Nell’arco della seconda metà del XX secolo, la figura di John Rawls (1921-2002) si è imposta non soltanto come un’autorità di riferimento all’interno della comunità accademica anglosassone, ma al contempo come una pietra miliare del liberalismo contemporaneo.
“Vi è, ci si chiede, una forma di stato che è pacifica in modo peculiare?”
(K. Waltz, Man, the State and War, 1959)
Trascorsi due decenni circa dall’apparizione del suo The Law of Peoples (1999), che costituisce il suo primo (e ultimo) lavoro a carattere specificamente internazionalistico, si può dire che l’ampio dibattito sulla sua filosofia politica sia rimasto imperniato attorno alla questione della giustizia (domestica) tra individui. Ormai classica la sua rivisitazione del contrattualismo attraverso la nozione di ‘velo di ignoranza’ e il criterio del maximin: il primo postulava un’ipotetica condizione di uguaglianza normativa tra singoli individui, il secondo una giustizia distributiva che meglio massimizza i vantaggi tra loro. Nel complesso, il suo lascito intellettuale circa la giustizia (internazionale) tra i popoli, invece, ha ricevuto minore attenzione, e nonostante la crescente rilevanza delle questioni globali posteriori all’11/9.
Fin da Theory of Justice (1971), certamente, le possibili conseguenze della proposta teorica rawlsiana per la politica internazionale non passarono completamente inosservate; in particolare sulla giustizia distributiva globale e l’analogia tra individui e Stati[1]. Fu solo in The Law of Peoples, tuttavia, che Rawls preannunciò una netta continuità metodologica tra il diritto internazionale e la sua proposta etico-politica domestica: il modello contrattualistico avrebbe infatti fornito una procedura che sarebbe stata “la stessa sia nel caso nazionale sia in quello internazionale”[2].
Il dibattito che seguì The Law of Peoples fu variegato, e orientato in varia misura o a criticarne il carattere conservativo, ancora inter-nazionale e non pienamente cosmopolitico[3], o a difendere il realismo liberale rawlsiano in chiave neo-kantiana[4]. Al centro del presente contributo, invece, è discussa la controversa partizione dei popoli-Stati di Rawls, che si trova espressa in modo preliminare alla sua teoria internazionale. Sinteticamente, verranno indicate alcune ‘aporie’ interne al diritto globale rawlsiano che contribuiscono a ridimensionare il carattere inclusivo della sua proposta normativa. Segnatamente, nella prospettiva del filosofo statunitense si possono rinvenire due ‘fallacie’ – la prima di ordine logico, e una seconda, che ne è corollario, di ordine politologico – le quali, in certa misura, inficiano la sua prospettiva teorico-internazionalistica.
Una fallacia universalistica
Il punto di partenza del diritto dei popoli rawlsiano è piuttosto tradizionale. Come direbbe Aristotele, “è uno il territorio di uno Stato e i cittadini hanno in comune un unico Stato” (Pol. II 1, 1260b). Similmente, per Rawls i soggetti del diritto dei popoli sono proprio gli Stati: “un ruolo importante del governo, per quanto arbitrari possano apparire i confini di una società da un punto di vista storico, è quello di farsi agente efficace di un popolo, nel momento in cui questo si assume la responsabilità del proprio territorio e delle dimensioni della sua popolazione, così come della conservazione dell’integrità ambientale di quel territorio”[5]. Non ogni Stato (State) ha però un identico status; né, per questa stessa ragione – si vedrà – Rawls ritiene gli Stati siano sempre in grado di rappresentare i rispettivi popoli (Peoples). In The Law of Peoples, infatti, vi è una tassonomia delle diverse forme di governo articolata in base alla capacità di questi di garantire i diritti dei popoli racchiusi entro i propri confini. Tuttavia, questa tassonomia delle forme di governo si presenta in Rawls come una tipologia gerarchica di popoli (Peoples), e non propriamente di Stati (States), disposti in ordine decrescente di ‘decenza’. Questo slittamento semantico, che è concettuale al contempo, implica che i termini di “Stati” e “popoli”, dapprima tra loro dissociati come entità distinte, risultino infine così sovrapposti da prospettare, in senso forte, una suddivisione dei popoli su base etica, in luogo di una distinzione delle loro forme di governo su base politologico-giuridica. In altri termini, talvolta i popoli sono scambiati per rigide tipologie di società, talaltra le forme di governo sono scambiate per popoli tout court. Ne consegue una partizione dei “popoli” che si trasforma, da strumento analitico-descrittivo, a discrimen normativo dei diversi soggetti politico-territoriali.
