Nel febbraio del 1945, a guerra ancora in corso, in un’Europa devastata dal conflitto, le tre potenze alleate – Usa, Urss e Gran Bretagna – si riunirono sul Mar Nero in Crimea per decidere le sorti del continente dopo l’ormai sicura sconfitta militare del Nazifascismo. Forti delle proprie posizioni, le amministrazioni dei Paesi coinvolti nel processo diplomatico e militare tentarono la costruzione di una iniziale base futura per la stabilità internazionale e la pace diffusa, nella cornice del cosiddetto “Spirito di Yalta”.
A cura di Gianmarco Castaldi
Va’ rivisto Fukuyama. La teoria della fine della storia, in questo tempo da fine della fine della storia[1], impone riflessioni importanti sulle questioni geopolitiche odierne. La fine della storia mirava a considerare la fine dei conflitti successivi alla Seconda guerra mondiale, in uno scenario di completamento vittorioso del modello americano consecutivo a circa mezzo secolo di Guerra fredda. A più di trent’anni da quel saggio (“La fine della storia e l’ultimo uomo”, acquista qui) , il multilateralismo attualmente imperante, o come tale considerato, rimpasta improrogabilmente la teoria citata. Certo, decenni di guerre dai Balcani all’Iraq, fino all’Afghanistan e Libia hanno già contribuito a disarticolare in maniera ampia la tesi della stabilità pacifica post-caduta del Muro di Berlino. Ma Fukuyama, nel dualismo punto di arrivo/punto di partenza – in base alla prospettiva storica da cui ci si pone – ascrisse la sua teoria al termine della cosiddetta migliore pace possibile; quella della Guerra fredda. Non pochi studiosi hanno conferito alla Guerra fredda lo status di guerra ideologica. E, in maniera onesta, a ragion veduta. Questo perché se è vero che tutto il Novecento, sin dai suoi albori, è definibile come il secolo delle ideologie, la seconda metà del tempo novecentesco ha esacerbato problematiche ideologiche e rapporti tra superpotenze in maniera ancora più marcata che non nella sua genesi.
Ma è altrettanto vero che la storia della Guerra fredda è anche storia diplomatica. E in effetti se ci si accinge a incunearsi nelle relazioni internazionali del Secondo dopoguerra si capisce subito e con estrema chiarezza la natura terribilmente paurosa che i capi delle superpotenze, e dei loro satelliti, avevano circa una nuova guerra combattuta con le armi. Questo nuovo scenario inedito del tempo, condito sicuramente da quelle che oggi si definiscono come proxy war[2], attribuì alla diplomazia e all’utilizzo delle parole giuste un ruolo di centrale importanza.
È bene a questo punto provare a trattare le coordinate politiche, e secondo qualche verso anche militari, che la fine della Seconda guerra mondiale generò.
In prima analisi, lo scenario bellico che caratterizzò il conflitto incrinò i rapporti di forza tra le vecchie potenze imperiali del continente europeo, su di tutte la Gran Bretagna, e i nuovi protagonisti emersi dall’esito della sconfitta del Nazifascismo. Le personalità politiche dell’Europa colonialista, dalla Francia all’Inghilterra ma anche dal Belgio all’Olanda, misurarono una progressiva perdita di controllo, che sfocerà più avanti con la decolonizzazione di ampie aree geografiche, sui possedimenti storici.
E questo in buona sostanza per due fondamentali motivazioni:
la prima è che nel 1922 dalle ceneri dell’Impero zarista era sorto uno Stato socialista a guida sovietica che, piaccia o meno, si opponeva geneticamente alle monarchie e che in futuro, sull’onda rivoltosa ad esso funzionale in termini geopolitici, funzionerà da faro portante per molti moti rivoluzionari. L’esperienza sovietica di inizio Novecento rappresentava in termini possibilistici la condizione secondo cui la corona potesse essere rovesciata dalle masse popolari, a differenza delle rivoluzioni sei-settecentesche di matrice liberale e borghese. Mentre quindi da un lato l’esperienza dell’élite intellettuale leninista incuteva timore negli storici Imperi europei circa una sua espansione critica ad Ovest, nei popoli oppressi dal colonialismo l’impeto rivoluzionario rappresentava una possibile uscita violenta, e non, da un processo di sfruttamento secolare;
La seconda è che la vittoria su Hitler e Mussolini fu determinata grosso modo dall’ingresso nell’Europa continentale degli Stati Uniti d’America da Occidente e dal progressivo annientamento delle truppe tedesche a Est da parte dell’Armata rossa sovietica che giunse fino a Berlino.
Due Stati, due poli politici ed economici profondamente e storicamente differenti ma entrambi repubblicani ed entrambi nati da impeti rivoluzionari si imposero dapprima con la forza militare sul Vecchio continente e successivamente con una enorme macchina propagandistica volta al consenso sociale. Non che la corona britannica o la Resistenza di ogni singolo Stato occupato fosse ininfluente ma le sorti della guerra a grandi linee furono decise dall’intervento di questi due grandi Paesi.
