Tra disarmo e deterrenza: le lezioni della denuclearizzazione ucraina


La fragilità delle garanzie internazionali nel sistema post-Guerra Fredda


Di Andrea Minervini e Augusto Tamponi

Il contesto storico

33 anni fa, il 31 dicembre del 1991, l’ordine internazionale che, dalla fine della Seconda guerra mondiale aveva caratterizzato e influenzato le dinamiche dell’intero globo, subiva un cambiamento tanto grande quanto previsto. Mentre la bandiera rossa dell’Unione Sovietica veniva ammainata dalla cupola del Cremlino, l’URSS cessava di esistere. Un processo per molti già avviato nel 1989 ma sebbene, come accennato, l’ “implosione” controllata dell’Unione Sovietica fosse avviata e scrutata attentamente dagli osservatori esterni, non tutti gli effetti secondari di quest’ultima potevano avere una risoluzione semplice o rapida. Ancora oggi molti di questi effetti secondari ci offrono lo scotto di ciò che avvenne e forse uno dei più noti e dai risvolti più sottili fu l’accentramento dell’arsenale atomico sovietico in un unico attore, la neonata Federazione Russa. Con il collasso sovietico quelle che erano Repubbliche parte di un complesso meccanismo politico divennero Stati autonomi, semplici confini “regionali” divennero confini statali e rappresentanti politici dei soviet, Presidenti di Nazioni, le quali si riscoprivano prima ancora di essere riscoperte. In questo magma politicamente incandescente e dagli esiti incerti grande preoccupazione destò proprio la questione nucleare. Molti di questi Stati di nuova formazione ereditarono sul loro territorio basi militari, equipaggiamenti e anche testate nucleari sovietiche, anche in numeri considerevoli ed è proprio questo il caso dell’Ucraina post 1991. Di colpo divenne lo stato con il secondo più grande arsenale nucleare al mondo con ben 1900 testate attive. Uno sbilanciamento dello status quo delle cose troppo violento e improvviso affinché altri attori come gli USA potessero permetterlo.

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Il dilemma nucleare

Come detto, l’Ucraina in un tempo relativamente breve si trovò ad ereditare 1900 testate nucleari, divenendo di fatto la terza potenza nucleare al mondo. Questa distribuzione di potenziale nucleare in alcuni dei 15 nuovi stati che nacquero dalla dissoluzione dell’URSS rappresentò un importante cambiamento dello status quo nucleare mondiale. La deterrenza nucleare quale controverso paradigma di difesa ne sarebbe uscita certamente “indebolita”, con un aumento delle percentuali di rischio incidenti, proliferazione, vendita a terzi o utilizzo nucleare. Questo soprattutto se quella potenza distruttiva rimaneva nelle mani di attori internazionali “minori”, un rischio che gli USA non potevano permettere e che, difatti, non permisero.
Comprendere questo punto però, richiede di ripercorrere alcuni passaggi che portarono poi al cuore della tematica in analisi e che, forse sorprendentemente, si svolsero nelle grandi sale di discussione politica a Washington e nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Come precedentemente accennato, sebbene negli USA non fossero pochi i sentimenti che volevano una definitiva sconfitta del nemico sovietico con la dissoluzione anche della neonata Federazione Russa, presto si iniziò a ragionare sul tema nucleare in un’ottica estremamente razionale, lo status quo doveva essere mantenuto per non compromettere ulteriormente la stabilità del teatro internazionale. È proprio in seno alle decisioni del congresso USA che si possono iniziare ad intravedere i semi di quello che sarebbe stato l’accentramento dell’arsenale atomico sovietico in seno alla Federazione Russa a seguito di diversi trattati[1]. Questo portò infine alla “paradossale” situazione in cui la riduzione dell’arsenale atomico sovietico e il suo accentramento presso la Federazione Russa furono regolamentati e anche sovvenzionati dagli USA che con il beneplacito, sostanzialmente, del Consiglio di sicurezza dell’ONU la resero l’erede de facto dell’URSS. Nello specifico è bene citare quali punti chiave del processo il Soviet Threat Reduction Act[2] e poi il Former Soviet Union Demilitarisation Act, di cui un estratto dall’”Office of the Law Revision Counsel” verrà in seguito citato: «The Congress finds that it is in the national security interest of the United States—

