Alla fine della Seconda guerra mondiale quasi due milioni di donne tedesche furono violentate dai soldati russi in quello che è ricordato come il più grande fenomeno di stupro di massa in un conflitto europeo.
A cura di Antonella Spiridigliozzi
Luci e (tante) ombre della «Grande guerra patriottica»
Il 9 maggio la Russia festeggia la fine della «Grande guerra patriottica», espressione che, in Unione Sovietica e in alcuni stati post-sovietici, identifica la Seconda Guerra Mondiale. Questa festa nazionale è stata rilanciata da Vladimir Putin proprio per rafforzare il sentimento nazionale in quanto, nella retorica putiniana, l’esaltazione del ruolo da protagonista della Russia nell’affondo finale all’epopea nazista è da settant’anni un leitmotiv ricorrente. La fine del Terzo Reich fu segnata da una crescente escalation di violenza.
Una delle principali vittime della fanatica resistenza nazista fu la popolazione civile, in particolare la componente femminile, costretta alla profuganza di massa, a privazioni inaudite, sottoposta a bombardamenti a tappeto e ad un flusso indiscriminato di violenze; per le donne tedesche si trattò di un vero e proprio “calvario”; in particolare, tale violenza risultò più intensa nelle regioni orientali della Germania; qui, infatti, una volta sfondato il fronte, l’Armata Rossa si macchiò di gravi crimini contro i civili tedeschi attraverso l’uso sistematico della violenza sessuale. Nel ricordo di ciò che ha significato, per la popolazione europea, lo sradicamento delle ideologie nazi-fasciste, è doveroso mantenere la luce accesa su un capitolo di questa stessa storia, troppo spesso taciuto dalla storiografia e dalla memoria collettiva. È la storia di quelle donne tedesche che hanno portato sui loro corpi il segno di una vendetta, di una giustizia arbitraria, di un regolamento di conti. Le vite spezzate delle donne berlinesi e dei territori della Germania orientale sono il simbolo di una logica guerrafondaia che ha accomunato (e che continuerà a farlo) milioni di donne vittime del cieco istinto della guerra.
La genesi delle violenze
Lo storico americano Norman Naimark, ha definito lo stupro di massa perpetrato dai Sovietici durante le battute finali della Seconda Guerra mondiale, come il più grande fenomeno di stupro di massa in un conflitto europeo[1].
Sebbene le violenze commesse nel territorio di Berlino rappresentino il caso più eclatante nel corollario delle aggressioni messe in atto durante l’invasione Alleata della Germania, le violenze sessuali contro le donne tedesche hanno inizio durante l’offensiva Sovietica già nel 1944 in Prussia Orientale, in Slesia e in Pomerania.
Uno dei punti più dibattuti dalla storiografia ufficiale, riguarda proprio le motivazioni alla base della violenza rossa.
Numerosi studi suggeriscono che le azioni dei Sovietici furono guidate da un desiderio di vendetta e da un sentimento di profondo odio nei confronti dei Nazisti per le brutalità compiute dai reparti della Whermacht e delle SS durante l’invasione dell’URSS sotto l’operazione Barbarossa e, più in generale, nell’intervallo delle operazioni sul fronte orientale. Appare doveroso, dunque, fare un passo indietro nella storia. L’ideologia hitleriana della superiorità della razza ariana aveva trovato, nel corso dell’invasione dell’Unione Sovietica, terreno fertile per il suo compimento. L’URSS veniva dipinta dalla propaganda ufficiale del regime come un territorio popolato da subumani «sentimentali e femminei per natura, una massa che ha bisogno di essere guidata[2].».