Rawls distingue infatti “cinque tipi di società nazionali” (types of domestic societies):
- I “popoli liberali ragionevoli” (reasonable liberal people),
- I “popoli decenti” (decent peoples), che si suddividono a loro volta in “popoli gerarchici decenti” e non gerarchici[6]. All’interno di questa seconda categoria di “popoli decenti”, la specifica condizione per definire “gerarchici decenti” alcuni popoli sono il rispetto dei diritti umani, e la presenza di una gerarchia di consultazione decente[7]. Inoltre, per Rawls, “una società decente non è aggressiva ed entra in guerra solo per autodifesa”[8]. I “popoli liberali ragionevoli” e i “popoli decenti”, nel loro insieme, costituiscono i “popoli bene ordinati” (well-ordered people).
Gli Stati (o meglio i popoli) che non sono bene ordinati, invece, sono rispettivamente - Gli “stati fuorilegge” (outlaw states),
- Le “società svantaggiate da condizioni sfavorevoli” (societies burdened by unfavorable conditions);
- Le società rette da forme di “assolutismo benevolo” (benevolent absolutism)[9].
La realtà internazionale degli Stati, quindi, risulta composta da un variegato pluralismo giuridico ed istituzionale. Rawls definisce come “utopia realistica” la situazione in cui “tutte le società fossero […] capaci di stabilire regimi liberali o decenti”[10]. Fintantoché sussistono società (o popoli) non decenti, dunque, l’ipotesi di una società dei popoli decenti rimarrebbe soltanto un “miraggio”[11]. Ne consegue che, nella prospettiva rawlsiana, i tipi 3) 4) 5) siano tacitamente relegati tra i popoli ‘non-decenti’, benché il filosofo statunitense si avveda dal formulare una netta dicotomia in tal senso.
La categoria di ‘decenza’, riferita qui a determinati popoli, appare così centrale per Rawls da affidare ad un’ampia nota a piè di pagina, all’inizio dell’introduzione, una sua proposta di definizione: “Uso il termine ‘decente’ – scrive Rawls – per descrivere società non liberali le cui istituzioni di base soddisfano certe condizioni specificate di giusto e giustizia politici (incluso il diritto dei cittadini a svolgere un ruolo effettivo, per esempio attraverso associazioni o gruppi, nelle decisioni politiche) e inducono i loro cittadini a onorare un diritto ragionevolmente giusto per la società dei popoli”[12].
Sul significato di “decenza” (decency) Rawls ritorna ancora in seguito, definendola come “un ideale dello stesso genere della ragionevolezza, anche se più debole (ha un’estensione meno ampia rispetto alla ragionevolezza)”, e aggiungendo, piuttosto ambiguamente, che “il significato che gli diamo dipende dall’uso che ne facciamo”[13]. In parte, dunque, il termine risponde a un criterio normativo, in parte ad un criterio soggettivo. Il significato ‘oggettivo’ di popoli decenti, si è visto, è quello che circoscrive i popoli che rispettano i diritti umani, hanno qualche struttura di consultazione elettorale al loro interno, e non conducono guerre aggressive al loro esterno[14].
Il grado minore di decenza spetta pertanto agli “stati fuorilegge”, da Rawls definiti come “regimi [che] reputano ragione sufficiente per dichiarare guerra il fatto che la guerra promuova, o possa promuovere, gli interessi nazionali (non ragionevoli) del regime”[15].
Si tratta di una formulazione che ha degli illustri precedenti. La teoria internazionalistica di Rawls è di manifesta ispirazione kantiana. In Die Metaphysik der Sitten (1797) Kant presentava il “nemico ingiusto” (ungerechten Feind) come lo Stato “la cui volontà pubblicamente manifestata (sia a parole, sia a fatti) […] renderebbe ogni stato di pace impossibile tra i popoli”[16]; ancora Schelling, seguendo Kant, presentava il caso di un singolo “stato ribelle” (rebellische Staatsindividuum) contrapposto alle “nazioni civilizzate” (kultivieren Nationen)[17]. È forse a Francisco de Vitoria che risale questo dispositivo dicotomico della letteratura (pre)internazionalistica, basato sulla discriminazione di regimi politici (principatus) o governanti (principes) illegittimi per la quantità e le atrocità dei danni e delle offese arrecate a un popolo (hoc multitudine et atrocitate damnorum et iniuriarum)[18]. Similmente a Vitoria, questa tipologia di società non è tollerabile per la teoria liberale rawlsiana, mentre più tollerabile, invece, risulta essere una “società gerarchica decente”. Come può essere tollerata, dunque, una società simile da parte dei popoli liberali? La risposta rawlsiana è duplice.