(1) To facilitate, on a priority basis— (A) the transportation, storage, safeguarding, and destruction of nuclear and other weapons of the independent states of the former Soviet Union, including the safe and secure storage of fissile materials, dismantlement of missiles and launchers, and the elimination of chemical and biological weapons capabilities; (B) the prevention of proliferation of weapons of mass destruction and their components and destabilizing conventional weapons of the independent states of the former Soviet Union, and the establishment of verifiable safeguards against the proliferation of such weapons; (C) the prevention of diversion of weapons-related scientific expertise of the former Soviet Union to terrorist groups or third countries; and (D) other efforts designed to reduce the military threat from the former Soviet Union;
(2) to support the demilitarization of the massive defense-related industry and equipment of the independent states of the former Soviet Union and conversion of such industry and equipment to civilian purposes and uses; and
(3) to expand military-to-military contacts between the United States and the independent states of the former Soviet Union».[3]

Questo complesso e delicato processo vide una “fine” con la sigla del memorandum di Budapest[4] e la cessione da parte di Kiev delle testate atomiche, tema sul quale torneremo. In seno alle Nazioni Unite, la questione venne affrontata soprattutto tra i membri del Consiglio di sicurezza, dato che secondo le norme del diritto internazionale la dissoluzione sovietica e la nascita di 15 nuovi stati non avrebbe portato automaticamente all’eredità del seggio sovietico da parte di uno di questi[5]. Questa ipotesi venne invece “scartata” e con il beneplacito degli USA venne designata e riconosciuta la Federazione Russa quale ereditiera del seggio sovietico e di tutti gli oneri e benefici che questo avrebbe comportato[6]. Di seguito verrà citata parte della lettera che il presidente russo Eltsin inviò al Segretario Generale della Nazioni Unite e con la quale comunicava formalmente la “successione”: «I have the honour to inform you that the membership of the Union of Soviet Socialist Republics in the United Nations, including the Security Council and all other organs and organizations of the United Nations system, is being continued by the Russian Federation (RSFSR) with the support of the countries of the Commonwealth of Independent States. In this connection, I request that the name “the Russian Federation” should be used in the United Nations in place of the name “the Union of Soviet Socialist Republics.»  B. Eltsin”[7] la risoluzione del “dilemma” in senso anti-nucleare inaugurò la prima fase della denuclearizzazione dell’Ucraina, che si sarebbe concluso poi con la firma del Protocollo di Lisbona. Questo nasceva dalla necessità di chiarire la complessa questione della successione post-sovietica in relazione al Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (TNP) e, di conseguenza, al trattato START I.
Il punto focale della prima fase della denuclearizzazione ucraina risiedeva proprio nella questione degli stati successori e della loro adesione al TNP, un passo cruciale per l’entrata in vigore dello START.  Questo, infatti, era stato inizialmente concepito come un accordo bilaterale tra le due grandi potenze della Guerra Fredda (USA e URSS), ma la dissoluzione sovietica e l’apparizione di nuovi attori statali rischiavano di compromettere e, in qualche modo, di dilapidare l’impianto di non-proliferazione nucleare che era stato abilmente e pazientemente costruito dalle due potenze.
