Il Movimento per la Resistenza Islamica: Hamas – Parte 3


Abbiamo chiuso la seconda parte parlando del ‘disimpegno’ annunciato da Ariel Sharon da Gaza nel 2005. In questa terza parte tratteremo la storia della Resistenza Islamica Palestinese dal 2006 a oggi, tentando di rintracciare le continuità di una condizione di pulizia etnica, occupazione militare e apartheid – già illegali secondo il diritto internazionale –   e che ormai in maniera sempre più chiara, hanno la forma di un genocidio e di crimini contro l’umanità.


La vittoria di Hamas: dalle elezioni del 2006 alla Guerra su Gaza (2008-2009)

Nel 2005 Israele, sotto la presidenza di Ariel Sharon, decide di avviare il disimpegno dalla Striscia di Gaza affermando di non occupare più l’area. Tuttavia, nel 2009 le Nazioni Unite dichiareranno che Israele occupa illegalmente la Striscia di Gaza. Cosa succede in questi quattro anni?
Nel 2005 Sharon rimuove 8000 coloni che occupavano il 30% della Striscia più fertile e che verranno rilocati nella Cisgiordania, territori che, come dichiarato da Sharon nel suo discorso ad Herzliya, ‘costituiscono parte inseparabile dello Stato di Israele’. Secondo le parole del Presidente Israeliano Gaza è una zona che si può tralasciare, favorendo invece l’annessione della Cisgiordania Palestinese che viene spesso citata con un’ enfasi di attaccamento nazionalistico e religioso sotto il nome di Giudea e Samaria. Questo approccio: il disimpegno da Gaza e il suo isolamento, e la graduale annessione della Cisgiordania con relativa espropriazione delle terre e delle proprietà dalla popolazione palestinese è una policy che continua tutt’oggi e che sta alla radice della questione Palestinese. I leader israeliani descrissero enfaticamente la politica del disimpegno come “formaldeide“: una metafora che richiama la sostanza isolante, rappresentando una strategia implementata nella misura necessaria per impedire qualsiasi avanzamento del processo politico con i palestinesi mentre li si frammenta e divide sempre più. Nonostante queste dichiarazioni, in cui i leader israeliani parlano apertamente di: 1) separazione della Cisgiordania da Gaza; 2) isolamento della Striscia e l’annessione della Cisgiordania; 3) evitare un dialogo con i palestinesi, l’amministrazione Americana Bush tesse le lodi Israeliane come propense alla pace e spinge per un processo di democratizzazione, parte dell’agenda civilizzatrice della War on Terror.

Il 2004 è un anno di perdite importanti che seguiranno a una frammentazione totale della leadership palestinese. Durante questo periodo il leader di Hamas Abdel-Aziz al-Rantissi parla del disimpegno come una vittoria di partenza su cui continuare per la liberazione. Per confutare tali affermazioni, Sharon avvia l’operazione Still Water, durante la quale l’esercito prende d’assalto i campi profughi in Cisgiordania con l’obiettivo dichiarato di “smantellare gruppi terroristici”. Tuttavia, l’operazione innesca una nuova ondata di attacchi suicidi. Il 14 Marzo 2004, gli aerei Israeliani sganciano una bomba a Gaza sul tetraplegico leader di Hamas, Sheikh Ahmad Yassin, di ritorno dalla Moschea. Il 17 Aprile altre bombe mirate vengono sganciate su Rantissi uccidendolo. Yasser Arafat proclama tre giorni di lutto dopo i brutali assassini dei capi di Hamas. Mahmoud Abbas (o Abu Mazen) viene scelto alla guida della Autorità Palestinese (AP) con il favore degli Stati Uniti, mentre Arafat resta alla guida dell’OLP fino alla sua morte che avviene in modo poco trasparente nel novembre 2004. Tutt’oggi l’ipotesi che Arafat sia stato avvelenato col polonio sotto ordine di Sharon non è esclusa. In questi anni la leadership dell’ Autorità Palestinese (AP) e Hamas si fronteggiano in vista delle elezioni. L’AP osteggia Hamas e le sue pratiche di resistenza sotto campagna elettorale in un clima post-intifada.
Tra i palestinesi la discussione per la ricostruzione di progetti politici è sentita e  il desiderio di rinascita politica è forte tuttavia con dubbi, criticità e la consapevolezza delle delusioni del passato. Hamas, non è all’interno dell’OLP ma può partecipare alle elezioni come partito e insiste per un governo di unità nazionale con l’AP e Fatah. Il discorso di Hamas si concentra sull’illegittimità e sulla contestazione radicale dell’Autorità Palestinese, evidenziando il fallimento degli Accordi di Oslo. Si propone quindi di riformare la leadership in Palestina, invitando alla delegittimazione di un’autorità che continua a operare entro schemi giudicati insoddisfacenti e fallimentari propri di quegli stessi accordi. L’ AP invece ritiene di aver lavorato per la pace e di essere già stata sufficientemente ostacolata e decimata. Gli approcci rivelano un’incompatibilità di fondo fra le due strategie.

