Dalla sicurezza strategica al controllo delle rotte globali: Groenlandia, Panama e Canada: le ambizioni geopolitiche americane tra Artico e Tropici.
Di Simone Orbitello
Oltre le esuberanze trumpiane
Negli ultimi mesi Trump ha ripetutamente segnalato la volontà di acquistare o ottenere il controllo di Groenlandia, canale di Panama e Canada, sollevando polemiche e attirando risposte dure da parte di alleati e dei governi direttamente interessati. L’interesse si inserisce nel contesto della politica di contenimento che ormai gli Usa cercano di mettere in campo per controllare l’ascesa cinese. In questo contesto, diventano fondamentali sia l’Artico, sia tutti quei corridoi che sono la chiave del commercio globale, come ad esempio il Canale di Panama. Il controllo di questi territori ha una valenza fondamentale dal punto di vista militare, economico e strategico sia per Washington che per Pechino.
Groenlandia
L’interesse degli Stati Uniti per la Groenlandia non è una novità. Già nel 1867, dopo l’acquisto dell’Alaska dalla Russia, gli Stati Uniti considerarono l’acquisizione della Groenlandia, ma la proposta fu abbandonata. Ancora, nel 1946 l’amministrazione Truman offrì 100 milioni di dollari per l’isola, ma l’offerta fu rifiutata.
Dopo aver già manifestato interesse per la Groenlandia durante la sua prima presidenza, a dicembre 2024 Trump è tornato sulla questione, rilanciando le richieste per un’acquisizione dell’Isola, definendola “una necessità assoluta”. Durante una conferenza stampa gli è stato chiesto se escludesse l’uso di “coercizione militare o economica” per ottenere la Groenlandia, al che ha risposto che non poteva dare assicurazioni, ma che il territorio era necessario “per la sicurezza economica”.[1]
L’interesse americano per la Groenlandia è dovuto alla sua posizione strategica e alle sue abbondanti risorse naturali. Nell’ottica del progressivo scioglimento dei ghiacci polari dovuto al cambiamento climatico, l’Isola rappresenta uno snodo fondamentale per il controllo dell’Artico e in particolare delle nuove rotte marittime che stanno emergendo. I nuovi percorsi permettono infatti di ridurre significativamente i tempi di navigazione tra Europa, Asia e Nord America, di conseguenza il controllo della Groenlandia garantisce sul lungo periodo il monitoraggio e la gestione di queste rotte. Gli USA vogliono evitare che Russia o Cina possano controllare unilateralmente queste rotte.
L’importanza della Groenlandia risiede anche nella sua ricchezza di risorse naturali, tra cui petrolio, gas naturale e minerali rari. Le stime suggeriscono che l’isola possieda riserve di petrolio equivalenti a metà di quelle dell’Arabia Saudita e alcune delle più grandi riserve mondiali di terre rare, minerali essenziali per la produzione di dispositivi elettronici avanzati. La capacità di ottenere, mantenere e sfruttare queste risorse da parte statunitense permetterebbe l’indipendenza degli USA dalla predominanza della Cina in tale mercato.
Dal punto di vista militare, la cooperazione tra Stati Uniti, Danimarca e Groenlandia è solida e risale alla Seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti assunsero la difesa della Groenlandia e vi stabilirono due grandi basi aeree. Successivamente, nel 1951, venne riconosciuto a Washington la possibilità di stabilire la Base Aerea di Thule (oggi Base Spaziale di Pituffik) nel nord dell’Isola, che rimane una componente chiave del sistema di difesa missilistica e di sorveglianza spaziale degli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti vedono la regione Artica come una frontiera critica nella competizione con Russia e Cina. La Russia ha una presenza militare significativa nell’Artico, con basi aeree, sistemi di difesa aerea avanzati e sottomarini nucleari nella Flotta del Nord. Gli USA monitorano attentamente queste attività per evitare che Mosca eserciti un controllo eccessivo sulla regione.
Nel 2018, Washington ha riattivato la Seconda Flotta della US Navy per operare nell’Atlantico settentrionale e nell’Artico. Gli Stati Uniti sono in svantaggio rispetto alla Russia nel numero di rompighiaccio: la US Coast Guard ne possiede solo due operativi, mentre la Russia ne ha oltre 40, inclusi rompighiaccio a propulsione nucleare. La US Navy sta incrementando la sua presenza con sottomarini nucleari e pattuglie marittime nell’Artico, ma il dominio russo nelle infrastrutture artiche resta un problema.