La presenza di arsenali sovietici nei territori delle nuove repubbliche rendeva impossibile mantenere la struttura bilaterale del trattato, dato che uno dei due attori iniziali si era frammentato in altre nuove entità statali che, legittimamente, rivendicavano un ruolo attivo nelle decisioni e nell’implementazione delle misure adottate dall’ex Unione Sovietica di cui, tanto quando la Federazione Russa, risultavano successori.
L’entrata in vigore completa dello START sarebbe stata semplicemente impensabile senza l’adesione delle nuove repubbliche al Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (TNP) come Stati non nucleari (NNWS), che avrebbe fornito la base legale e logica per il loro ingresso nello START I. Questa fase rappresenta un esempio significativo nella storia della diplomazia, dove l’esigenza di bilanciare il pragmatismo (l’entrata in vigore dello START e il controllo degli armamenti nucleari) e il rispetto del principio di sovranità ha giocato un ruolo centrale. Inoltre, questa fase permette di comprendere la costruzione delle relazioni tra Stati Uniti e Ucraina, sviluppatesi sulla cooperazione in tema di non-proliferazione nucleare.
Il processo diplomatico avviato in questo periodo fu essenziale per la strategia di sicurezza dell’Ucraina. Non si trattava solo di disarmo, ma anche della necessità di trasformare questo processo negoziale in uno strumento di state-building, in relazione non solo alle strutture, fisiche e legali, deputate alla sicurezza ma anche alla conquista di un ruolo attivo nelle relazioni internazionali, in particolare con la Russia e l’Occidente.
L’impulso per un’azione politica accelerata venne dall’amministrazione statunitense nel gennaio 1992, quando un team guidato dal sottosegretario di Stato per la Sicurezza Internazionale, Reginald Bartholomew, intraprese una missione a Mosca, Kiev, Minsk e Almaty. Lo scopo era quello di trovare una convergenza sulla questione degli obblighi di controllo degli armamenti dell’ex Unione Sovietica. La strategia di Bartholomew si basava su principi chiave, tra cui la comprensione che la questione non poteva essere risolta solo tramite “teorie legali” sulla successione degli stati. L’analisi di Bartholomew riconosceva le complessità pratiche derivanti dalla dissoluzione dell’URSS e l’impossibilità di risolvere queste sfide con un approccio esclusivamente legale, evidenziando la necessità di un approccio più pragmatico e flessibile per garantire il successo dello START nel nuovo contesto politico.La soluzione a questo intricato dilemma fu la stesura del Protocollo di Lisbona nel maggio del 1992, che rese tutti e cinque gli stati (Russia, Stati Uniti, Bielorussia, Kazakistan e Ucraina) parte del Trattato di Riduzione delle Armi Strategiche (START). Il protocollo sanciva l’intenzione di Bielorussia, Kazakistan e Ucraina di rinunciare alle armi nucleari e aderire al Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (TNP) come Stati non nucleari, un impegno che i tre paesi hanno mantenuto fino ad oggi.[8]
Il protocollo di Lisbona cercava di bilanciare le preoccupazioni di sicurezza immediata con l’obiettivo a lungo termine del disarmo nucleare. Riconosceva il diritto dei nuovi stati di essere successori dell’Unione Sovietica nel quadro dello START, incoraggiandoli al contempo a rinunciare all’eredità nucleare aderendo al TNP.[9] Questo approccio evidenziava la natura complessa e spesso contraddittoria degli sforzi di non-proliferazione nucleare in un contesto politico internazionale in evoluzione. In sostanza, il Protocollo di Lisbona è stato uno strumento polivalente: ha consolidato la posizione legale internazionale degli stati post-sovietici, rafforzato il regime globale di non-proliferazione e affrontato le questioni legate all’eredità nucleare di queste nuove nazioni indipendenti.[10] 