Da un lato, sostiene Rawls, “un popolo liberale deve tollerare e accettare una società non liberale, a condizione che le istituzioni di base di questa società soddisfino certe condizioni specificate di giusto e giustizia politici e conducano il suo popolo a onorare un ragionevole e giusto diritto per la società dei popoli”[19]. Dall’altro, la società liberale può “spingere gradualmente tutte le società non ancora liberali in una direzione liberale, finché tale processo (nel caso ideale) tutte le società non saranno diventate liberali”[20].
Entrambe le risposte sono compatibili nella prospettiva liberale rawlsiana, che risulta pertanto aporetica: non soltanto i diversi popoli (o Stati) non costituiscono de facto una società dei popoli liberali nella realtà presente, ma qualora parte di essi costituissero una simile società, non potrebbero tollerare tipologie di popoli (o Stati) diversi (siano essi gli stati fuorilegge, oppure altre società ‘decenti’, diverse da quelle basate su un sistema di consultazione interno)[21]. Implicito nell’argomento rawlsiano è la clausola pars pro toto[22], per la quale il solo standard normativo liberale – storicamente circoscritto sul piano geografico e culturale – diviene la condizione per fondare un diritto dei popoli ‘decenti’. Da questa fallacia di natura logica, che chiameremo universalistica, ne consegue un’altra, di carattere politologico, già discussa nella letteratura internazionalistica.
La fallacia della “seconda immagine”
La prima parte di The Law of Peoples descrive “la società dei popoli liberali”, cioè “l’estensione a una società dei popoli di una concezione liberale della giustizia per un singolo regime”[23]. La seconda parte dell’opera teorizza invece il modo in cui i popoli liberali possono cooperare con popoli non liberali, qualificati come “popoli decenti”[24]. Nella prospettiva rawlsiana i “popoli decenti” possono essere inclusi all’interno di un diritto dei popoli se rispettano, si è visto, alcuni standard di decenza normativa, vale a dire se sono compatibili con un modello liberale (o simile). Solo per questo insieme di popoli (liberali e “decenti”) è possibile concepire una “teoria ideale” del diritto dei popoli, che è oggetto della prima e seconda parte di The Law of Peoples. I “popoli non bene ordinati”[25], invece, possono essere inclusi soltanto all’interno di una “teoria non ideale”, a cui è dedicata la terza parte dell’opera rawlsiana. L’universalità della prospettiva internazionalistica rawlsiana, si è visto, è viziata da un bipolarismo filosofico-normativo (e geopolitico) di fondo: continua a sussistere una tensione antitetica tra un club di popoli ‘ben ordinati’ da un lato, e una congerie di popoli ‘non ben ordinati’ dall’altro, tra popoli decenti e popoli non-decenti. Ma il presupposto di questa partizione rawlsiana, svolta sul piano della politica internazionale, si trova nella sua prospettiva politica domestica.
Per Rawls la democrazia costituzionale liberale è una forma “superiore alle altre forme di società”[26]. Da questa forma di governo interna ad uno Stato seguirebbe la migliore politica estera possibile tra gli Stati: secondo Rawls, infatti, è “la struttura istituzionale” di alcune società che rende queste “intrinsecamente aggressive e ostili verso altri stati”[27]. È l’idea, insomma, della pax democratica, che postula l’assenza di conflitto tra forme analoghe di regimi democratici.
Quest’idea, che affiora a più riprese nell’opera rawlsiana[28], è presentata perfino come un “dato cruciale” della politica internazionale: i popoli decenti (e a fortiori quelli liberali) “non cercano di convertire gli altri alla propria religione, né di conquistare territori più vasti, né di esercitare il potere politico su un altro popolo”; inoltre, promuovono il loro reciproco benessere “mediante negoziati e scambi”[29]. Dal moeurs douces di Montesquieu alle prospettive neo-kantiane contemporanee, si tratta di un’idea che ha esercitato grande attrattiva nell’ambito della tradizione internazionalistica liberale[30]. Al contempo, rappresenta una riformulazione epigonale di una fortunata “fallacia” politologica che, almeno a partire da Kenneth Waltz, è stata sottoposta a dura critica nell’ambito delle Relazioni Internazionali.
