gli Stati, tra gli altri strumenti, continuano a disporre di meccanismi giuridici attraverso i quali esercitano i poteri sovrani, perseguendo i propri scopi tanto nei confronti dei privati intervenendo sul mercato, quanto nei confronti di altri poteri sovrani. A prescindere dall’incidenza di attori diversi dallo Stato, è in capo a quest’ultimo che continua a risiedere il potere di adottare misure protezionistiche, di guerra economica o di maggiore apertura agli investimenti esteri. In tale prospettiva, risulta fondamentalmente necessaria la precisazione dell’autore circa il rapporto esistente tra Stato e capitalismo: non si tratta di concetti sconnessi bensì di un nesso vicendevole, poiché senza la cornice statale il capitalismo non avrebbe avuto modo di svilupparsi. A sua volta, a seconda delle fasi storiche, lo Stato valuterà se arretrare nel mercato – e dunque permettere ai soggetti che lo popolano di acquisire più potere con il rischio, talvolta, di giungere ad un’influenza dell’azione della statualità sovrana – oppure se espandersi. In quest’ultima ipotesi, valida soprattutto in tempi di crisi, il risultato sarà un marcato protezionismo. Proprio il protezionismo è alla base dell’assenza di equilibrio di tali fasi: se da un lato gli Stati necessitano di investimenti esteri per far fiorire le proprie economie, dall’altro lato questi tendono ad esaminarne attentamente la provenienza subordinandone l’accettazione a meticolosi requisiti, veti e condizionamenti intesi a proteggere il proprio interesse nazionale.

Tale affermazione conduce chi scrive al secondo paradigma che sembra emergere dal volume in esame: la perdurante coesistenza della visione realista delle relazioni internazionali, così come della sua controparte liberale. L’equilibrio tra fasi di espansione e di protezione si configura come instabile e intrinsecamente conflittuale, tant’è che persino nei periodi di maggiore apertura alla libera circolazione dei capitali gli Stati hanno tentato di salvaguardare i propri interessi vitali, nonché la propria sicurezza nazionale. Interesse nazionale e sicurezza possono essersi affievoliti in alcuni periodi, senza tuttavia mai esaurirsi. Lo stesso può affermarsi in riferimento all’impiego di strumenti giuridici per raggiungere i propri scopi in un ambiente competitivo per natura, che rende latenti sotto alcuni aspetti anche le alleanze tra Paesi amici. Ciò dipende dal fatto che gli Stati sono portatori di interessi nazionali che trascendono gli obiettivi dei singoli individui che ne detengono politicamente le redini per periodi più o meno estesi. Tali interessi – e qui emerge l’impronta realista delle relazioni internazionali – hanno il fine ultimo di garantire sopravvivenza, esistenza, continuità e crescita del soggetto Statale. Tutto ciò in un contesto liberale di interdipendenza economica e politica che vede gli Stati creare e diventare parte di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite per attenuare i rischi di scontri frontali in stile homo homini lupus in un sistema internazionale in cui il diritto non dispone di un potere coercitivo. Essenzialmente, anarchia. La garanzia di sopravvivenza e continuità dello Stato passerà dunque attraverso la sicurezza, così come attraverso l’espansione economica (e, in alcuni casi, territoriale) con l’intenzione di accrescere la propria potenza nazionale in relazione alla persistente competitività di altri Stati.

Il contesto descritto apre la strada all’ultima importante lezione sul rapporto tra gli strumenti giuridici e politici di cui dispongono gli Stati: il diritto è politica, così come la guerra combattuta con gli strumenti del diritto (ossia la guerra economica) si configura come guerra di natura politica. A fronte della necessità di tutelare la soggettività statale e l’interesse nazionale, qualsiasi Stato tenderà sempre a prioritizzare i propri interessi. In ciò risiederebbe una potenziale spiegazione, ad esempio, dell’impiego del protezionismo anche all’interno del blocco occidentale e, ancor di più, nella cornice di rivalità tra alcuni Paesi europei (Francia e Italia, per citarne alcuni).


Copertina: La legge del più forte, Luiss Press edizioni