The West and the rest: il declino dell’Occidente e i nuovi attori internazionali


Negli ultimi anni, da più parti si è iniziato a parlare di un declino dell’Occidente, nella duplice accezione di declino come blocco politico, economico e militare, e di declino dei singoli Paesi che una volta era al centro della comunità internazionale. Questa concezione è dovuta in parte all’attenzione su temi che ne hanno indebolito l’immagine internazionale. Contemporaneamente, emergono nuovi attori globali, che cercano il loro posto al sole nello scenario geopolitico mondiale con politiche pragmatiche e con un approccio di lungo periodo. In uno scenario del genere, è opportuno chiedersi se l’Occidente sia davvero in declino e soprattutto se riuscirà nuovamente a emergere vittorioso da quella che si prospetta essere una vera e propria sfida per il ruolo di “primus inter pares” nella comunità internazionale.


La superiorità (solo?) morale dell’Occidente: un ostacolo a una politica globale di rilievo?

La vittoria della guerra fredda ha portato gli Stati Uniti e i Paesi del blocco occidentale a divenire, per un decennio, i soli attori internazionali di rilievo. Nel periodo successivo agli anni 90, infatti, la Russia era alle prese con la conversione da un sistema economico di stampo comunista a uno basato sull’economia di mercato, mentre la Repubblica Popolare Cinese si trovava a gestire le conseguenze politiche e diplomatiche delle rivolte di piazza Tienanmen. Di conseguenza, entrambe scelsero una politica di attesa, aspettando tempi più adatti per tornare a svolgere un ruolo internazionale di rilievo. In quasi due decenni, il mondo è stato guidato quasi in solitaria dagli USA e dalla neonata Unione europea. Da una parte, i primi hanno scelto la via dell’hard power, secondo gli insegnamenti di Tucidide[1] da sempre tenuti in considerazione dalle alte sfere americane, per annichilire sul nascere qualsiasi nuovo attore internazionale potesse sfidare la loro egemonia. Il relativo successo della loro azione ha portato ad un rilassamento della politica estera statunitense e alla concentrazione su temi di politica interna, che hanno spostato l’attenzione e mobilitato risorse interne per affrontare nuove sfide sociali. Queste hanno subìto una virata da temi relativi alla giustizia e all’equità sociale verso derive populistiche e propagandistiche, con il principale risultato di creare conflitti sociali e minare la forza della nazione più potente al mondo.
Dall’altra, l’Unione Europea ha basato la sua azione esterna, vale a dire il complesso di iniziative dell’organizzazione sullo scenario globale, sul rispetto dei suoi principi fondamentali: democrazia, stato di diritto, tutela e promozione dei diritti umani[2]. L’approccio, quindi, è stato quello del soft power. La svolta in tal senso si è avuta con il Consiglio europeo di Lussemburgo del 1991, che ha portato al passaggio dalla politica di neutralità ideologica a una di condizionalità democratica. Secondo tale approccio, l’Unione ha la possibilità di sospendere relazioni economiche e commerciali, bi, multi o unilaterali, nel caso in cui la o le controparti non rispettino i valori fondamentali su cui poggiano i Trattati dell’UE. Se questa politica aveva un senso in un mondo dove non vi erano attori in grado di sfidare, per risorse e influenza, quello che era conosciuto come il blocco occidentale, con le crisi economiche degli ultimi 20 anni e l’emersione prepotente di nuove grandi potenze, la situazione è cambiata.

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I nuovi attori: un approccio pragmatico per un ruolo globale