Forte di questo proselitismo, il conflitto contro l’URSS prendeva a tutti gli effetti la conformazione di una guerra di sterminio ideologica, una Vernichtungskrieg (guerra di annientamento), interiorizzata dai soldati come una battaglia razziale in difesa della civiltà europea da condurre con estrema brutalità. Qual è, in questo frangente, l’atteggiamenti dei soldati nazisti nei confronti di un popolo “inferiore” ed in particolare delle donne? A tal proposito, una preziosa analisi della storica tedesca Regina Mühlhäuser mette in evidenza la dilagante misoginia interna alla dottrina hitleriana in cui la figura femminile viene demonizzata e banalizzata: le donne ebree e slave vengono dipinte dalla propaganda come prostitute, donne abituate alla promiscuità sessuale e, perciò, degne esclusivamente di disprezzo. Il caso del trattamento riservato alle partigiane e alle ausiliarie dell’esercito sovietico ed alle ragazze ebree è indicativo di tale orientamento: stuprate ed immediatamente uccise, queste venivano considerate alle stregua di “vogelfrei”, selvaggina, prive di qualsiasi tutela[3].
La violazione delle donne sovietiche, oltre che ad essere supportate dal silenzio dei tribunali militari che ricevettero istruzioni di ignorare le denunce della popolazione ucraina, russa e bielorussa, veniva concepita più come fatto collaterale e accidentale. Ad essere preservata, piuttosto, doveva essere l’immagine e l’integrità dell’esercito tedesco. Ciò che i tedeschi avevano fatto in Russia nei confronti dell’esercito sovietico, ma soprattutto in quelli della popolazione civile, era sotto gli occhi di tutti i sopravvissuti a quei tre anni di combattimenti. In un film prodotto in URSS, conosciuto in occidente con il titolo di “Moscow strikes back”, gli episodi di tale brutalità vengono descritti come segue: «I villaggi non sono villaggi ma alveari carbonizzati di muretti bassi che una volta erano case, scuole o addirittura cattedrali. Ma infinitamente più terribili sono i cumuli di ossari che non somigliano più a esseri umani, i bambini nudi e trucidati distesi in orrende file, i giovani che penzolano inerti al freddo da forche traballanti, ma abbastanza forti. Tra loro vagano le madri sopravvissute, i loro volti incastonati in fregi di dolore, e talvolta un soldato dell’Armata Rossa che guarda i corpi spezzati con un silenzio di fiamma. »[4](‘Moscow Strikes Back,’ Front-Line Camera Men’s Story of Russian Attack, Is Seen at the Globe.”, in ‹The New York Times› , 17 Agosto 1942). I soldati dell’Armata Rossa dunque, giunti in territorio tedesco, dovevano essere portati o a dimenticare ciò che avevano visto e provato oppure ad agire in base al principio ‘occhio per occhio, dente per dente’. La volontà di umiliare e punire la popolazione per ciò che era stato compiuto nella loro patria quanto la necessità di sconfiggere l’esercito tedesco ed essere i primi a violare le porte della capitale, furono probabilmente le motivazioni predominanti dietro gli stupri di massa.
Sopravvivere o morire: la voce delle donne violate
Come già precisato, la marcia sovietica verso la Prussia orientale e la Slesia portò con sé i primi episodi di violenza. Nei villaggi saccheggiati donne e ragazze furono abusate, contrassero malattie veneree e molte di loro rimasero incinte. Quasi tutti avevano paura dei russi, paura di ciò che sarebbe accaduto loro durante la prigionia russa e paura di ciò che sarebbe accaduto alle loro famiglie una volta che i russi avrebbero deciso di vendicarsi. Circa 100.000 donne furono stuprate solo nel territorio di Berlino su circa 2 milioni stuprate nell’intero Paese negli ultimi sei mesi della guerra. Ad incidere su quest’ondata di violenza, giocò un ruolo importante quella che Kuby definisce “l’esaltazione della vittoria”. L’ebbrezza di essere gli artefici della caduta del cuore politico del Reich, unita all’impatto con la società occidentale e con la borghesia berlinese, accentuarono lo stato di disinibizione dei soldati sovietici che «commisero delle azioni di cui sentivano il desiderio (dopo anni trascorsi senza ferie e senza donne), ma non le commisero ad onore dell’Unione Sovietica né a disonore della Germania.»[5].