Hamas presenta un programma elettorale di vasta portata dal nome “Cambiamento e riforma“, dove descrive la sua traiettoria per la lotta alla liberazione accanto alla promessa di affrontare le sfide amministrative quotidiane all’interno dei territori. Questa giustapposizione tra difficoltà mondane e alte aspirazioni di autodeterminazione dà ad Hamas una visione politica di ampio raggio. Inoltre l’organizzazione sfrutta a proprio favore il suo pulito tracciamento di spesa pubblica nella governance comunale. In netto contrasto con il governo e le istituzioni sotto Fatah, Hamas si ritrae come un partito in grado di affrontare i fallimenti della politica palestinese e dell’AP. Il suo manifesto elettorale parla chiaramente di resuscitare i principi fondamentali della lotta, tra cui l’indivisibilità della terra della Palestina storica; l’unità tra Gaza e la Cisgiordania; il ritorno della popolazione palestinese in diaspora; e il diritto di resistere all’occupazione nel tentativo di formare uno stato indipendente. Hamas si presenta ufficialmente come movimento nazionalista Palestinese e Islamico.
I palestinesi vanno al voto per la seconda volta nella storia nel 2006 e a vincere questa volta è Hamas.
Viene formato un governo di coalizione con Fatah sotto la guida del leader di Hamas Ismael Hanieh, questo governo viene immediatamente sanzionato da Israele e dal Quartetto (una coalizione composta da Unione Europea, Russia, Nazioni Unite e Stati Uniti). La leadership eletta non viene accettata dalla comunità internazionale e la risposta a guida americana è quella di spingere per un colpo di stato dove possa tornare Fatàh al potere. Nel corso del 2007, Hamas si impegna nella costruzione di un’Autorità Palestinese unitaria, che includa anche Fatah e sia in grado di accogliere le richieste della diplomazia internazionale. Propone il riconoscimento di uno Stato palestinese nei confini pre-1967, accettando quindi la partizione e implicitamente l’esistenza di Israele, compiendo significative concessioni. Tuttavia, la risposta della comunità internazionale si limita a riaffermare le condizioni già imposte in precedenza all’OLP: il riconoscimento formale di Israele, l’abbandono della resistenza armata e ogni forma di violenza, che il Quartetto definisce indistintamente come “terrorismo”.

Hamas argomenta che gli sforzi non sono reciprocati da Israele, che non riconosce uno stato Palestinese, non rispetta gli accordi di Oslo e mantiene un violento sistema di occupazione nei confronti della popolazione palestinese attraverso l’espansione degli insediamenti coloniali. Tuttavia, questa strategia di divide et impera funziona. L’Autorità Palestinese si frattura di nuovo e dopo diversi scontri sulla linea di una guerra civile fra gruppi palestinesi, si capitola con una divisone dell’autorità: Hamas controlla la Striscia di Gaza e l’AP, con a capo Abu Mazen, la Cisgiordania.

Il governo eletto di Gaza è immediatamente sanzionato e fin dal 2007 si ritrova sotto un blocco terrestre, aereo e marittimo all’entrata della Striscia sia da Israele che dall’Egitto. La Striscia di Gaza è sotto embargo totale.

Il 2014: l’anno più sanguinoso. Terza intifada?

