Sangue e cocaina lungo la Tirana–Guayaquil


Una linea connette Ecuador e Albania, e non ha a che fare con gli aerei: è una scia di sangue, scaturita da omicidi, violenze e complotti. Questa è la storia di come l’Ecuador sia divenuto una delle principali basi operative all’estero del narcotraffico albanese.


 

Questa storia inizia dalla fine, il 20 novembre 2020. Quel giorno La Aurora, una comunità chiusa (gated community) nei pressi di Guayaquil, la città più popolosa dell’Ecuador, ha avuto un brusco, sanguinoso ed irrituale risveglio. La Aurora, il quartiere delle maxi-ville di ricchi che hanno scelto di isolarsi dal resto della società – e della povertà – rinchiudendosi in una cassaforte a cielo aperto protetta da vigilanza privata e telesorveglianza, quel giorno è stata teatro di un’esecuzione brutale, compiuta da un plotone di quattro assassini professionisti, travestiti da poliziotti e armati fino ai denti, che ha lasciato a terra un cittadino albanese.

La vittima era conosciuta agli inquirenti, avendo terminato un periodo di incarcerazione nei mesi precedenti ed essendo al momento dell’omicidio sotto indagine per traffico di droga, e il suo nome era Adriatik Tresa.

Questo, però, non è un caso di cronaca – altrimenti non avrebbe spazio su questa rivista –, ma il pezzo di una storia di natura internazionale che coinvolge Ecuador, Colombia, Bosnia, Albania, Spagna, Interpol ed Europol. Per raccontarla bene, dopo il prologo-epilogo, occorre fare un salto nel passato.

È il 2011 e un cittadino albanese di nome Adriatik Tresa sbarca in Ecuador su un volo proveniente da Tirana. Di lui si sa poco, a parte che è tenace, carismatico, possiede una ragguardevole rete di contatti in Europa e ha denaro da investire in maniera apparentemente illimitata. Tresa cerca contatti in Ecuador, li trova e li paga in contanti: è così che si fa un nome presso i colombiani di stanza nella nazione.

Gli anni passano, Tresa cresce e agisce come se fosse parte del narco-sistema locale: reinveste i proventi in attività legali, da buon imprenditore del crimine, ma avrebbe commissionato anche omicidi, tra i quali quello di un connazionale e di un giornalista ecuadoriano. 

Ma perché l’Ecuador? Le risposte sono molteplici: i suoi porti, i suoi confini vaporosi, la sua posizione centrale, la corruzione diffusa che facilita l’acquisto di poliziotti e giudici, e l’economia in via di sviluppo che consente di reinvestire e lavare i soldi sporchi. È dall’inizio degli anni 2000 che è stata segnalata la presenza di narcotrafficanti albanesi nel Paese, anche se Tresa è sicuramente tra coloro che hanno avuto più successo e notorietà mediatica.

Il suo predecessore, se così può essere definito, è stato Arber Cekaj, un ingegnoso narcotrafficante al servizio di cartelli locali e stranieri che nel 2008 ebbe la brillante idea di aiutare i propri capi e soci stabilendo una compagnia bananiera. Le banane, un settore tanto prospero quanto insospettabile, avrebbero aiutato i signori della droga a ripulire i loro proventi e a trarne di nuovi utilizzando le navi per trasportare cocaina. Un piano quasi perfetto poi scoperto alcuni anni dopo da un’indagine multinazionale estesa fino in Bosnia.

Come Cekaj, anche Tresa aveva tentato di nascondere alle autorità ecuadoriane il suo vero mestiere. Tra un affare di droga e l’altro, infatti, Tresa gestiva una farmacia ed un negozio di prodotti in legno. Scaltro e impavido, lo avrebbe tradito la sua innata propensione alla violenza. Nel 2013 il suo nome viene collegato all’omicidio di Fausto Guido Valdiviezo Moscoso, un giornalista investigativo, e per Tresa si aprono le porte del carcere.

Sullo sfondo dell’attenzione crescente degli inquirenti nei confronti di questo imprenditore albanese provenuto dal nulla e senza precedenti in patria, l’Ecuador capisce di avere un problema di narcotrafficanti albanesi al proprio interno: nel 2014 viene arrestato il ricercato internazionale Dritan Rexhepi durante un’operazione che ha condotto al sequestro di 278 chilogrammi di cocaina, e nel 2015 viene condannato in contumacia il narco-bananero Cekaj.