Da “Nazione vicina all’Artico” come si è definita, Pechino ha progressivamente investito in infrastrutture portuali e minerarie ed ha lanciato già nel 2018 la sua “Via della Seta Polare”, con il chiaro fine di espandere la propria influenza economica e, in prospettiva, militare nei territori artici. In risposta, la Danimarca ha bloccato operazioni commerciali cinesi, creando però tensioni con Nuuk, che rischiano di fomentare il processo di distacco dell’Isola dalla Danimarca. In queste tensioni potrebbero tentare di inserirsi gli USA, che potrebbero puntare a sfruttare questo distaccamento per promuovere l’indipendenza del territorio e ottenere un accesso privilegiato ed esclusivo al territorio.
Siamo di fronte a un nuovo attivismo della politica estera americana, che segue una retorica forse inedita nella sua assertività anche con gli alleati, ma che risponde evidentemente ad una strategia di lungo periodo di controllo e contenimento della minaccia cinese.[2]
Tuttavia, se gli Stati Uniti venissero percepiti come un partner inaffidabile o persino ostile, ciò non farebbe altro che rendere la Cina, la Russia e altri antagonisti americani più attraenti, sia come investitori e commercianti sia come partner per la sicurezza. La realtà, come sottolineato dalla Strategia Nazionale degli Stati Uniti per la Regione Artica, è che “l’Artico ospita alcuni degli alleati e partner più stretti degli Stati Uniti”: Canada, Danimarca (inclusa la Groenlandia), Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. Questi alleati stanno già rafforzando le loro capacità militari, ampliando la cooperazione e migliorando l’interoperabilità e la condivisione delle informazioni. Eventuali minacce alla sicurezza dell’Artico e agli interessi americani provenienti da Russia o Cina sarebbero affrontate in modo molto più efficace ed economico collaborando con gli alleati NATO, piuttosto che agendo unilateralmente.
Leggi anche:
- Il ritorno di Trump
- Il discorso di Trump al Congresso: verso una nuova era
- Artico, ultima frontiera!
- La Geopolitica delle Terre Rare
Panama
Washington considera il Canale di Panama un’infrastruttura di importanza strategica fondamentale, non solo per il commercio internazionale ma anche per la mobilità della loro marina militare. Per una potenza talassocratica quale gli Stati Uniti, il controllo delle rotte commerciali marittime e dei colli di bottiglia, come il Canale di Panama, è l’essenza stessa del proprio potere.
La Cina ha accelerato i suoi investimenti nel Canale dopo il 2017, quando Panama ha stabilito relazioni diplomatiche ufficiali con la Pechino, interrompendo i legami con Taiwan. Pechino ha oggi una presenza significativa nella gestione portuale e in altri settori chiave dell’economia panamense[3]. Durante la sua prima presidenza, Trump ha valutato diverse opzioni per contrastare la penetrazione cinese a Panama[4], incluso l’imposizione di sanzioni economiche o una maggiore presenza militare.
Il timore di Washington è che la crescente presenza economica cinese nella regione possa tradursi in una minaccia alla sicurezza nazionale e alla libertà di navigazione nel canale[5]. Sebbene il canale sia sotto il controllo del governo panamense, diverse compagnie cinesi, tra cui la Hutchison Ports, operano nei porti di Balboa e Colón, due snodi cruciali per il traffico marittimo. In caso di conflitto nel Pacifico (ad esempio con la Cina), il controllo del canale sarebbe fondamentale per spostare rapidamente le forze americane tra i due oceani. La Cina potrebbe fare pressione perché Panama chiuda il Canale, e Washington rischierebbe di dover intervenire militarmente per riaprirlo, come fecero nel 1989 per deporre Manuel Ortega.
Dato che furono proprio gli USA a costruire il canale, in uno dei primi atti della nascente superpotenza a fine Ottocento, Panama non è importante solo a livello strategico e commerciale, ma anche perché simbolo dell’influenza e del potere americano. L’avanzamento della Cina nel cuore dell’impero a stelle e strisce, in un luogo che è stato tra i primi a vedere l’ascesa di Washington, è simbolicamente ed emozionalmente inaccettabile per gli USA. D’altra parte, Pechino mira proprio a sfidare Washington nel suo cortile di casa, al fine di distrarla da Taiwan.
Il governo panamense ha cercato di mantenere un equilibrio tra le due superpotenze, beneficiando degli investimenti cinesi senza alienarsi completamente il sostegno statunitense.
Canada
L’interesse di Trump per il Canada si è sviluppato su due livelli: da un lato, le dichiarazioni sull’acquisto del Canada o sulla sua annessione come 51º stato degli Stati Uniti; dall’altro, l’introduzione di tariffe commerciali aggressive, che hanno inasprito le tensioni tra i due paesi.