La punizione collettiva a cui il governo Israeliano sottopone i civili di Gaza, perlopiù popolazione di rifugiati, non comincia il 10 ottobre 2023, ma con l’assedio subito dopo il disimpegno del 2005, dove il controllo dell’autorità israeliana tra il 2007 e il 2010 arriva a autorizzare l’entrata di beni di prima necessità calcolando l’apporto calorico per cittadino con il dichiarato obiettivo di tenere la popolazione appena sopra il livello della catastrofe umanitaria. Dato il livello di violenza necropolitica di queste politiche, diventa essenziale, secondo Hamas, far sì che Israele non possa avere una situazione di calma. Hamas chiede la fine dell’assedio, pena la continua resistenza.
Si instaura una dinamica violenta: ogni volta che le restrizioni dell’assedio diventano insopportabili, Hamas lancia i suoi missili rudimentali come atto di ribellione, a cui Israele risponde con bombardamenti e operazioni militari. Questo porta a un cessate il fuoco, ottenuto grazie a pressioni politiche che spingono Israele ad ammorbidire l’embargo. Non appena l’attenzione internazionale si distoglie, la dinamica si ripete.
All’interno di questo schema dove la diplomazia è scarna, vi sono anche eventi regionali e internazionali da mettere a contesto. Il 17 Dicembre 2010 Tarek Mohamed Bouazizi si dà fuoco in un mercato in Tunisia diventando il simbolo delle Rivoluzioni della Dignità[1] o Primavere Arabe. Poche settimane dopo, le rivoluzioni si propagano in Egitto, seguono a domino Siria, Libia, Iraq e Yemen dove le piazze gremite chiedono di sovvertire gli ordini socio-politici ed economici costituiti diventati insostenibili per le popolazioni. In questo periodo storico i gruppi Islamisti sono protagonisti di un iniziale successo politico. Mohammed Morsi in Egitto, sarà l’unico presidente eletto e di estrazione civile a vincere le elezioni e a governare 14 mesi, prima della sua deposizione tramite un colpo di stato militare dell’esercito. Tra il 2011 e il 2013, Hamas riesce ad allentare le politiche dell’embargo, sopperendo più merci dal valico di Rafah al confine con l’Egitto. Con la deposizione di Morsi del 2013, i Fratelli Musulmani ritornano ad avere impopolarità, nel frattempo in Siria e in Iraq emerge Da’esh. La narrativa sui movimenti Islamici viene sempre più appiattita a retoriche fondamentaliste e all’interno di paradigmi securitari.

In questo contesto, Hamas e l’Autorità Palestinese riprendono un dialogo sia nel 2011 che nel 2014, nel tentativo di formare un governo di unità nazionale, al quale Netanyahu si frappone sostenendo che “l’AP deve scegliere se vuole la pace con Israele o con Hamas”. In un incontro a porte chiuse il Segretario di Stato Americano Kerry si sbilancia sostenendo che se Israele non trova un accordo coi Palestinesi per la formazione di due stati rischia di diventare uno stato di Apartheid a tutti gli effetti. Hamas a l’AP convengono nel 2014 nell’accordo di Shati dove Hamas fa grandi concessioni pur di uscire dall’impasse umanitaria e dall’isolamento; e riappacificarsi con Fatah.

L’accordo fallisce il 12 giugno 2014, quando tre israeliani che passeggiavano nelle colonie illegali della Cisgiordania occupata vengono rapiti. La tensione aumenta immediatamente, con le immagini dei tre ragazzi proiettate sulla televisione nazionale israeliana. Seguono arresti e perquisizioni di massa in Cisgiordania, durante le quali l’IDF bypassa completamente l’Autorità Palestinese. Abbas chiede l’aiuto della comunità internazionale. Il 30 giugno i corpi assassinati dei ragazzi israeliani vengono rinvenuti. Il 2 luglio un gruppo di coloni israeliani dà fuoco a uno studente palestinese a Gerusalemme Est, facendo crescere ulteriormente la tensione. Dalla Striscia partono missili, nonostante Hamas fosse inizialmente restia a intervenire. Netanyahu dichiara che è evidente che Hamas riesce a utilizzare i tunnel per armarsi, puntando il discorso su una questione di sicurezza lancia l’Operazione “Margine di Protezione”. L’assalto dura cinquantuno giorni.

L’esercito israeliano attacca l’enclave costiera densamente popolata con tutta la forza del suo esercito, impiegando aerei da combattimento F-16, droni, elicotteri Apache e sganciando una tonnellata di bombe.  Attraverso i raid aerei, Israele bombarda condomini residenziali, famiglie, case, ospedali, ambulanze, scuole, moschee, impianti di produzione di energia, e persino cimiteri. Molte delle scuole colpite sono gestite dalle Nazioni Unite e fungevano da rifugio per gli sfollati interni. I bombardamenti non risparmiano organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, Human Rights Watch, Amnesty International. Diverse organizzazioni locali per i diritti umani condannano le istituzioni israeliane, per l’uso sproporzionato della forza e la mirata punizione collettiva. Le Nazioni Unite accusano Israele di crimini di guerra e gravi violazioni del diritto internazionale. Intere aree della periferia di Gaza vengono rase al suolo mentre l’esercito avanza in un’invasione di terra. Il bilancio delle vittime aumenta man mano l’esercito israeliano invade i centri urbani densamente popolati.