Dal Protocollo di Lisbona al Memorandum di Budapest

Il Protocollo di Lisbona, pur rappresentando un passo importante verso la denuclearizzazione, non risolse tutte le questioni cruciali. Le discussioni sul compenso economico per l’Ucraina (legato al valore del combustibile nucleare) e le garanzie di sicurezza rimasero questioni aperte. L’Ucraina, consapevole che il possesso di un arsenale nucleare si traduce in una deterrenza di sicurezza effettiva, si barcamenava tra la necessità di ottenere delle garanzie di sicurezza in cambio della cessione delle proprie armi nucleari e quelle legate al desiderio di una giusta compensazione economica.
La seconda fase della de-nuclearizzazione ucraina si apre immediatamente dopo la stesura del Protocollo di Lisbona. segnata da una serie di complessità politiche, economiche e di sicurezza che ne rendono il processo prolungato e spesso controverso. In primo luogo, la Rada, il parlamento ucraino, assunse una posizione maggiormente assertivo e indipendente, sfidando l’autorità dell’esecutivo e opponendosi alla dottrina militare proposta dal presidente Kravchuk. Questa crescente indipendenza riflette il desiderio del parlamento di mantenere un potere decisionale significativo, soprattutto in considerazione delle preoccupazioni per le intenzioni della Russia riguardo alla Crimea e alla flotta del Mar Nero. Parallelamente, gli Stati Uniti, inizialmente ottimisti dopo il Protocollo di Lisbona, cominciano a scontrarsi con la complessità della situazione politica ucraina, rendendosi conto che il processo di ratifica del trattato START e l’adesione al Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) non sarebbero stati semplici. Kiev, desiderosa di stabilirsi come entità indipendente da Mosca, fu abile nell’utilizzare la denuclearizzazione per affermare la propria identità e ottenere compensazioni economiche, contribuendo a rallentare i negoziati. In proposito, un elemento chiave risiedeva nella questione del risarcimento per l’uranio altamente arricchito (HEU), un tema di forte contesa tra Ucraina e Russia. Kiev insisteva nel ricevere una quota del risarcimento che gli Stati Uniti avrebbero versato a Mosca per l’HEU, provocando tensioni nei negoziati.[11] Gli Stati Uniti, preoccupati per il possibile fallimento dell’intero processo, esercitarono pressioni sulla Russia affinché concordasse un compenso per l’Ucraina. E’ interessante, in questo caso, notare un cambio di approccio da parte degli USA nei confronti della questione.[12] Il Presidente Clinton infatti, probabilmente più del predecessore, comprese la necessità di  una maggiore considerazione delle richieste Ucraina e dell’importanza del coinvolgimento diretto e attivo di quest’ultima nei negoziati, virando definitivamente verso un impianto di negoziazione a tutti gli effetti “Trilaterale”, che viene magistralmente descritto da Steve Pifer.[13]
Infine, questo periodo fu reso ancora più complesso da processi paralleli, come le negoziazioni tra Russia e Ucraina sul disarmo e i rapporti tesi su questioni come la flotta del Mar Nero e la Crimea; in questo contesto è da registrare un atteggiamento di prevaricazione da parte della Russia nei confronti dell’Ucraina, anche a causa del rafforzarsi della corrente nazionalista interna al parlamento russo che spingeva per il ritorno della Crimea alla Russia.[14] Anche gli sforzi dell’Ucraina per ottenere garanzie di sicurezza dagli Stati Uniti si scontrarono con la riluttanza americana a fornire impegni concreti fino a quando l’Ucraina avesse mantenuto il veto sull’approvazione definitiva del pacchetto START/Lisbona e sull’adesione al TNP.
Questi vari fattori si intrecciano fino a quando, il 14 gennaio 1994, venne firmata la Dichiarazione Trilaterale tra Ucraina, Russia e Stati Uniti. La Dichiarazione sancì un passaggio cruciale per completare il processo di denuclearizzazione dell’Ucraina e risolvere questioni di sicurezza ed economiche legate alla fine della Guerra Fredda. In base all’accordo, l’Ucraina si impegnò a trasferire tutte le testate nucleari strategiche presenti sul suo territorio alla Russia. Questo trasferimento rappresentò la conclusione di un lungo e complesso negoziato, durante il quale l’Ucraina aveva utilizzato le armi nucleari ereditate dall’Unione Sovietica come leva per ottenere assicurazioni e compensazioni.
In cambio della rinuncia alle armi nucleari, l’Ucraina ricevette assicurazioni di sicurezza da parte di Russia e Stati Uniti che prevedevano il rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, oltre al divieto di minacce o uso della forza contro lo Stato ucraino. Inoltre, l’accordo includeva un pacchetto di compensazioni economiche, come un’intesa per la fornitura di combustibile nucleare dalla Russia in cambio del materiale fissile altamente arricchito contenuto nelle testate, che sarebbe stato riconvertito per scopi pacifici.[15]
La Dichiarazione Trilaterale segnò quindi un punto di svolta nella denuclearizzazione dell’Ucraina, ponendo fine a oltre due anni di trattative complesse e consolidando l’integrazione del Paese nel regime di non proliferazione nucleare. Allo stesso tempo, rafforzò i legami diplomatici tra l’Ucraina e gli Stati Uniti, avviando un percorso di cooperazione che avrebbe dovuto avere implicazioni durature per la sicurezza della regione.
