Il Movimento per la Resistenza Islamica: HAMAS – Parte 2


Ogni tentativo nella comprensione di Hamas è stato stigmatizzato o sovrapposto al supporto di Hamas. La mistificazione di Hamas serve allo scopo di oscurare le radici politiche della militanza violenta, che necessitano soluzioni politiche di fronte alla presenza di uno stato di apartheid e alla conduzione di un genocidio.


Il contesto storico della prima Intifada: dal 1987 agli Accordi di Oslo del 1993

I primi anni di Hamas sono naïve e radicali, il movimento rinuncia all’idea di partizione della Palestina rifiutando qualsiasi richiesta di compromesso come una imposizione coloniale e come sconfitta. Hamas capirà poi che opporsi alla partizione è un impegno molto più complicato da mantenere di quanto si aspettasse. Nonostante un graduale ammorbidimento delle posizioni negli anni, l’organizzazione resterà  legata alla  militanza armata. che sostiene di necessitare come deterrente alla luce dell’esperienza dell’OLP che dopo aver rinunciato alla resistenza armata non riesce a  materializzare risultati concreti per la liberazione palestinese.. Infatti, nonostante l’enorme concessione del 78% della terra da parte palestinese, il riconoscimento dello stato Israele e l’abbandono della lotta violenta, dalla comunità internazionale non arriverà nessuna richiesta rispetto a quello che deve essere anche un impegno israeliano al riconoscimento dei diritti dei palestinesi ad uno stato. Israele, infatti, riconosce l’OLP ma non si esprime sulla statualità palestinese. Gli anni a seguire rafforzeranno l’idea che Hamas ha ragione: non si può entrare ai tavoli negoziali in una posizione di debolezza.
All’inizio del 1989, nel contesto della prima intifada Hamas catturò e uccise due soldati israeliani. Nonostante la natura militare degli obiettivi di Hamas, Israele designa Hamas come organizzazione terroristica e ordina l’arresto di 300 dei suoi membri incluso lo Sheikh Yassin. La morsa securitaria che Israele diede ad Hamas immediatamente fece sì che il movimento sviluppasse sedi esterne alla Palestina, trasferendo parte degli uffici in Giordania e Libano rendendo la sua struttura e il coordinamento sempre più complessi. Divennero noti i leader “interni” a Gaza e in Cisgiordania, con sedi sotterranee e segrete in diverse parti della Cisgiordania inclusa Gerusalemme Est e i leader “esterni” in coordinamento dai paesi della regione.
Tra il 1991 e il 1992 Hamas inizia sviluppare capacità militari di rilievo all’interno dei Territori Palestinesi passando ad una strategia in cui mantiene diverse cellule operative disgiunte. Nel frattempo, l’entrata al quarto anno di intifada non è un momento facile per l’OLP che perde incredibilmente di popolarità a seguito delle dichiarazioni di Yasser Arafat a supporto dell’invasione di Saddam Hussein del Kuwait. La diretta conseguenza da parte degli stati del Golfo è un reindirizzamento dei propri fondi alla neonata Hamas a discapito dell’OLP che si ritroverà davanti ad un’importante crisi finanziaria. Nondimeno, i lavoratori palestinesi versano in una condizione di grave crisi del mercato del lavoro e restano spesso esclusi dal tessuto sociale. La perdita di consensi dell’OLP coincide con una popolare crescita di Hamas.
È in questo momento di debolezza che Yasser Arafat accetta di firmare gli accordi di Oslo per l’avvio di un processo di pace.

La delusione post-Oslo

Gli accordi di Oslo creeranno l’Autorità Palestinese (AP) che nasce nel 1994 con un mandato di cinque anni come embrione di un futuro stato palestinese. Tuttavia, l’AP evolve e sempre più diventa un’autorità che governa i palestinesi sotto a quello che resta uno stato di apartheid israeliano. L’ Autorità Palestinese quindi si ritrova a fungere da asset per il sistema di apartheid e non da protezione per la popolazione palestinese alla quale dovrebbe garantire i diritti.
Il pervasivo controllo dei servizi di sicurezza israeliani  in  collaborazione con l’AP, rese difficile per Hamas  la creazione di focolai di resistenza nella Cisgiordania. In questi anni Hamas condanna gli Accordi di Oslo, fondati su una premessa di non reciprocità, e si organizza con i gruppi marxisti e altri nazionalisti per portare avanti la lotta armata che ha come target militari israeliani e coloni armati. Fino al 1994, quando dopo il massacro di Hebron – in cui lo stragista suprematista Baruch Goldstein apre il fuoco dentro una moschea uccidendo 29 persone e ferendone 125 – Hamas attacca le stazioni degli autobus di Afula e Hadera attraverso l’uso di attentatori suicidi, includendo anche i civili. Questo episodio per Hamas rappresenta un punto di non ritorno, nella sua strategia militare.
Negli anni a seguire Yasser Arafat insisterà sul processo di pace mentre Hamas continuerà a spingere con una stagione di attacchi suicidi che porteranno ad una continua spirale di rivalsa, condannando l’OLP come colluso e incapace di proteggere il suo popolo. I palestinesi sotto occupazione avevano posto genuine speranze negli Accordi di Oslo volti alla pace e alla creazione di uno Stato. Ma la realtà era diversa: l’economia aveva sofferto durante l’intifada e i palestinesi avevano osservato Israele espandere la propria impresa di insediamento sul terreno su cui si sarebbe dovuto realizzare il loro stato futuro. Vengono organizzate nel 1996 le prime elezioni in cui vince Fatàh ma il clima è teso.
Nel 2000 al vertice di Camp David si rinnovano promesse di pace che restano carta morta. Le politiche pervasive e violente di occupazione di Israele che includono la frammentazione dei territori palestinesi in silos sempre più isolati e circondati da insediamenti illegali esclusivamente di ebrei, in continua espansione e spesso armati fanno sì che quando il Presidente Ariel Sharon (Likud) si reca alla Moschea di al-Aqsa a Gerusalemme chiamandola ‘ebrea’, le proteste di massa esplodono in quella che sarà la Seconda Intifada.