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Lo stesso giorno in cui fu lanciata l’operazione Margine protettivo, Netanyahu dichiara di non prendere di mira civili (diversi report riveleranno il contrario), e che le responsabilità delle morti civili sono da attribuire ad Hamas, che usa la sua popolazione come scudi umani. Il 44% dell’enclave è soggetto a “ordini di evacuazione”.  Mezzo milione di abitanti di Gaza – ovvero un quarto della popolazione totale – vengono sfollati,  Amnesty international riporta gravi livelli di tortura da parte dell’esercito israeliano inflitti durante la guerra del 2014.

Alla fine dell’Operazione sono 2.220 palestinesi uccisi, di cui 1.492 civili, di cui 551 bambini, e intere famiglie sterminate. L’assedio del 2014 è il più letale che Israele infligge dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967.

La contemporaneità: da amministrazione sotto occupazione a Governance della Resistenza

Nel 2015 le Nazioni Unite pubblicano un rapporto affermando che se il blocco totale del 2007 fosse continuato, entro il 2020 la Striscia di Gaza sarebbe risultata inabitabile, “ a un passo dal collasso”. Il rapporto invitava i membri della comunità internazionale a prendere misure concertate per prevenire la catastrofe.
All’inizio del 2017, Gaza soffre di un’altra crisi umanitaria provocata direttamente dal blocco, che rimane sotto l’amministrazione israeliana e egiziana. I due milioni di abitanti della Striscia accedono a due o tre ore di elettricità al giorno, ridotte rispetto alle quattro ore ricevute dal 2014. Gli ospedali operano contando su generatori di emergenza; le acque reflue vengono pompate nel Mediterraneo per via dell’inoperatività degli impianti; e l’acqua potabile e per accesso medico scarseggia.

Il 20 gennaio 2017 Donald Trump si insedia alla Casa Bianca,  la sua presidenza sarà decisiva rispetto alle sorti della questione Palestinese. Una delle prime manovre nella regione è lo spostamento dell’ambasciata Americana da Tel Aviv a Gerusalemme riconoscendo la città come capitale solamente di Israele. Donald Trump spinge gli Stati del Golfo, già inseriti in un processo normalizzazione, a ufficializzare le relazioni con Israele dando incentivi  sulla base dei commerci e della condivisione di sistemi di sicurezza e intelligence. L’accordo del Secolo rompe l’ “Arab Consensus” ufficialmente, l’equilibrio di solidarietà secondo il quale i paesi arabi avrebbero normalizzato le relazioni con Israele nel momento in cui si sarebbe creato uno stato palestinese. L’accordo verrà siglato il 13 agosto 2020 tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Stati Uniti escludendo i palestinesi, dimenticano in modo particolare Gaza. Del Deal of the Century ne ho scritto per Opinio Juris nel 2020 e nel 2019.

Il 20 marzo 2018 comincia la Grande marcia del ritorno a Gaza, un’iniziativa che mette d’accordo tutte le forze politiche della Striscia, in cui settimanalmente i cittadini gazawi marciano pacificamente al confine tra Israele e Gaza chiedendo di poter tornare nelle loro case (oggi territorio israeliano) e la fine del blocco su Gaza. A queste Israele risponde con forza bruta, vengono usati per la prima volta droni lancia lacrimogeni; e gambizzate centinaia di persone con proiettili “butterfly” noti per causare il massimo danno alle ossa e ai muscoli provocando la perdita degli arti. Ad un anno dalle manifestazioni sono 266 i morti, di cui 50 bambini e più di 30 mila i feriti, spesso amputati.

Nel 2019 le proteste, eco delle Primavere Arabe, si rianimano nell’intera regione. A  Gaza nel maggio 2019, all’interno della Marcia del Ritorno, avviene un’escalation con lanci missilistici da parte di diversi gruppi della Striscia verso Israele parati da Iron Dome – il più importante sistema di difesa missilistica –  mentre in Cisgiordania continuano le espropriazioni delle terre e delle case. L’atmosfera di suprematismo razziale e i cori che chiamano “morte agli arabi” diventano abitudine. Ogni anno durante il mese sacro di Ramadan e in occasione del Jerusalem day, l’esercito israeliano assedia la moschea di Al-Aqsa. In quell’occasione Hamas e Jihad Islamico lanciano missili a cui Israele risponde bombardando la Striscia. Nel 2021 i bombardamenti durano 11 giorni.