Nel 1994, gli sforzi di denuclearizzazione dell’Ucraina furono oscurati da una crisi economica interna, che portò a elezioni parlamentari e presidenziali anticipate. Alle elezioni parlamentari della primavera, i candidati centristi e nazional-democratici ottennero meno del 20% dei seggi, mentre il 26 giugno gli ucraini votarono per il nuovo presidente. Leonid Kuchma sconfisse Leonid Kravchuk al secondo turno il 10 luglio e divenne presidente il 19 luglio. Durante l’estate del 1994, gli Stati Uniti si impegnarono a finalizzare l’adesione dell’Ucraina al Trattato di Non-Proliferazione (TNP) e a garantire le assicurazioni di sicurezza previste nella Dichiarazione Trilaterale. Il vertice dell’OSCE di dicembre a Budapest fu identificato come l’occasione ideale per formalizzare l’accordo. Nonostante i progressi, la Rada esitava ad approvare il TNP a causa di timori di essere abbandonata dall’Occidente. A settembre, il diplomatico statunitense Thomas Graham guidò una missione diplomatica a Kiev per convincere la leadership ucraina a ratificare il TNP, e l’Ucraina insistette su garanzie di sicurezza formali, piuttosto che su mere rassicurazioni politiche, prima di procedere.[16]
Il 16 novembre, la Rada approvò l’adesione al TNP, ma con riserve riguardanti la precedente proprietà delle armi nucleari, il che suscitò preoccupazioni a Mosca. Dopo intense negoziazioni, l’Ucraina confermò il suo status di stato non nucleare, e l’accordo fu raggiunto poco prima della firma del Memorandum di Budapest il 5 dicembre. Il Memorandum, firmato da Stati Uniti, Russia e Regno Unito, assicurava il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, ma le promesse di sicurezza erano vaghe e prive di meccanismi concreti di attuazione.[17]
L’adesione dell’Ucraina al TNP permise l’entrata in vigore dello START I, che portò a una significativa riduzione degli arsenali nucleari di Stati Uniti e Russia.
Tuttavia, il Memorandum di Budapest, assieme al dibattito sulle garanzie di sicurezza offerte all’Ucraina, è tornato al centro dell’attenzione dopo l’invasione russa della Crimea nel 2014 e l’annessione illegale orchestrata da Vladimir Putin. L’espansionismo russo è poi continuato con l’invasione dell’Ucraina iniziata nel febbraio 2022. In risposta alle operazioni militari in Crimea, il meccanismo di consultazione previsto dal Memorandum è stato attivato per la prima volta nel marzo 2014, ma il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov si rifiutò di partecipare all’incontro di Parigi.
L’invasione russa della Crimea richiama la profetica frase dell’ex presidente ucraino Kravchuk, che il giorno dopo la firma del Memorandum disse: “Se domani la Russia entrerà in Crimea, nessuno batterà ciglio”.[18] In questo contesto, emerge anche l’analisi del politologo americano John Mearsheimer del 1993, che si espresse a favore del mantenimento dell’arsenale nucleare ucraino come deterrente contro la Russia.[19] Tuttavia, studiosi come Mariana Budjeryn hanno difeso la decisione dell’Ucraina di denuclearizzare, sostenendo che il valore deterrente delle armi nucleari ucraine fosse discutibile e che la denuclearizzazione fosse coerente con lo spirito di indipendenza ucraina.[20]
Al contrario, altri esperti, come Andreas Umland, hanno messo in dubbio l’efficacia delle garanzie di sicurezza offerte all’Ucraina, evidenziando la mancanza di conseguenze significative per la violazione russa del Memorandum. Umland sostiene che il disarmo nucleare ucraino ha lasciato il paese vulnerabile e che le garanzie di sicurezza, essendo dichiarazioni politiche e non legalmente vincolanti, si sono dimostrate inefficaci.[21]
Nel 2023, l’ex presidente Bill Clinton ha espresso rammarico per aver sostenuto la denuclearizzazione dell’Ucraina, affermando di sentire una “responsabilità personale” per il destino del paese, un sentimento sorprendente da parte di uno dei principali sostenitori del disarmo nucleare ucraino.[22]
David Yost, professore alla Naval Postgraduate School di Monterey, sostiene che la violazione russa mina la credibilità delle garanzie di sicurezza offerte dalle grandi potenze, fondamentali per gli sforzi di non-proliferazione nucleare. La mancata osservanza di tali promesse potrebbe incentivare la proliferazione nucleare, poiché altri Stati potrebbero non fidarsi più di queste garanzie.[23]
In sintesi, l’invasione russa dell’Ucraina rappresenta una flagrante violazione del Memorandum di Budapest. Questo ha inevitabilmente instillato negli ucraini un senso di abbandono e ha messo in dubbio l’efficacia delle garanzie di sicurezza internazionali, con potenziali conseguenze a lungo termine, come il rischio di una nuova ondata di proliferazione nucleare. La crisi potrebbe anche cambiare il dibattito globale sulle armi nucleari, portando a una visione più favorevole di esse come strumenti essenziali di autodifesa e deterrenza in un contesto internazionale caratterizzato da promesse infrante e aggressioni non provocate.

