Conversazioni con il fotoreporter Fabio Polese, testimone diretto degli eventi in Myanmar, un paese devastato dalla guerra civile e ora ulteriormente colpito dalla tragedia del terremoto.
A 5 giorni dal violentissimo terremoto che ha devastato il Myanmar vi è ancora molta confusione e incertezza sullo stato delle cose nel paese. Un paese impegnato in una sanguinosa guerra con sé stesso già da molto tempo e nel quale una situazione sì emergenziale rischia di essere pesantemente strumentalizzata. Per cercare di fare chiarezza ne abbiamo parlato con Fabio Polese, giornalista e fotoreporter freelance di base in Thailandia che da anni segue le vicende birmane. Autore di diversi libri, l’ultimo dei quali, “BORDERLINE Storie dai confini del mondo (Eclettica Edizioni, acquista qui)” porta i lettori tra strade inesplorate e pericolose zone di guerra che ha visto e documentato nei suoi viaggi.
L’intervista
Potresti darci un quadro generale della situazione attuale in Myanmar post sisma?
A cinque giorni dal terremoto che ha devastato il Myanmar, i morti dichiarati sono circa 3mila e le speranze di trovare superstiti si affievoliscono di ora in ora. Il sisma di magnitudo 7,7, che ha colpito il Paese venerdì, ha cancellato intere comunità e aggravato una crisi umanitaria già drammatica. Si parla di oltre 4.500 feriti e almeno 441 dispersi, mentre i dati reali potrebbero essere ben più alti. Molte aree, infatti, restano isolate, senza elettricità, senza strade percorribili, copertura telefonica e internet. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, più di 10 mila edifici sono crollati o risultano gravemente danneggiati nel centro e nord-ovest del Paese.
Dalle testimonianze che ci arrivano le persone sono costrette a bruciare i corpi per strada, tra le macerie e la disperazione di chi non ha neanche un luogo per seppellire i propri cari. I cimiteri principali sono ormai pieni. Gli ospedali sono al collasso, i farmaci mancano e l’accesso agli aiuti è ostacolato sia dai danni alle infrastrutture, che dalla guerra civile in corso.
La comunità internazionale ha offerto aiuti? Se sì, la giunta militare birmana li ha accettati o ci sono state resistenze per motivi politici?
Il Myanmar, guidato da una giunta militare isolata dalla comunità internazionale dal colpo di Stato del primo febbraio 2021, ha decretato lo stato di emergenza in sei regioni e ha lanciato una rara richiesta di aiuti umanitari internazionali.

Aiuti che sono arrivati. La Thailandia ha inviato 55 militari specializzati, 6 cani da ricerca e mezzi pesanti. Pechino ha spedito 82 soccorritori e annunciato l’invio di aiuti economici. Hong Kong ha mandato 51 operatori e 2 cani da salvataggio, mentre l’India ha fatto atterrare aerei con team di emergenza, ospedali da campo e cibo. Malesia e Russia hanno inviato personale e materiali di supporto. Gli Stati Uniti hanno dichiarato in una nota che forniranno aiuti fino a due milioni di dollari attraverso organizzazioni locali di assistenza umanitaria. Il problema è che nel Paese gli spostamenti risultano estremamente difficili e in molte delle zone colpite – soprattutto quelle sotto il controllo dei gruppi anti-giunta – non è ancora intervenuto nessuno.
Verranno amministrati e redistribuiti dalla sola giunta militare?
In passato i militari hanno impedito l’arrivo degli aiuti umanitari nelle zone fuori dal loro controllo, arrestato operatori umanitari e ostacolato le attività di soccorso. Il timore è che accada di nuovo. Nelle aree gestite dalla giunta è stato concesso l’ingresso a soccorritori stranieri e agli aiuti internazionali, mentre nelle regioni controllate dagli insorti, l’accesso resta limitato o del tutto negato dall’esercito.
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Un disastro di questa portata che effetti sta avendo sul campo di battaglia? Sembra che la giunta continui a bombardare i ribelli anche nelle zone colpite dal sisma.
Questa è la prassi dei militari al potere. Nonostante un cessate il fuoco dichiarato dalle forze anti-giunta nelle regioni terremotate, l’esercito ha continuato a condurre attacchi aerei, anche poche ore dopo il sisma. Sabato, un bombardamento sulla città di Naungcho, nello Stato Shan, ha causato la morte di sette civili. Altri raid sono stati segnalati nella regione di Sagaing e nello Stato Karen e Karenni, vicino al confine con la Thailandia.
Solo ora ci accorgiamo che esiste il Myanmar. Ma la guerra civile in atto da quattro anni ha causato quasi 70mila morti e oltre tre milioni di sfollati interni. Per l’Unicef oltre 5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria e 7,8 milioni di adolescenti non hanno accesso all’istruzione. L’economia del Myanmar è al collasso, con un tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 40%. A questo drammatico quadro si aggiungono più di 27mila persone arrestate per essersi opposte alla giunta militare.
In questo contesto, l’esercito birmano non fa alcuna distinzione tra obiettivi militari e civili. Raid aerei, attacchi con droni e colpi di mortaio colpiscono indiscriminatamente scuole, ospedali, abitazioni e luoghi di culto, trasformando interi villaggi in bersagli. Le linee che separano il fronte dal resto del Paese sono sempre più labili e a pagarne il prezzo più alto sono i civili. Fino a una settimana prima del terremoto mi trovavo nella zona controllata dai Karenni per documentare gli effetti del conflitto. Intere città erano già ridotte in macerie, gli ospedali improvvisati, pieni di civili feriti dai bombardamenti e dalle mine disseminate ovunque. Nelle scuole i bambini sono costretti a rifugiarsi all’improvviso in trincee di fortuna per la paura di attacchi. Insomma, la guerra aveva già messo in ginocchio queste comunità. Il terremoto ha aggravato una tragedia che era già in atto.
Prima del terremoto quale era il punto della situazione sul campo tra i ribelli e la giunta militare?
Nell’ultimo anno, le milizie etniche storiche – tra cui quelle Karenni, Kachin, Karen, Arakan e Chin – insieme ai combattenti del People’s Defence Force (PDF), braccio armato del National Unity Government (NUG), il governo clandestino che si è costituito dopo il golpe, hanno conquistato territori strategici, incluse città, basi militari e valichi di frontiera con India, Cina e Thailandia. Secondo lo stesso NUG, i gruppi della resistenza controllerebbero oggi oltre il 60% del Paese, mentre più di 15.000 tra soldati e poliziotti avrebbero disertato per unirsi alla lotta contro la giunta. Credo che il dramma del terremoto possa infliggere il colpo di grazia ai militari, già in affanno nel tentativo di mantenere il controllo su vaste aree del Paese. Incapaci di fornire una risposta concreta all’emergenza e privi di legittimità agli occhi di milioni di cittadini, i vertici del regime rischiano di veder crollare anche quel fragile equilibrio che finora aveva garantito la loro sopravvivenza al potere.
Foto copertina: Gli effetti del terremoto in Myanmar