Nel Maggio 2022, mentre riportava gli assedi illegali dei campi profughi a Jenin in Cisgiordania, la nota giornalista Shireen Abu Aqlah viene assassinata da un cechino israeliano in un bilancio di più di 50 giornalisti uccisi da Israele dal 2000. Il 2023 è tra gli anni più sanguinosi ben prima del 7 ottobre. Dove i pogrom in Cisgiordania diventano sempre più massicci, le espropriazioni continuano, gli arresti senza mandato e le uccisioni sono all’ordine del giorno. Anche il Ramadan 2023 è teso con assedi alla moschea di al-Aqsa e lanci di missili da Gaza in risposta alle violazioni dei diritti in Cisgiordania. Il 22 Settembre 2023, Benjamin Netanyahu, in un discorso di venticinque minuti, presenta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il piano per un “nuovo Medio Oriente” mostrando una mappa in cui compare solo Israele in tutto il territorio della Palestina storica. Il discorso del leader propone la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita nuovamente glissando sui diritti dei palestinesi.

In questo contesto avvengono gli attacchi del 7 ottobre, 2023. Poche settimane dopo l’attacco l’Arabia Saudita blocca il processo di normalizzazione. Tuttavia, l’interesse viene rinnovato da Riyad nel gennaio 2024 rinviato a guerra terminata.
In un report pubblicato in inglese a Gennaio, Hamas chiarifica la sua posizione e versione dei fatti sugli eventi. Tra le richieste principali, Hamas propone di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale (ICC) e di avviare un’investigazione trasparente, capace di innescare un processo di giustizia transizionale finalizzato alla liberazione della Palestina.

Studiare un progetto politico come quello di Hamas senza a-storicizzarlo e mantenendo un occhio critico è fondamentale per comprendere gli avvenimenti all’interno delle continuità evitando di appiattire il linguaggio a tropi fondamentalisti. Le differenze ideologiche nel ventaglio della politica palestinese sono presenti. È chiaro che comprendere Hamas è un’operazione necessaria che riguarda tutti, mentre le sorti della governance palestinese riguardano i palestinesi. Per questo è importante chiedersi che posizione si occupa per porre delle domande appropriate al contesto. La storia della politica palestinese ci mostra il dinamismo intellettuale, la partecipazione e l’impegno della società civile palestinese. Tuttavia, prima di discutere di governance è necessario raggiungere autonomia e autodeterminazione. Le differenze rispetto a un mondo post-occupazione immaginato da comunità eterogenee in Palestina permangono e il dibattito interno è tutt’altro che assopito. Vi sono però priorità fondamentali. Resta obsoleto parlare di governance e polity sotto occupazione. La resistenza armata che i Palestinesi di tutte le fazioni politiche ampiamente supportano – o quantomeno ben comprendono – è contingente al momento storico: si tratta di una resistenza anti-coloniale rispetto ad un regime di occupazione. Il fatto che Hamas sia un gruppo che discenda dalla Fratellanza Musulmana e che proponga una visione olistica della vita, governance inclusa, non laica, in questo contesto ha relativa importanza. Ciò che unisce il tessuto sociale e politico palestinese di cui Hamas è parte è il recupero di una resistenza per la liberazione dal colonialismo israeliano che non sia servile all’occupante.


Note

[1] In arabo Thawrat al-Karāma


Foto copertina: Il Movimento per la Resistenza Islamica: Hamas

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Giulia è una dottoranda in Istituzioni e Politiche (indirizzo Storico) presso l'Università Cattolica di Milano (Italia) e Visiting Scholar presso il Dipartimento di Arabic and Islamic Studies dell'Università di Utrecht (Paesi Bassi). Il suo progetto di dottorato porta alla luce la storia delle donne nella Fratellanza Musulmana giordana, basandosi su una combinazione di ricerche d'archivio ed etnografiche. Il suo lavoro si colloca all'incrocio tra storia e socio-antropologia. In precedenza, ha lavorato presso il Center for Strategic Studies (Università di Giordania, Giordania) e il German Institute for Global and Area Studies (Amburgo, Germania). Ha vissuto e lavorato in Giordania per più di quattro anni.