La loro posizione all’interno del nuovo scenario che andava prefigurandosi nei mesi che anticiparono la fine della guerra era dominante. Agli inizi di febbraio, l’Armata rossa concentrava le sue truppe già all’interno del Reich, a circa cento chilometri da Berlino. Il contesto, quindi, si presentava come un nuovo passaggio storico in cui la predominanza sull’Europa del Nazifascismo crollava dopo anni di intenso dominio, lasciando un grande vuoto politico e militare, nonché ideologico.
Forti della posizione ottenuta in campo militare i tre protagonisti, a cui solo in un secondo momento si aggiungerà la Francia – per volere esplicito di Churchill, interessato ad ampliare un possibile fronte antisovietico allargato negli scenari futuri – , si riunirono in Crimea sul Mar Nero per decidere le sorti del Vecchio Continente.
L’azione della conferenza si articolò in buona sostanza su tre obiettivi principali:
Primo: la collaborazione e mantenimento dell’alleanza Usa, Urss e Gran Bretagna nella lotta al Nazifascismo; Secondo: la ricostruzione pacifica successiva alla guerra; Terzo: la creazione delle condizioni fondamentali per il mantenimento di una pace futura e internazionale dal carattere duraturo. Questa posizione trina e composita condivisa, almeno nelle fasi preparatorie che anticiparono la fine della guerra, incarnò quello che l’autore Joseph P. Morray definì come “Lo spirito di Yalta”[3].
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Oltre gli obiettivi strategici, militari e politici che la conferenza di Yalta (4-11 febbraio 1945) si prefigurò come fondamentali – l’incontro tra i tre avvenne con il conflitto in corso –, dalle riunioni sul Mar Nero risultarono di rilevante importanza le relazioni diplomatiche, ma anche e soprattutto personali, tra delegazioni e in particolar modo tra i rappresentanti dei futuri Stati vincitori: Stalin, Roosevelt e Churchill.
A tal proposito, è bene sottolineare quali posizioni preparatorie assunsero i tre attori principali della conferenza; un punto sicuramente importante da trattare riguarda la forte vicinanza tra gli Usa di Roosevelt e l’Urss di Stalin, almeno in un primo momento. L’obiettivo del presidente americano si concentrava principalmente sul timore fondato di un’Europa politicamente e socialmente instabile nel processo post-bellico.
La base intellettiva di questo pensiero si articolava sul fallimento del progetto di pace sorto a Versailles nel 1919, che aveva contribuito a generare le condizioni necessarie per lo scoppio del nuovo conflitto globale.
Il timore di Roosevelt mirava ad evitare una conferenza di pace fallimentare in partenza, arricchita esclusivamente da posizioni ideologiche prive di visioni reali di pace, che avrebbero continuato ad alimentare conflitti militari ma soprattutto politico-ideologici. L’obiettivo dell’amministrazione americana, e su questo punto si comprende parte della vicinanza di intenti con l’Unione Sovietica, si strutturava, almeno nelle fasi iniziali e nella logica roosveltiana, intorno a un argine granitico e sicuro contro una nuova deriva bellicosa del continente; una posizione che verrà poi ampiamente rivista da Truman – Roosvelt morirà poche settimane dopo la Conferenza di Yalta – che dirotterà gli interessi americani versi altri obiettivi strategici, nettamente in contrasto con i sovietici.
A differenza dell’alleato americano, l’Inghilterra, nei panni di Winston Churchill, arrivò in Crimea con una chiara posizione diffidente verso l’Urss. In particolare, gli obiettivi inglesi si formularono intorno alla possibile creazione di un asse comune con gli Stati Uniti, in modo da presentarsi dinanzi alla delegazione sovietica come un blocco unitario e compatto, che ponesse in principio un contrasto netto a due. Si notò subito quindi che le intenzioni della Gran Bretagna si muovevano verso una direzione discordante, in una dimensione non più fondata su un trio equo e diplomaticamente collaborativo – come espresso dagli intenti di Roosevelt – ma basata su un contrasto bipolare tra l’alleanza anglo-americana e i comunisti sovietici.
Le preoccupazioni sovietiche muovevano invece a partire da una posizione di assoluta inferiorità strategica militare, sociale ed economica. L’Urss aveva subito ingenti perdite civili, militari ed economiche dal conflitto con i tedeschi. La maggioranza dei mezzi di produzione che precedentemente avevano alimentato le principali città di frontiera sovietiche – Mosca, Leningrado, Stalingrado – erano state dislocate lontano dal confine occidentale del Paese nel tentativo di sottrarle alla distruzione nazista; e inoltre, tra i tre, i sovietici avevano avuto il maggior numero di vittime, sia civili che militari. In questi termini, rispetto alla Gran Bretagna e agli Usa, la posizione dei russi si componeva di una estrema fragilità economica e militare. Lo sforzo compiuto dall’armata rossa, che aveva portato i carri armati sovietici alle porte di Berlino, estese il controllo sovietico sull’Europa Orientale liberata, in un contesto di grande vulnerabilità del liberatore stesso. Al tavolo delle trattative quindi, l’Unione Sovietica giunse nei panni di un gigante martoriato, provato dalla gestione dei profughi dei campi di concentramento e dalle milioni di morti subite nello scontro con i tedeschi. La principale preoccupazione di Stalin riguardava quindi la sicurezza dei confini, nonché dei territori liberati e sotto il suo controllo. Questa inquietudine si tramutava nella volontà di assicurarsi una cosiddetta “zona cuscinetto” geograficamente favorevole alla sicurezza del Paese; su questo punto si trovò in particolare accordo con l’amministrazione americana, in quanto Roosevelt fornì all’alleato sovietico ampie rassicurazioni sulla formazione di una fascia di sicurezza preventiva favorevole alla ricostruzione e alla stabilità dell’Urss[4].