Cina, India e Russia, ma anche Stati di rilevanza principalmente regionale ma che agognano di condurre una politica globale come la Turchia, si sono inserite nelle crepe create dalle politiche occidentali, privilegiando un approccio funzionale al raggiungimento dei propri obiettivi nazionali, incuranti del benessere dei cittadini e del ruolo centrale dei diritti umani nella comunità internazionale moderna.
È chiaro che in quei luoghi dove proliferano corruzione, dittature e vi è poco spazio ai diritti fondamentali, i leader preferiscano aiuti non condizionati alla tutela e al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, in modo tale da poter perseguire i propri personali interessi.
La penetrazione cinese in Africa occidentale spazia dagli investimenti in infrastrutture all’energia, passando per l’ambito militare, per una cifra attorno ai 50 miliardi di dollari[3]. Ciò ha portato anche a un allentamento dei legami con la Francia, la naturale attrice dell’area dato il suo passato coloniale e la sua attività successiva alla fine dell’impero.
Anche la Federazione russa si è mossa nel continente: il sostegno, diretto e indiretto, tramite l’invio della compagnia militare Wagner e il commercio di armamenti, di Putin alle milizie operanti nei Paesi del Corno d’Africa ha notevolmente aumentato l’influenza del Cremlino nell’area[4].
Anche l’India non è più un attore da sottovalutare: economicamente vivace e capace di contare su una popolazione di quasi 1 miliardo e mezzo di persone, il Paese asiatico persegue una politica internazionale di mezzo. Pur facendo parte del Quad, l’iniziativa americana per il contenimento cinese, essa mantiene solidi legami con la Cina nonostante i dissidi con essa, e costituisce uno dei leader dei BRICS, un forum intergovernativo costituito dalle maggiori potenze economiche emergenti con l’obiettivo di instaurare un ordine globale più equo e rappresentativo, sfidando l’egemonia occidentale. L’India si propone quindi sia come una nuova grande potenza per la sua forza economica e militare, sia come “ponte” tra diverse coalizioni spesso rivali tra loro, ma anche come voce del Sud globale, avendo recentemente intensificato la sua azione internazionale in tal senso. Basti pensare che durante la presidenza indiana del G20, nel 2023, essa ha proposto l’inserimento anche dell’Unione Africana in tale forum intergovernativo.
Contemporaneamente, sfruttando una robusta rete diplomatica e dinamici scambi commerciali, la Turchia ha recentemente consolidato la sua posizione come attore affidabile anche nei settori della difesa e della sicurezza. Offrendo armamenti tecnologicamente avanzati a prezzi competitivi, diversi Paesi africani hanno scelto Ankara come fornitore per il proprio equipaggiamento militare. Alcuni esempi sono Etiopia e Somalia per quanto riguarda l’acquisto di droni militari o Uganda e Ruanda per i veicoli blindati[5]. Ma la lista è molto lunga ed è probabile che si amplierà nei prossimi anni.
Un segnale inequivocabile della concreta affermazione di una potenza mondiale ricade senz’altro nell’influenza che essa riesce ad esercitare in aree geografiche esterne alla propria: i nuovi protagonisti globali si stanno prendendo le luci del palcoscenico internazionale e sembrano avere tutta l’intenzione di restarci a lungo.

Il ruolo (ancora) preponderante del West

Tutto ciò considerato, le Nazioni del “blocco” occidentale (se di blocco può ancora parlarsi) sono ancora capaci di far sentire la loro presenza internazionale e mantenere il loro posto in cima alla “catena alimentare” globale. Infatti, benché la mancanza di condizioni agli aiuti e agli investimenti da parte della Cina, alcuni governi africani (ma non solo), inclusi quelli autoritari, continuano a scegliere la cooperazione con l’Unione Europea (UE) per vari motivi. Le ragioni di ciò sono diverse.
In primo luogo, l’opinione pubblica e internazionale gioca un ruolo cruciale: diversi Stati africani sono consapevoli che un certo livello di legittimità internazionale è cruciale per il loro potere e la loro stabilità. La cooperazione con l’UE, che spesso promuove riforme politiche, il rafforzamento delle istituzioni democratiche e la governance, può essere vista come un modo per guadagnarsi il supporto interno e della comunità internazionale. Ad esempio, l’UE ha una forte influenza nelle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite, in cui ha uno status particolare a metà tra quello di membro e di osservatore permanente[6], e avere il suo sostegno può essere utile per evitare sanzioni o critiche globali.
Inoltre, i settori di investimento sono diversi: mentre la Cina ha un forte impegno nelle infrastrutture e nelle risorse naturali, l’UE ha competenze e investimenti in settori come l’agricoltura, la tecnologia, le energie rinnovabili, la sanità e l’istruzione. I governi dei PVS possono vedere l’Unione come una risorsa per diversificare la propria economia, evitando di essere troppo dipendente da un solo partner commerciale. Senza contare che l’Unione europea utilizza un approccio di lungo periodo con tecnologie avanzate e progetti di sviluppo a lungo termine.