Conclusioni

La violazione del Memorandum di Budapest da parte della Russia ha posto una grave minaccia alla stabilità dell’architettura di non proliferazione nucleare. Quando un Paese rinuncia volontariamente alle sue armi nucleari in cambio di garanzie di sicurezza, ci si aspetta che queste vengano rispettate rigorosamente. Tuttavia, l’aggressione russa contro l’Ucraina ha messo in discussione proprio la credibilità di tali accordi, dimostrando come le promesse fatte sulla carta possano svanire davanti a convenienze strategiche. Se gli impegni presi nel quadro del Memorandum non possono essere garantiti da chi li sottoscrive, come possono altri stati sentirsi sicuri di affidarsi a meccanismi simili? Questo pericoloso precedente può minare la fiducia nelle garanzie di sicurezza e scoraggiare futuri accordi di disarmo e non proliferazione.

La gravità della situazione è ampliata proprio dal ruolo centrale della Russia nel sistema delle Nazioni Unite: un Paese membro permanente del Consiglio di Sicurezza, dotato di un arsenale nucleare e con responsabilità primarie nel mantenimento della pace internazionale, ha violato palesemente la Carta delle Nazioni Unite. Il fatto che la Russia abbia aggredito un Paese sovrano come l’Ucraina, il quale aveva persino ceduto volontariamente il suo arsenale nucleare in cambio di garanzie di sovranità, rappresenta una frattura profonda nel sistema di non proliferazione. Ancor più preoccupante è l’uso strumentale che la Russia fa del proprio arsenale nucleare, minacciando ripetutamente sia l’Ucraina che i suoi alleati internazionali, mettendo in discussione l’intero impianto della deterrenza come strumento di pace e stabilità.

Questa crisi solleva quindi una domanda essenziale: quale Paese, oggi o in futuro, potrebbe essere disposto a rinunciare al proprio arsenale nucleare o abbandonare un programma nucleare se gli impegni di protezione si rivelano effimeri?

Stiamo vivendo un periodo di grande crisi, non solo sistemica, già da molti citata ma anche valoriale e sociale. Queste crisi, caratteristiche dei grandi periodi di transizione sono latrici di grandi incertezze, che, come abbiamo visto, portano anche a mettere in discussioni i pilastri del diritto internazionale. Paradossalmente la Russia sembra aver trovato nella retorica nucleare una sorta di “rifugio”, un ancora a cui aggrapparsi per validare le proprie azioni, le proprie linee rosse e forse la propria stessa esistenza in un momento in cui la partita del Cremlino contro Kiev, tra bluff e rilanci, sembra essere alle ultime mani.

Minacce velate e non sono state pronunciate, test ed esercitazioni sono stati portati avanti, “valigette nucleari” mostrate con spavalderia e missili sono stati lanciati, seppur senza il carico da Armageddon che avrebbero dovuto contenere. Persino la dottrina nucleare è stata ritoccata dal Cremlino per includere nelle regole di ingaggio anche stati non nucleari ma supportati da questi ultimi e che pongono sotto minaccia i territori della Federazione e della Bielorussia[24]. Una escalation? Presto per dirlo ma sebbene sia una possibilità ancora remota la carta nucleare è stata messa sul tavolo sin dai primi giorni di guerra, e la partita non accenna a fermarsi, con toni non dissimili da quelli usati nei momenti più oscuri della Guerra fredda.

Purtroppo, sebbene le istituzioni internazionali stiano fallendo nel tentativo di dirimere la e le crisi e guerre in corso, come anche nel porre un freno effettivo a questa nuova proliferazione nucleare (soprattutto nell’accezione più “immateriale” e verbale di quest’ultima), è in queste ultime che dobbiamo riporre le speranze, quando i tempi torneranno ad essere meno interessanti e più stabili. Una domanda tra le tante spicca: saranno ancora quelle che conosciamo?