L’esperienza delle donne tedesche è stata a lungo considerata a tutti gli effetti un tabù: il dibattito sull’argomento rifiorisce solo negli anni Settanta su impulso degli studi femministi che mirano a ridare voce e dignità alle esperienze taciute. Dietro questo silenzio, questa amnesia obbligata, c’è un meccanismo che spiega l’autocensura della memoria, rintracciabile in una specifica visione patriarcale e guerrafondaia interiorizzata dalle stesse vittime. Era fondamentale che le stesse donne violate condividessero quella logica dello stupro di guerra come ‘danno collaterale’, un’eventualità, seppur brutale, che in circostanze del genere si doveva mettere in conto e di conseguenza accettare.
In questa sottomissione della giustizia, le donne tedesche si affidarono alle pagine private dei loro diari, i quali ad oggi rappresentano un documento imprescindibile per capire la complessità di una realtà da cui non potevano fuggire. Uno di questi documenti privati, il diario dell’Anonima berlinese, identificata con la giornalista Marta Hillers, documenta con chiarezza e puntualità i fatti accaduti nel suo distretto di Berlino durante l’omonima battaglia che ebbe inizio nell’aprile del 1945. Quello che viene descritto è un vero e proprio modus operandi dei soldati sovietici che, nel riversarsi nelle strade della capitale, ispezionavano le cantine delle abitazioni alla ricerca delle donne tedesche. Nel racconto degli episodi di violenza, l’autrice riporta fedelmente alcune battute dei soldati russi, dove ritorna l’eco della vendetta e della colpa dei soldati tedeschi che ricade sulle donne berlinesi: « ‘Che cosa? Come hanno fatto i tedeschi con le nostre donne?’. Strilla: ‘Mia sorella l’hanno…’ eccetera, non capisco tutte le parole, ma il significato si.[6]»
Se da un lato l’umiliazione della nazione tedesca, che passa attraverso la condanna delle sue donne, fu uno dei motivi che portarono ad una sostanziale censura dell’accaduto, dall’altro, c’è un altro aspetto, quello della prostituzione forzata, che fu a lungo obliato in ragione di un rigido controllo della sessualità femminile che doveva persistere anche in tempi di guerra. C’è un aspetto da non sottovalutare: per le donne di Berlino, l’esperienza della violenza sessuale veniva vissuta in un contesto di stenti e di privazioni, nonché di eventi altrettanto destabilizzanti come il lutto, lo sfollamento, le malattie e i bombardamenti. La privazione più grande, che mosse molte di loro, fu la mancanza di cibo e di acqua, in una situazione in cui poter mangiare significava dover saccheggiare ciò che rimaneva dei negozi, gli edifici e qualsiasi posto dove di potesse trovare anche un solo tozzo di pane. Il soffrire la fame diventa un problema centrale che, unito alla necessità di poter rivedere l’alba dopo Berlino, spinse molte donne e ragazze a ‘vendersi’ ad un protettore russo che, in cambio di sesso, le ripagava con del cibo, tenendole lontane dai desideri dei loro commilitoni. È la necessità a spingere le donne a essere degradate a mero oggetto sessuale: era frequente, quando un ufficiale o comandante veniva trasferito altrove, che le “protette” passassero nelle mani di altrettanti ufficiali, alla stregua di una merce che si spostava ogni volta lo facessero i suoi proprietari. Grazie al suo corpo, l’anonima può consumare da sola le sue provviste, senza dover dividere le poche razioni di cibo con gli inquilini della cantina e assicurandosi, in questo modo, di essere una bocca in meno da sfamare. Nonostante ciò, in lei era sempre viva la consapevolezza della degradazione e dell’umiliazione cui si sottoponeva per cercare di contenere i rischi cui era esposta in quanto donna del nemico. Il