In The Man, the State and War (1959) Waltz ha sollevato una questione metodologica fondamentale: ogni tentativo di spiegazione monocausale della politica internazionale aspira ad individuare ed isolare un fenomeno politico negativo, quindi a conoscerne la presunta condizione causale per rimuoverlo. Alla base di questo approccio si troverebbe una “vecchia fallacia razionalistica”[31] che, ottimisticamente, riconduce via via i fenomeni della politica internazionale a un ristretto numero di cause, riposte o nella natura umana, o in quella degli Stati, o in quella del loro insieme. Queste diverse valutazioni delle cause erano definite “immagini”, cioè singole rappresentazioni di fattori monocausali su cui si fondavano “teorie parziali”[32] della politica internazionale. Per quanto datata, la critica waltziana alle diverse immagini fornisce ancora un utile strumento per scardinare alcune fallacie che sopravvivono nel dibattito internazionalistico. La “seconda immagine”, in particolare, si fonda sulla presunzione di una corrispondenza tra un determinato ordinamento interno e la pace esterna.
Secondo i teorici della “seconda immagine” – trasversali a più orientamenti politico-ideologici – la possibilità di istituire una pace internazionale si fonda sulla “generalizzazione di un modello di stato e di società”[33]. In altri termini, per dirla con Waltz, “tanto è perfetto al suo interno, altrettanto diventa illuminato nella politica estera”[34]. La pax democratica, conosciuta anche come “teorema di Wilson”, ha rappresentato uno dei più longevi modelli della politica estera liberale. E tuttavia priva di quella certezza assiologica che si trova nell’opera rawlsiana.
In primo luogo perché i governi degli Stati liberal-democratici, per poter vincolare ampie risorse pubbliche in campagne militari all’estero, abbisognano sul piano interno di un maggiore grado di persuasività sull’opinione pubblica[35]. In secondo luogo perché, storicamente, anche i governi a regime costituzionale-liberale hanno ricorsivamente impiegato la forza nei loro reciprochi intercorsi[36]. Infine, da un punto di vista empirico, perché il numero di campagne militari non è affatto direttamente proporzionale alla maggiore omogeneizzazione delle forme di governo nel mondo. Tra il 1990 il 2017, il numero degli interventi militari statunitensi è stato superiore fino a sei volte quello registrato nell’arco di due secoli, tra il 1798 e il 1989[37]. Una società internazionale costellata di “popoli decenti”, insomma, non garantisce una riduzione del livello di bellicosità secondo il modello della “seconda immagine”.
In The Law of Peoples è lo stesso Rawls ad ammettere alcune pratiche interventistiche nella politica estera dei popoli liberali. Per quanto ‘indecente’, il ricorso alla forza è praticato dai popoli ‘più decenti’ in ragione di considerazioni morali, e segnatamente per il “contenimento nei confronti degli stati fuorilegge” e la protezione dei diritti umani[38]; o, ancora, in ragione di opportunità strategiche: di fatto, osserva Rawls, anche i popoli decenti intervengono “spesso attraverso operazioni segrete, in paesi più piccoli o deboli, e perfino in democrazie meno salde e sicure”[39]. Infine, in conformità ad una logica securitaria per cui, accanto ai popoli ‘non decenti’, anche i “popoli democratici […] si impegnano nella difesa del loro interesse alla sicurezza”[40]. Pertanto, né nella pratica della politica estera liberale, né nella formulazione rawlsiana di un diritto dei popoli ideale, la dimensione bellica è espunta dall’orizzonte giuridico (e geopolitico) dei popoli ‘più decenti’ e ‘meglio ordinati’.
Conclusioni.
La teoria rawlsiana ha tentato di dare espressione filosofica ad una Weltanschauung liberale che ha interpretato un diritto dei ‘popoli decenti’ pro domo sua. Nella mancata simmetria tra un diritto dei popoli decenti e il diritto dei popoli ‘non ideale’, e ancora in quella tra l’ordine giuridico liberale interno ad uno stato e il disordine esterno, si può ravvisare una duplice difficoltà teorica nella proposta rawlsiana. In particolare, si è proposto di ricondurre questi due limiti teorici – ostativi rispetto ad un diritto dei popoli davvero inclusivo – a due forme di fallacie.
Nella distinzione tra popoli decenti e non-decenti è infatti latente una discriminazione filosofico-culturale che ridimensiona il pluralismo giuridico dei popoli. Si è definito questo argomento internazionalistico rawlsiano, che si fonda su una pars pro toto, come fallacia universalistica. In secondo luogo, la teoria avanzata in The Law of Peoples postula un ordine internazionale ideale che è costruito su immagine e somiglianza di un modello liberale di stato e società: nello specifico, si tratta della pax democratica. Quest’ultima difficoltà teorica costituisce, quasi come esempio da manuale, la fallacia della “seconda immagine” già descritta da Kenneth Waltz, e ampiamente discussa nelle Relazioni Internazionali.