Note

[1] “Le traversie economiche e politiche attraversate dal paese avevano costretto Mosca a firmare trattati svantaggiosi nel campo delle armi nucleari strategiche e intermedie e delle armi convenzionali, ma la Russia degli anni Novanta, incapace di vincere il confronto armato con i ribelli in Cecenia, restava pur sempre l’unico paese con un potere di deterrenza nei confronti di un attacco nucleare proveniente dagli Usa.” In F. Bettanin, Putin e il mondo che verrà, Ed. Viella, Roma 2018, cit. p. 151  
[2] H.R.3807 – Soviet Nuclear Threat Reduction Act of 1991, 102nd Congress (1991 1992)  https://www.congress.gov/bill/102nd-congress/house-bill/3807  
[3] USC Ch. 68: demilitarization of former Soviet Union. From Title 22—foreign relations and intercourse                      https://uscode.house.gov/view.xhtml?path=/prelim@title22/chapter68&edition=prelim
[4] United Nations Treaties, Memorandum on security assurances in connection with Ukraine’s accession to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons. In: https://treaties.un.org/Pages/showDetails.aspx?objid=0800000280401fbb
[5] Vidmar, J. (2022). Dissolution of States. In J. Vidmar, S. McGibbon, & L. Raible (Eds.), Research Handbook on Secession (pp. 218-236). Edward Elgar Publishing. https://doi.org/10.4337/9781788971751.00024. In: https://cris.maastrichtuniversity.nl/en/publications/dissolution-of-states
[6] «Nel 1991, poi, con il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia ha ereditato il seggio come Stato legittimamente successore.» Senato della Repubblica, Legislatura 17ª – Dossier n. 166 I. In: https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/0/801652/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione9-h1_h11
[7] International Atomic Energy Agency archives, INFCIRC/397 Attachment 2. In: https://www.iaea.org/sites/default/files/infcirc397.pdf
[8] Mariana Budjeryn, Inheriting the Bomb: The Collapse of the URSS and the Nuclear Disarmament of Ukraine, John Hopkins University Press, 2022, pp 45-66
[9] United States, Belarus, Kazakhstan, Russian Federation, and Ukraine. Protocol to the Treaty Between the United States of America and the Union of Soviet Socialist Republics on the Reduction and Limitation of Strategic Offensive Arms. Lisbon: May 23, 1992.
[10] Reif, Kingston, The Lisbon Protocol At a Glance, Arms Control Association. Accessed May 25, 2024. https://www.armscontrol.org
[11] Nadia Schadlow, The Denuclearization of Ukraine: Consolidating Ukrainian Security, in “Harvard Ukrainian Studies 20” (1996)
[12] Roman Popadiuk, American-Ukrainian Nuclear Relations, McNair Paper No. 55, Washington, DC, Institute for National Strategic Studies, National Defense University, October 1996, pp 21-29.
[13] Steven Pifer, The Trilateral Process: The United States, Ukraine, Russia, and Nuclear Weapons, Brookings Arms Control Series Paper 6, Foreign Policy at Brookings, May 2011. [14] A tal proposito si rimanda al Summit di Masandra del Settembre 1993.
[15] United States, Ukraine, and Russian Federation. Trilateral Statement. Moscow: January 14, 1994.
[16]  Mariana Budjeryn, The Power of the NPT: International Norms and Nuclear Disarmament of Belarus, Kazakhstan and Ukraine, 1990-1994, PhD diss., Central European University, Budapest, Hungary, 2016, p 179
[17] United Nations General Assembly. Budapest Memorandum on Security Assurances. December 5, 1994.
[18] Mariana Budjeryn, The Power of the NPT, p 251.
[19]John J. Mearsheimer,, The Case for a Ukrainian Nuclear Deterrent, in “Foreign Affairs” 72, no. 3 (1993), 50–66.
[20] Mariana Budjeryn, Was Ukraine’s Nuclear Disarmament a Blunder?, in “World Affairs” 179, no. 2 (2016).
[21] Andreas Umland, The Ukraine Example: Nuclear Disarmament Doesnt Pay, in “World Affairs” 178, no. 4 (2016): 45–49.
[22] Graig Graziosi, Bill Clinton reveals regret over Russia-Ukraine deal that saw Kyiv give up nuclear weapons, “The Independent”, April 5, 2023.
[23] David S. Yost , The Budapest Memorandum and Russias Intervention in Ukraine, in “International Affairs “91, no. 3 (2015)
[24] D. G. Kimball, Russia Revises Nuclear Use Doctrine, Arms Control Association, dicembre 2024. In: https://www.armscontrol.org/act/2024-12/news/russia-revises-nuclear-use-doctrine


Foto copertina: Boris Yeltsin, left, Bill Clinton, Ukrainian President Leonid Kuchma, and British Prime Minister John Major sign the Budapest Memorandum on December 5, 1994. (Brookings Institution)