La genesi dello “Spirito di Yalta” si articolò intorno alla collaborazione e al mantenimento dell’alleanza delle tre potenze, in un contesto pacifico diffuso. A tal proposito, illuminano le parole che il Presidente americano Roosevelt rivolse al Congresso del Paese, il primo marzo del 1945, dopo il ritorno dalla Crimea. Si trattò di un discorso che affondava le proprie radici su una convinzione di unità di intenti granitica e robusta; un pensiero espresso in parole che invitavano i membri rappresentanti delle Camere e del popolo a confidare nello sforzo diplomatico che la potenza statunitense, congiuntamente all’Urss e alla Gran Bretagna, stava compiendo in direzione di un futuro sicuro e stabile al termine del conflitto.
Non ho mai vacillato un solo istante sulla convinzione che potesse essere raggiunto un accordo in grado di assicurare pace e sicurezza al mondo […]. Posso dire che abbiamo raggiunto un’unità di pensiero e un modo di convinzione […]. Le tre più importanti nazioni si sono dichiarate d’accordo sul fatto che i problemi politici ed economici di ogni zona liberata dalla conquista nazista […] sono sotto la responsabilità congiunta di tutti e tre i Governi […]. Le decisioni finali in queste zone verranno prese congiuntamente, e per conseguenza si avrà spesso un risultato di dare-avere […]. La conferenza di Crimea è stata uno sforzo, coronato dal successo, delle tre maggiori potenze per trovare un terreno comune per la pace. Esso dovrebbe segnare la fine del sistema dell’azione unilaterale, delle alleanze esclusive, delle sfere di influenza, degli equilibri di potenza e di tutti gli altri espedienti che sono stati provati per secoli e che hanno sempre fallito […]. Sono fiducioso che il Congresso e il popolo americano accetteranno i risultati di questa conferenza come l’inizio di una struttura permanente di pace su cui possiamo cominciare a costruire […] quel mondo migliore in cui i nostri nipoti […] devono e possono vivere[5].
L’ambizione rooseveltiana terminò con il suo teorico principale; non sono poche le idee secondo cui una più longeva vita del fu Presidente americano avrebbe garantito una maggiore stabilità internazionale nelle relazioni soprattutto con l’Unione Sovietica ma più in generale con tutto l’asse strategico comunista. Questo non perché Roosevelt avesse delle posizioni filo-comuniste ma perché si dimostrò fin da subito un abile politico capace di sfruttare al massimo la retorica moderatrice della diplomazia. Il capo dell’amministrazione degli States morì poche settimane dopo il discorso tenuto al Congresso, in un contesto di iniziale incrinatura dei rapporti tra le tre potenze su aspetti politico-militari e territoriali.
In molte trattazioni teoriche si tende a far risalire e a imputare la genesi della Guerra fredda agli incontri di Yalta. In realtà, nonostante le imprescindibili frizioni tra l’Urss di Stalin e la Gran Bretagna di Churchill, la conferenza sul Mar Nero rappresentò un primo passo reale verso le intenzioni che furono proprie degli incontri. L’attribuzione, quindi, risulta impropria. Più ragionevole invece potrebbe apparire imputare l’origine delle condizioni della Guerra fredda al fallimento delle basi comuni emerse dalle riunioni del febbraio del 1945 e il tradimento delle posizioni assunte dai Paesi coinvolti all’interno della” Dichiarazione sull’Europa liberata”.
Note
[1] Sull’argomento, si consiglia la lettura del saggio di L. Caracciolo, La pace è finita – così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli, Milano 2022. Acquista qui.
[2] Secondo la politologia, una Proxy war è una guerra combattuta da Stati stranieri su territori terzi. Sono spesso frutto di provocazioni belliciste da parte delle superpotenze che degenerano in guerre mediate dal coinvolgimento di Stati terzi.
[3] J. P. Morray, Storia della Guerra Fredda, Editori riuniti, Roma 1961, p.21.
[4] Luca Riccardi, Yalta: i tre grandi e la costruzione di un nuovo sistema internazionale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2021.
[5] J. P. Morray, Storia della Guerra Fredda, Editori riuniti, Roma 1961, pp. 22-23.
Foto copertina: Winston Churchill, Franklin Delano Roosevelt e Iosif Stalin alla conferenza di Yalta.