I negoziati Russia-Ucraina falliscono ripetutamente, la guerra è sospesa in un’aria di stallo e logoramento. E la Turchia sta alla finestra.
Le azioni militari e i cambi di strategia fanno intendere che il conflitto è destinato a cementificarsi nella terra di confine per molti anni, e nonostante Zelensky coordini la ricostruzione di Kiev e delle ferrovie, tentando di tenere alto il morale ucraino (e quindi anche quello europeo e occidentale), l’immagine di un’Ucraina sovrana e serena si allontana. La porta dei negoziati è per ora socchiusa, e il mediatore Erdoğan mostra una certa amarezza, dichiara infatti: “Non possiamo dire di aver raggiunto l’obiettivo che ci eravamo prefissati, ma andremo avanti. Non abbiamo smesso di sperare in un risultato positivo”[1].
L’Unione Europea e gli Stati Uniti non hanno ricoperto il ruolo di mediatore nel conflitto, è stato il presidente turco a sedere al tavolo. Questa vicenda riflette cristallinamente la maestria turca nell’equilibrismo politico tra Mosca e Washington. Dopo il golpe fallito del 15 luglio 2016, Ankara ha mantenuto la sua presenza internazionale in bilico su un fragile spago.
I rapporti tra i due bicontinentali sembrano basarsi su una solida collaborazione, ma soprattutto sulla stringente necessità di tenere sotto controllo vecchi e futuri conflitti, che attorniano i loro territori. Esempio di questa cooperazione è l’impegno di Mosca e Ankara nel contenere il PKK[2] del Kurdistan, al fine di evitare che il Partito, dichiarato organizzazione terroristica da UE e USA, provochi altre vittime in Turchia.
Inoltre, da Ankara, Erdoğan ha smosso la polvere nella crisi di Nagorno-Karabakh, sostenendo fortemente l’Azerbaigian e costringendo il suo omologo russo a prendere una posizione netta e concreta nel conflitto decennale che ha coinvolto l’Armenia. L’ambiguità del rapporto russo-turco è frutto di visioni in comune e obiettivi da perseguire diversi. Questo aspetto emerge tra le sabbie in Siria, e l’incidente di Idlib ne è la sua massima espressione[3]: Turchia e Russia avevano pattuito per il cessate il fuoco nella provincia siriana nord-occidentale, i turchi non avevano però ancora disarmato i jihadisti presenti al confine, e questo fece vacillare la fiducia tra i due Paesi, dopo una serie di rappresaglie si ebbe però un incontro fruttuoso tra i due presidenti che riparò lo strappo. L’intervento turco in Siria ha significato un punto di svolta per la politica internazionale, riportando la Turchia al ruolo di scacchiere mediorientale, e non solo. Nonostante il suo avvicinamento alla Russia, Erdoğan è riuscito a evitare l’etichetta di “Stato canaglia” da parte dell’Occidente, questo è dovuto alla grande maestria e agilità della politica estera turca, che si è dimostrata finora capace di dialogare con più attori contemporaneamente.
La mediazione si svolge su due binari, e la Turchia sembra aver dimestichezza su entrambi: anche Kiev tesse dei fecondi contatti con Ankara, ancora prima dello scoppio del conflitto. Nel 2020 il principale investitore straniero in Ucraina è stata proprio la Turchia, precisamente nel settore della telefonia e infrastrutture[4]. All’inizio del conflitto, il Paese euro-asiatico era sotto osservazione della comunità internazionale, si voleva infatti comprendere immediatamente da che parte si erano schierati i turchi: Ankara votò a favore della risoluzione ONU dell’Assemblea Generale sul cessate il fuoco (i cinque contrari furono: Russia, Corea del Nord, Eritrea, Siria e Bielorussia), così Erdoğan ha ottenuto fiducia dall’Occidente e ha intrapreso i negoziati.
L’atteggiamento turco sembra essere vincente nel campo diplomatico e militare, anche se spesso viene giudicato come equivoco, l’attitudine della Turchia riesce a smorzare alcuni, seppur piccoli, spigoli del conflitto. A dimostrazione di questa linea politica, il ministro degli esteri turco Sedat Önal ha ben specificato che i droni turchi consegnati all’Ucraina, non rappresentano una strategia militare, ma sono solo parte di un accordo di scambio puramente economico[5].
La prospettiva turca può risultare lontana dagli schemi bi-valoriali a cui siamo ormai abituati, dove è necessario distinguere immediatamente il bianco dal nero, il buono dal malvagio, ma è questa la chiave di volta del conflitto.
Un Paese figlio di due continenti, risultato dell’incontro di densità e proprietà diverse, ha dovuto sviluppare una visione bioculare, opposta al monocolo con cui l’Occidente si affaccia sul resto del mondo. La strategia turca è opera tanto della naturale e tipica attitudine politica, temprata dalle difficoltà interne, quanto degli interessi economici (e non solo) che guidano da decenni la Turchia nel mare magnum della comunità internazionale occidentale.
Note
[1] Giuseppe Didonna, AGI “Erdogan vuole riprovare a sbloccare i negoziati tra Russia e Ucraina”
[2] Il partito dei lavoratori del Kurdistan è un’organizzazione nazionalista curda di stampo marxista
[3] Il 3 febbraio 2020 inizia l’offensiva di Assad per riconquistare la regione di Iblid
[4] Osservatorio Balcani e Caucaso transeuropa, Kenan Behzat Sharpe
[5]Giuseppe Gagliano, StartMagazine
Foto copertina: Turchia e Russia, conferenza dei presidenti Putin ed Erdoğan. AFP