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La seconda intifada emerge come periodo di disperazione per i palestinesi in cui la leadership palestinese ha usato tutte le strategie possibili per avvicinarsi ad un compromesso e ottenere uno stato, nel frattempo Israele continua ad espandersi con gli insediamenti coloniali non rispettando i confini degli accordi di Oslo. In modalità simili alla prima intifada i palestinesi sorgono in massa, e Hamas riesce velocemente a mobilitare le folle.
Tra la prima e la seconda intifada una delle differenze più disarmanti è la violenza. Se nella prima il presidente israeliano Isaac Rabin incita l’esercito a “spaccare le ossa” dei palestinesi nella seconda intifada si dice “non fate prigionieri”: la militarizzazione diventa la prima immediata risposta, si chiama al dispiego di fuoco diretto sulla folla disarmata senza distinzioni. Davanti alle brutalità della seconda intifada la posizione di Hamas trova senso anche tra i non islamisti: non si può raggiungere una soluzione diplomatica di fronte a una profonda posizione di debolezza. Si comincia a parlare in modo esplicito di fallimenti dei negoziati di pace. Hamas non è l’unico partito in quegli anni a rispristinare l’impegno della militanza violenta, anche Fatàh e Tanzim ad esempio sono d’accordo. Tuttavia, Hamas guida la resistenza armata. Già negli anni ‘90 Hamas soffre contraccolpi dovuti allo smantellamento da parte dei servizi di sicurezza israeliani di una cospicua parte delle sue infrastrutture.
La figura di rilievo in Hamas in questo periodo è al-Rantissi, il quale nei suoi discorsi sostiene che i combattimenti devono persuadere Israele ad accettare la soluzione dei due stati sui confini pre-1967 – confini sui quali Hamas ha ripetutamente, fino ad oggi reso noto essere il suo obiettivo per sedersi ai tavoli di negoziazione.
Questi anni passeranno alla storia come “balance of terror”, il cui l’obiettivo della resistenza è di sfinire Israele attraverso una guerra di logoramento che porti al ritiro e alla fine dell’occupazione. La campagna si muove in pieno linguaggio terroristico, l’obiettivo è terrorizzare la popolazione israeliana per far sì che si mobiliti contro il proprio governo. L’out-out viene operazionalizzato attraverso campagne di deterrenza suicida a cui i militanti promettono uno stop con la fine dell’occupazione. Hamas spera che Israele consideri i costi dell’occupazione non all’altezza della morte della sua popolazione civile.
Questa tattica si rivela fallimentare, soprattutto perché praticata in un periodo vicino al 9/11 dove la “War on terror” era stata assorbita come linguaggio legittimo. Fu dunque facile trasportare un discorso di ‘9/11 Israeliano’ sulla seconda intifada depoliticizzandola. Di conseguenza Hamas e altri gruppi della resistenza armata palestinese vennero considerati alla stregua della battaglia esistenziale che gli Stati Uniti dichiaravano combattere con al-Qa’ida nonostante un’evidente differenza.
Avendo quindi carta bianca Israele invece di ritrarsi attacca con forza massivamente i campi profughi della città di Jenin bombardandoli, ricordiamo anche gli attacchi alle Chiese di Betlemme, dove l’esercito mette le Chiese sotto assedio e spara verso l’interno e altri assalti  in altre zone della Cisgiordania, e Gaza.
Hamas chiede cambiamento, chiama a tecniche alternative, attacca i coloni armati, esplora nuove forme di resistenza e anche di diplomazia ma a tutte queste richieste si risponde con forza armata massima e, per ovviare agli attacchi suicidi si pensa alla costruzione di un muro dichiarato illegale dalla Corte di Giustizia Interazionale (ICJ), i cui lavori cominceranno nel 2003 fagocitando il 10% della Cisgiordania. Alla fine della seconda intifada, Ariel Sharon dichiara di voler avviare un graduale disimpegno rispetto alla Striscia di Gaza – focolaio pulsante di Hamas. Il disimpegno fa parte di una serie misure cominciate dagli anni ‘50 volte a separare la Cisgiordania dalla Striscia di Gaza. Il presidente ritira più di otto mila coloni dalla Striscia che ne occupavano quasi il 30% più fertile e a cui gli ebrei avevano accesso a servizi, infrastrutture e mezzi di trasporto all’avanguardia. Mentre nel resto del 70% vivevano circa 2 milioni di gazawi in una zona in cui la maggior parte della popolazione trova casa nei campi profughi da decenni, soggetta a sistematico isolamento e impoverimento strutturale. Il ritiro dei coloni non è l’unica parte del disimpegno, infatti Sharon dichiara ufficialmente la fine dell’occupazione della Striscia, tuttavia, nella pratica l’occupazione continuerà con pesanti misure di embargo e assedio.
Di conseguenza dal 2009 la Striscia viene considerata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sotto occupazione.


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