A distanza di circa vent’anni anni da The Law of Peoples, i limiti filosofici e normativi della proposta di Rawls ci interrogano ancora oggi non soltanto sulle ‘fallacie’ del liberalismo internazionalistico, ma sulla indispensabile relazione disciplinare tra filosofia politica e le stesse Relazioni Internazionali.
Note
[1] Si veda BEITZ C., Political Theory and International Relations, Princeton University Press, Princeton, 1979; HOFFMANN S., Duties Beyond Borders: On the Limits and Possibilities of Ethical International Politics, Syracuse University Press, New York, 1981.
[2] RAWLS J., Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, Edizioni di Comunità, Torino, 2002, p. 4.
[3] BEITZ C., Rawls’s Law of Peoples, in “Ethics”, Vol. 110, No. 4 (July 2000), pp. 669-696; DOYLE M. W., One World, Many Peoples: International Justice in John Rawls’s the Law of Peoples, in “Perspectives on Politics”, Vol. 4, No. 1 (Mar. 2006), pp. 109-120.
[4] AVILA M., Defending a Law of Peoples: Political Liberalism and Decent Peoples, in “Journal of Ethics”, Vol. 11, No. 1 (2007), pp. 87-124; FÖRSTER A., Peace, Justice and International Order: Decent Peace in John Rawls’ The Law of Peoples, Palgrave Macmillan, New York, 2014.
[5] RAWLS J., Il diritto dei popoli, p. 50.
[6] Ivi, p. 4.
[7] Ivi, p. 84.
[8] Ivi, p. 116.
[9] Ivi, p. 5.
[10] Ivi, p. 6.
[11] HOFFMANN S., Duties Beyond Borders, p. 5.
[12] RAWLS J., Il diritto dei popoli, p. 3, n. 2.
[13] Ivi, p. 88.
[14] Tralasciamo qui criteri normativi ‘minori’, descritti ivi, pp. 84-87 e passim.
[15] Ivi, p. 120.
[16] KANT I., Metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari, 2009, II, II, § 60, p. 187.
[17] SCHELLING F. W. J., Sistema dell’idealismo trascendentale, con testo tedesco a fronte, Rusconi, Milano, 1997, p. 499.
[18] VITORIA F., De iure belli, a cura di C. Galli, Laterza, Roma-Bari 2005, (Questio quarta, 9) p. 97
[19] RAWLS J., Il diritto dei popoli, p. 78; cfr. anche p. 110.
[20] Ivi, p. 78.
[21] Un simile argomento è stato recentemente sviluppato da MEARSHEIMER J. J., The Great Delusion: Liberal Dreams and International Realities, Yale University Press, New Haven-London, 2018, benché riferito piuttosto ad una contraddizione interna alla filosofia del liberalismo politico.
[22] Prendiamo questa formula a prestito da SCHWINN T., Globalisation and regional variety: problems of theorisation, in “Comparative Education”, Vol. 48, No. 4 (2012), p. 528.
[23] RAWLS J., Il diritto dei popoli, pp. 70-71.
[24] Ivi, p. 78.
[25] Ivi, p. 119.
[26] Ivi, p. 81.
[27] Ivi, p. 9
[28] Ivi, pp. 25, 38, 63-70, 121.
[29] Ivi, p. 9.
[30] La letteratura è ampia; si veda, quantomeno, l’ormai classico DOYLE M. W., Kant, Liberal Legacies, and Foreign Affairs, in “Philosophy and Public Affairs”, Vol. 12, No.
[31] WALTZ K., L’uomo, lo stato e la guerra. Un’analisi teorica, Giuffrè, Milano, 1998, p. 55.
[32] Ivi, p. 214.
[33] Ivi, p. 115.
[34] Ivi, p. 146.
[35] È la tesi centrale di MEARSHEIMER J. J., Why leaders lie? The truth about lying in international politics, Oxford University Press, New York, 2011.
[36] LAYNE C., Kant or Cant: The Myth of the Democratic Peace, in “International Security”, Vol. 19, No. 2 (1994), pp. 5-49.
[37] MEARSHEIMER J. J., The Great Delusion: Liberal Dreams and International Realities, p. 272, n. 1.
[38] RAWLS J., Il diritto dei popoli, cfr. pp. 62, 106, p. 125, n. 6
[39] Ivi, p. 63.
[40] Ivi, p. 69.
Foto copertina: Illustrazione di Ben Jones. The Nation