L’impiego del segreto è uno strumento mutevole di governo. Esso rientra tra i conflitti che coinvolgono entità collettive sin dal mondo antico fino agli Stati moderni e contemporanei.
A cura di Silvia Lo Verde
Si è sostenuto[1], in merito al legame intercorrente tra la società antica e quella moderna, che oggi, come nel passato anche molto lontano, la società individui nella segretezza del proprio agire uno degli aspetti fondamentali della politica.
A Roma, il segreto[2] appariva come una risorsa per la città, ma anche un intrigo per dominare occultando le scelte e l’agire politico: due modelli destinati a condizionare la tradizione europea e a essere concepiti e acquisiti nelle concezioni moderne.
La profonda differenza tra gli ordinamenti che hanno retto la Roma antica nel periodo monarchico, repubblicano e imperiale rispetto a quelli moderni impone – va preliminarmente puntualizzato – un richiamo alla prudenza nella comparazione tra categorie logico-giuridiche quali, per l’appunto, il concetto di Stato e di segreto di Stato nell’accezione contemporanea. Prendendo in considerazione un arco temporale che va dall’VIII sec. a.C. al IV sec. a.C., va rilevata, per di più, l’assenza di una elaborazione dottrinale o anche solo concettuale, tanto che non si rinviene nemmeno una definizione del concetto di ‘segreto’. Il riferimento al segreto nei più diversi contesti, tuttavia, può rinvenirsi dalla lettura delle fonti, tanto giuridiche quanto letterarie[3]. Non deve stupire, pertanto, se in dottrina si è sostenuta l’esclusione dell’esistenza del segreto di Stato nella Roma antica[4].
Ciononostante, tutta la storia della Roma antica era permeata, come attestano le fonti tramandateci, da una straordinaria attenzione riservata alla tutela della segretezza, segnatamente di quella funzionale alla sicurezza militare, alla conservazione e alla difesa della comunità politica, all’esercizio dell’autorità e alle funzioni di direzione del Senato – cc.dd. ‘arcana consilia patrum conscriptorum’ – che si svolge in forma inconoscibile. Si trattava di segreti protetti per scongiurare il rischio che dalla loro indebita sottrazione o diffusione derivasse un nocumento per l’intera società romana, da presidiare in nome di un’esigenza pubblica: salvaguardie assistite da precetti e sanzioni ben definiti, destinati a essere applicati con procedure altrettanto puntualmente strutturate.
Il segreto era percepito nell’interesse della comunità e non – come lo si intende oggi – quale prerogativa accordata a un potere dello Stato di ‘occultare’ un quid erga omnes.
Nel diritto romano, l’attuale concetto di ‘segreto di Stato’ è stato menzionato con diverse espressioni sostanzialmente equivalenti sotto il profilo contenutistico. Le fonti latine rendono il termine de quo con le espressioni ‘arcana imperii’ – quella più nota –, ‘secreta imperii’ e ‘secreta ad rem publicam pertinentia’[5]. Minore eco ha avuto, anche negli studi recenti, la formula ‘arcana seditionis’, nel senso di congiura[6].
L’espressione ‘arcana imperii’, utilizzata da Cornelio Tacito negli Annales, insieme ad ‘arcana dominationis’, intesa quale ‘cose occulte del dominio’ indica la potestà di condurre lo Stato. L’etimologia della formula ‘arcana imperii’ è oggetto di disputa tra i filologi in merito all’origine del termine ‘arcanum’. Secondo una prima ricostruzione – ritenuta più attendibile dagli studiosi moderni – il termine de quo origina da ‘arca’, ossia la cassa d’argento all’interno della quale veniva originariamente custodito il tesoro pubblico. Arcanum sarebbe, dunque, ciò che è stato occultato, nascosto o chiuso in un contenitore, cui hanno accesso solo alcuni soggetti identificati. Secondo altra ricostruzione, il termine deriverebbe da ‘arx’, ossia l’arce, intesa quale parte più alta e meglio protetta della città. Quanto, invece, al genitivo ‘imperii’, il termine – riconosciuta nella dottrina romanistica la diatriba circa la natura e il contenuto dell’imperium – assume, ai fini della trattazione seguente, il significato di ‘comando militare supremo’.