Fin dal suo primo mandato, Trump ha occasionalmente accennato alla possibilità che il Canada possa diventare parte degli Stati Uniti. Nel gennaio 2025, il presidente ha riacceso la polemica, affermando in un’intervista che una fusione tra i due paesi sarebbe un’opzione “logica” per garantire la sicurezza economica e geopolitica americana[6].
Questa idea, sebbene respinta dalla stragrande maggioranza dei canadesi, ha trovato un piccolo sostegno tra alcuni gruppi pro-americani in Canada, soprattutto nelle province occidentali, dove esiste una lunga tradizione di scetticismo nei confronti del governo federale canadese. Alcuni sostenitori di questa ipotesi hanno evidenziato i possibili vantaggi economici, come l’accesso diretto al mercato statunitense e la possibilità di evitare le fluttuazioni della valuta canadese. Tuttavia, il governo di Ottawa ha risposto con fermezza, ribadendo la sovranità canadese e sottolineando che il Canada non è “in vendita”[7]. Dietro la retorica provocatoria di Trump si cela una più ampia strategia di pressione economica. Trump potrebbe non essere seriamente intenzionato ad annettere il Canada, ma le sue dichiarazioni servono a rafforzare l’idea che gli Stati Uniti vedano il vicino settentrionale come un’estensione naturale della loro influenza economica e strategica. Parallelamente a queste dichiarazioni, Trump ha introdotto una serie di misure protezionistiche contro il Canada[8]. Il 31 gennaio 2025 ha annunciato l’imposizione di una tariffa del 25% su tutte le importazioni canadesi, con l’eccezione del petrolio greggio e delle esportazioni energetiche, che saranno soggette a una tariffa del 10%. Queste misure, secondo il presidente, sono necessarie per proteggere l’economia statunitense e per affrontare l’”emergenza nazionale” legata all’immigrazione illegale e al traffico di fentanyl.
Il Canada ha reagito con forza, definendo queste tariffe “ingiustificate e dannose”. Il primo ministro Justin Trudeau ha annunciato un pacchetto di ritorsioni economiche, imponendo tariffe del 25% su beni americani per un valore di 155 miliardi di dollari. Ottawa ha inoltre avviato consultazioni con l’Unione Europea e altri alleati per coordinare una risposta diplomatica contro il protezionismo americano.
L’introduzione di queste tariffe ha sollevato forti preoccupazioni tra gli economisti, che avvertono possibili ripercussioni sulle catene di approvvigionamento nordamericane. L’industria automobilistica, le materie prime e i beni di consumo sono settori particolarmente vulnerabili a queste misure, con il rischio di un aumento dei prezzi e una riduzione della competitività delle aziende canadesi e statunitensi.
Dagli iceberg ai canali
Al di là delle dichiarazioni provocatorie di Trump, l’interesse degli Stati Uniti per Groenlandia e Panama riflette esigenze strategiche ben radicate nella politica estera americana. Il contenimento dell’espansione cinese, la sicurezza delle rotte commerciali globali e il controllo di snodi geoeconomici cruciali sono questioni che vanno oltre l’agenda di una singola amministrazione.
La competizione con la Cina, che passa anche da Artico e Panama, non è un tema passeggero, ma una costante della politica americana che determinerà le scelte strategiche nei decenni a venire.
Note
[1] Seb Starcevic, “Trump: US needs Greenland to combat Russia and China”, Politico, 21 Gennaio 2025.
[2] Brent Hardt, “Advancing US Interests in Greenland”, German Marshall Fund, 16 Gennaio 2025.
[3] Paolo Mossetti, “Canale di Panama, ma è vero che è la Cina a gestirlo (come dice Trump)? Il nostro reportage,” Wired Italia, 15 febbraio 2025.
[4] Angela Stefania Bergantino, “Trump punta su Panama, ma guarda a Pechino”, ISPI, 24 Gennaio 2025.
[5] Matthew Lee, “Rubio says Trump’s interest in Greenland and Panama Canal is legit and driven by China concerns”, Associated Press, 30 Gennaio 2025.
[6] “Trump wants to make Canada part of the US. Some Canadians are interested”, Independent, 3 Febbraio 2025.
[7] “Trudeau rejects Trump’s idea of forcing Canada to become a US state”, Reuters, 7 Gennaio 2025.
[8] Danielle Kaye, “Here’s What to Know About Trump’s Tariffs”, The New York Times, 1 Febbraio 2025.
Foto copertina: Trump Groenlandia e Panama