prezzo da pagare è molto alto: è costretta ad ubbidire agli ordini dell’ufficiale di turno e ad assecondare i suoi “bisogni”: «vivo del mio corpo e ottengo generi alimentari in cambio di esso. E scrivendo queste righe sono costretta a pensare perché mi comporti moralmente così, e perché mai consideri la professione di prostituta molto inferiore alla mia dignità. (…) Ma potrei mai io, a parte qualsiasi considerazione morale, infilarmi in questo mestiere, e trovarmici a mio agio? No, mai. È contro la mia natura, avvilisce la mia personalità, distrugge il mio orgoglio- e fisicamente mi riduce a mal partito. Quindi niente paura. Esco da questo “mestiere”, se così posso chiamare il mio attuale comportamento, appena posso, volentieri- appena potrò guadagnarmi il pane in maniera diversa, in maniera che mi dia soddisfazione e si adatti al mio orgoglio. Anche a questo riguardo ho sempre veramente appartenuto agli eletti, perché finora ho sempre trovato lavoro che mi piacesse.[7]»
In questo ruolo di sciagurate vittime, non bisogna dimenticarne quello di eroine: le donne dettero prova di grande coraggio, in un’inversione di ruoli che le vide protagoniste della vita nella città di Berlino. Furono loro ad occuparsi di procurare cibo e acqua sotto il rischio di bombe e granate, allontanandosi dai loro rifugi per riversarsi nelle strade; furono loro a difendere molte giovani donne dalle aggressioni, affrontando esse stesse i soldati sovietici o sacrificandosi al loro posto, non avendo altre alternative.
Per sfuggire a questo flagello, si difesero da sole grazie alla loro astuzia: si mascherarono da anziane signore, indossarono stracci consumati e parrucche, si travestirono da uomini, inventarono malattie infettive rendendosi ripugnanti agli occhi dei russi.
La quotidianità nelle cantine e negli appartamenti era scandita dai loro gesti, dai tentativi di fronteggiare la mancanza di luce, acqua corrente, gas, e che le costringeva a tornare ad uno stato pre-tecnologico in cui si cucina su fuochi di legna, che loro stesse andavano a raccogliere. Già prima dell’occupazione si erano adoperate per nascondere gli uomini affinché non venissero arruolati nella milizia popolare e ora assistevano quelli che giacevano a letto malati. Non si tirarono indietro nemmeno nei lavori manuali, quando ci fu bisogno di sgomberare la città dalle macerie delle demolizioni e delle bombe. Lo storico Kuby scrive di loro: «Inchiodarono assi di legno sulle finestre senza vetri: tolsero le macerie di Berlino e lo fecero con un umorismo che stupì i russi, che spesso raccontano come facessero la catena e passandosi i mattoni dicessero: Bitterschon, dankeschon; e quando cominciarono le demolizioni, quando si dovettero smuovere con i mezzi più primitivi macchine che pesavano tonnellate, su cento persone che facevano questo lavoro, ottanta erano donne.»[8].
Note
[1] N.M Naimark, The Russians in Germany: A History of the Soviet Zone of Occupation, 194-1949, Harvard University Press, Londra 1997.
[2] E. Kuby, La fine della Germania, Einaudi, Treviso 1969.
[3] R. Mühlhäuser, Eroberungen, Sexuelle Gewalttaten und intime Beziehungen deutscher Soldaten in der Sowjetunion 1941–1945, Hamburger Edition, Hamburg 2010.
[4] (‘Moscow Strikes Back,’ Front-Line Camera Men’s Story of Russian Attack, Is Seen at the Globe.”, in ‹The New York Times› , 17 Agosto 1942).
[5] E. Kuby, op. cit.
[6] Anonima, Una donna a Berlino. Diario, 20 aprile-22 giugno 1945, Ed. Italia Storica, Genova 2021.
[7] Ibidem
[8] E. Kuby, op. cit.
Foto copertina: Alla fine della Seconda guerra mondiale quasi due milioni di donne tedesche, in particolare a Berlino, furono violentate dai soldati russi. Immagine Filosofemme