Il moto degli eventi, inconsapevolmente innescato dal presunto ruolo di Tresa nell’assassinio di Valdiviezo Moscoso, spinge le istituzioni a delegare il fascicolo “narcos albanesi in Ecuador” ai servizi segreti. La situazione, concludono i James Bond ecuadoriani, potrebbe essere più allarmante di quanto si pensasse: dei centottanta cittadini albanesi entrati nel Paese nel 2018, venti vengono segnalati come potenziali narcotrafficanti. Una piccola e silenziosa invasione, completamente ignorata negli anni, nonostante le avvisaglie. Tresa è soltanto la punta dell’icerberg: come lui, tanti altri e anche più violenti.

La scia di sangue che ha bagnato le strade di Guayaquil negli ultimi quattro anni è la dimostrazione che Tresa non era il problema, ma soltanto una parte di esso. Nel maggio 2017 viene ucciso Ilir Hidri in una sparatoria da moto in corsa, alcuni mesi dopo, a novembre, da un suv giungono dei colpi di pistola in direzione di Remzi Azemi – che, però, sopravvive –, e nel marzo 2018 vengono giustiziati Fadil Kacanic e sua moglie. Il modus operandi, in quest’ultimo caso, è uguale a quello che due anni dopo avrebbe spezzato la vita di Tresa: finti poliziotti. Le autorità non hanno dubbi: i narcotrafficanti albanesi sarebbero dietro ognuno di questi fatti criminosi e avrebbero alimentato indirettamente anche l’ondata di criminalità legata alla droga che nel 2020 ha prodotto più di mille omicidi nella sola Guayaquil.

Il 2020 è stato l’annus horribilis di Guayaquil, l’anno dell’assassinio di Tresa ed anche l’anno di un’operazione storica dell’Europol che ha sgominato il “primo cartello della droga interamente albanese della storia”. L’operazione ha avuto luogo il 15 settembre e ha condotto all’arresto di venti criminali in dieci Paesi, tra i quali Albania, Italia, Romania, Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna e, ultimo ma assolutamente non meno importante, Ecuador.

Era precisamente in Ecuador che aveva sede il cartello, noto come “Kompania Bello”, ed è qui che si trovava il loro capo – Rexhepi, già in carcere al momento dei fatti. L’Europol l’ha ribattezzata la più importante operazione mai effettuata contro un gruppo criminale albanese; del resto, ai venti arresti del 15 settembre vanno sommati gli altri 84 effettuati nei mesi precedenti e nell’ambito della stessa indagine. Un piccolo esercito. 

Kompania Bello, diversamente dalle bande di Cekaj e di Tresa, non era al servizio di nessuno. Era un’entità completamente indipendente, a se stante, che acquistava dalla fonte e spediva ai gregari sparsi per il mondo. Nessun intermediario tra i cartelli e gli albanesi, né italiani della ‘ndrangheta, né narcotrafficanti brasiliani o spagnoli. Semplice ed innovativo, eppure nessuno, prima di loro, ci aveva mai pensato e/o ci era riuscito.

È un caso unico – così è stato definito dall’Europol – perché i narcotrafficanti provenienti dalla nazione delle Aquile hanno storicamente avuto bisogno di intermediari e perché essi stessi non di rado pagano per poter operare nei territori – e questo è vero soprattutto in Italia, dove i gruppi albanesi sono spesso in combutta o sottoposti ai clan italiani. Kompania Bello, invece, era diverso: era albanese al cento per cento. Erano loro che vendevano agli italiani, non il contrario. Erano loro che mediavano tra i colombiani e gli italiani, non il contrario. 

La poco conosciuta guerra tra la giustizia ecuadoriana e i narcotrafficanti albanesi, però, non finisce con la morte cinematografica di Tresa e con la dissoluzione della banda di Rexhepi. Altri hanno, sicuramente, già preso il loro posto, o sono in procinto di farlo.


Foto copertina:Cocaina sequestrata a Panama, il 16 settembre 2020. Foto: EPA-EFE / Bienvenido Velasco. BalkanInsight

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