Ricostruendo il termine ‘secretum’, derivante dal verbo composto ‘secerno’, può attribuirsi il significato di ‘separare’, ‘distinguere’. Secretum è, pertanto, tutto ciò che è stato separato dal resto. Inoltre, tra i termini ‘arcanum’ e ‘secretum’ sussiste una piena coincidenza di significato, posto che entrambi fanno cenno a qualcosa che deve rimanere oscuro alla maggioranza del popolo romano e conosciuto solo da determinati soggetti cui incombe l’obbligo di servare secretum.[7]
In origine, il novero degli arcana imperii dovette essere abbastanza limitato e riferito a quelle res dalle quali dipendeva la sopravvivenza, l’integrità e la magnificenza della città di Roma. Si pensi, a questo proposito, ai cc.dd. ‘secreta pignora imperii’: l’ancile di Marte e il Palladio che non potevano per nessuna ragione cadere nelle mani del nemico determinando, in caso contrario, la fine di Roma. Inoltre, a occuparsi dei possibili furti dello scudo caduto dal cielo del Dio Marte sarebbe stato lo stesso re in persona che avrebbe sancito la morte del colpevole[8].
Contestualmente alla monarchia dei Tarquini il novero degli arcana imperii crebbe notevolmente. Risulta dalle fonti antiche, difatti, la redazione, da parte dei re etruschi, di documenti attinenti all’organizzazione politica e al suo funzionamento, contenenti notizie e procedure non divulgabili[9].
Con l’estendersi dell’egemonia sul Mediterraneo, la categoria delle notizie segrete continuò ad ampliarsi e, parallelamente, cominciò a prendere forma un rudimentale regime giuridico del ‘segreto di Stato’ attinente tanto all’individuazione dei soggetti legittimati a decretare quali notizie fossero coperte da segreto, quanto la previsione di una sanzione da comminarsi nei casi di violazione del segreto.
Le fonti riferiscono, anzitutto, di tre categorie di notizie ritenute sensibili, oltre a quella attinente i secreta pignora imperii: i ‘secreta ad bella pertinentia’, ossia i segreti militari – che assieme ai secreta pignora imperii costituivano il nucleo più antico del ‘segreto di Stato’ –, i segreti attinenti al culto e quelli decretati dal Senato con riferimento alle notizie attinenti alla sicurezza interna e a quella che oggi si definisce politica internazionale[10].
Oltre a costituire un aspetto del governo, il segreto divenne bene strategico in un contesto di rapporti dominati dalla guerra: elemento di continuità e condizione attuale entro cui si svolgevano le azioni politiche. L’azione bellica, coi suoi principi, saperi e tecniche di cui andava conservata l’esclusività, si adattava al mutare dei regimi e allo scorrere delle epoche diverse, consolidandosi quale elemento centrale. La rivelazione dei segreti militari – comprendenti informazioni preziose per l’affermarsi e il prevalere del potere di Roma – al nemico era perseguita già sotto i re con la pena capitale.
In particolare, da Quintiliano[11] si è appreso che se uno straniero avesse aiutato la civitas a conseguire quelle informazioni, egli sarebbe divenuto cittadino romano; analogamente il condannato all’esilio con il medesimo comportamento aveva il diritto di tornare in patria. Si trattava di una normativa ‘premiale’ per chi rivelasse informazioni rilevanti per la res publica e risalente all’età regia.
Inoltre, nei Digesta possono rinvenirsi delle norme riferite a una determinata categoria di milites: gli exploratores, quei soldati cui era affidato il compito di effettuare ricognizioni e acquisire informazioni sulla morfologia del territorio circostante e sul numero delle forze ostili, venendo così in contatto diretto con l’avversario ed esponendosi, in tal modo, a eventuali minacce del nemico volte all’ottenimento di informazioni riservate di natura militare. Si pensi alla collocazione degli accampamenti, alla strategia d’assalto e all’organizzazione degli eserciti. Agli exploratores, i comandanti dell’esercito fissavano un tempo per il rientro, trascorso il quale sarebbero stati qualificati come traditori con successiva condanna a morte[12].
La fattispecie delittuosa di rivelazione di segreti militari al nemico rientrava nel c.d. ‘crimen proditionis’, inteso quale tradimento perpetrato con l’aiuto del nemico o a suo vantaggio e la cui repressione era di competenza del re in età regia e dei consoli o del dittatore o, in casi eccezionali, dei comitia centuriata nell’età repubblicana. L’accertamento della colpevolezza degli accusati avveniva nel corso di un dibattimento pubblico che si svolgeva in contione alla presenza del popolo e nel quale il magistrato agiva di norma contestualmente da accusatore e da giudice. L’esecuzione della pena, che aveva carattere laico e che si attuava con la decapitazione del colpevole, avveniva sempre in publicum per garantire all’evento la massima pubblicità e per agevolare l’esplicarsi dell’effetto deterrente della stessa. Tutto ciò trovava giustificazione ipotizzando che la condotta delittuosa dovesse essere avvertita come potenzialmente dannosa per l’intera comunità e non per il singolo civis[13].
Note
[1] «C’è subito un punto da chiarire circa il segreto imposto dai governi: in realtà esso non viene imposto per motivi di sicurezza, ma solo per far sì che la popolazione non venga a sapere quello che sta succedendo». In questi termini, N. CHOMSKY, Capire il potere, Marco Tropea Editore, Milano, 2002, p. 30.
[2] La letteratura attuale sul tema del segreto di Stato nel diritto romano è assai scarna. Si consigliano quelle che, presumibilmente, sono le uniche opere rinvenibili: R. ORESTANO, Sulla problematica del segreto nel mondo romano, in AA.VV., Il segreto nella realtà giuridica italiana, CEDAM, Padova, 1983; G. SCANDONE, La radice sempre profonda e attuale della tuitio. Un prezioso strumento di comprensione: il diritto romano, in C. MOSCA, G. SCANDONE, S. GAMBACURTA, M. VALENTINI, I servizi di informazione e il segreto di Stato. (Legge 3 agosto 2007, n. 124), Giuffrè Editore, Milano, 2008; BRUTTI M., Arcana imperii. Sulla genealogia del segreto, in L. FORNI, T. VETTOR (a cura di), Sicurezza e libertà in tempi di terrorismo globale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2017.
[3] Per le puntualizzazioni riportate, G. SCANDONE, La radice sempre profonda e attuale della tuitio. Un prezioso strumento di comprensione: il diritto romano, in C. MOSCA, G. SCANDONE, S. GAMBACURTA, M. VALENTINI, I servizi di informazione e il segreto di Stato. (Legge 3 agosto 2007, n. 124), Giuffrè Editore, Milano, 2008, pp. 459-461.
[4] Per questa posizione in dottrina, R. ORESTANO, Sulla problematica del segreto nel mondo romano, in AA.VV., Il segreto nella realtà giuridica italiana, CEDAM, Padova, 1983.
[6] R. ORESTANO, Sulla problematica del segreto nel mondo romano, in AA.VV., Il segreto nella realtà giuridica italiana, CEDAM, Padova, 1983, p. 95.
[7] G. SCANDONE, La radice sempre profonda e attuale della tuitio. Un prezioso strumento di comprensione: il diritto romano, in C. MOSCA, G. SCANDONE, S. GAMBACURTA, M. VALENTINI, I servizi di informazione e il segreto di Stato. (Legge 3 agosto 2007, n. 124), Giuffrè Editore, Milano, 2008, p. 461.
[8] Ivi, p. 463.
[9] Si fa riferimento ai Commentarii Servii Tulli, sulla base dei quali vennero istituiti i primi due consoli, ai Libri rituales, contenenti secreta circa i rituali fondativi della città e all’organizzazione politica e militare, ai Libri sibillini che venivano consultati in tutti i momenti critici della storia di Roma. Coperta da segreto era, in aggiunta, la procedura di nomina del dictator. Cfr. Ivi, p. 464.
[10] Ivi, p. 465.
[11] Cit. in BRUTTI M., Arcana imperii. Sulla genealogia del segreto, in L. FORNI, T. VETTOR (a cura di), Sicurezza e libertà in tempi di terrorismo globale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2017, p. 195.
[12] G. SCANDONE, La radice sempre profonda e attuale della tuitio, cit. p. 466.
[13] Ivi, pp. 472-474.
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