Ancora, l’UE ha una lunga tradizione di cooperazione con organizzazioni regionali africane (come l’Unione Africana) e sostiene iniziative multilaterali. Questi programmi non solo promuovono il commercio, ma offrono anche supporto in ambiti cruciali come la sicurezza, la gestione delle crisi e l’integrazione economica.
Infine, in alcuni casi, le relazioni con l’Unione europea vanno oltre il commercio e l’economia. L’UE è un attore chiave nella diplomazia internazionale e nella gestione delle crisi in Africa, e molti governi africani, anche quelli più autoritari, sono interessati a mantenere buone relazioni con Bruxelles per garantire la stabilità politica interna e regionale. L’UE gioca anche un ruolo significativo nelle missioni di pace e nella lotta contro il terrorismo in Africa, e alcuni governi preferiscono questa cooperazione per affrontare sfide di sicurezza.
Per quanto riguarda gli USA, la situazione è parzialmente diversa. Gli Stati Uniti continuano ad essere una delle economie più grandi e innovative del mondo. Nonostante le critiche sull’«imperialismo economico», molti paesi, anche quelli critici verso Washington, dipendono dagli Stati Uniti per il commercio, gli investimenti e la tecnologia. La potenza economica degli USA deriva da un settore privato dinamico, un mercato interno vasto, una leadership nelle tecnologie emergenti e nell’innovazione e una capacità di influenzare le politiche monetarie globali tramite istituzioni come la Federal Reserve. Quest’ultima garantisce agli USA una riserva di liquidità illimitata, al netto dell’inflazione, in quanto il dollaro statunitense continua a essere la valuta di riserva mondiale, il che conferisce agli Stati Uniti un potere economico significativo.In più, gli Stati Uniti, pur essendo accusati di imperialismo, sono spesso anche visti come una potenza che può rispondere in modo efficace alle sfide globali. Per esempio, in occasioni di crisi sanitarie globali, cambiamenti climatici, terrorismo, gli Stati Uniti sono una potenza chiave per la mobilitazione di risorse, sia militari che finanziarie. Ad esempio, durante l’amministrazione Biden, gli USA hanno donato o venduto a basso costo vaccini a diversi Paesi, nonché prestato assistenza finanziaria per la ripresa e aiuti alimentari e sanitari a comunità vulnerabili. Basti pensare alle forniture di ossigeno e di personale medico all’India durante il 2021[7], quando la situazione sanitaria del Paese asiatico era sfuggita al controllo delle autorità locali.
Nessuno Stato, men che meno i PVS, può ad oggi permettersi di affrontare una qualsiasi crisi nazionale o sfida internazionale senza l’intervento statunitense.

Il dilemma della Potenza

La Potenza si nutre di sé stessa e, se non contenuta, rischia di causare la propria rovina. Il ruolo che gli Stati Uniti e il blocco occidentale tutto hanno voluto esercitare dopo la fine della guerra fredda ha portato la mano dei vincitori a estendersi geopoliticamente in tutto il globo e ha innescato quel processo che ha portato alla nascita di attori internazionali pronti a morderla e a ribellarsi. Contemporaneamente, per contenere tale forza è necessario una potenza ugualmente forte, in modo tale da creare un equilibrio di potere che si auto-bilanci. Stati, come la Germania, sono nati in questo modo; guerre, come quella fredda, sono state combattute sul terreno della deterrenza militare. Ad oggi la competizione si è spostata sulle tecnologie e sull’influenza del soft power. Laddove non si arriva con le armi o con la forza, si giunge tramite propaganda, aiuti economici, trattati di commercio, influenza culturale. L’evoluzione della situazione attuale resta difficile da prevedere, dato che nessuno può predire con certezza come si evolvano le relazioni internazionali quando nuovi giocatori entrano in campo e vecchi si rinnovano con pedine stravaganti e fuori dagli schemi.
Sta di fatto che il West non è più il solo contendente nel gioco della globalizzazione internazionale, ma uno dei (molteplici) partecipanti.
E non è detto che vincerà anche stavolta, soprattutto se la sua attenzione è focalizzata su valori e temi disutili nel campo della competizione globale e che si prospettano lesivi dell’unità, dell’economia e della forza nazionale.


Note

[1]TUCIDIDE, Storia della guerra del Pelopponneso, Libro II.
[2]Trattato sull’Unione Europea, articolo 3, par.5 e art. 21. [3]https://it.euronews.com/2024/09/05/la-cina-estende-la-sua-influenza-in-africa-destinando-miliardi-di-yuan-a-progetti-di-sviluppo
[4]   MAURIZIO SACCHI, La Russia in Africa: armi per oro e uranio, maggio 2024, https://www.atlanteguerre.it/la-russia-in-africa-armi-per-oro-e-uranio/ [5]https://afripoli.org/assessing-turkey-africa-engagements?
[6]LUCA PALADINI, Studi sull’integrazione europea, 2012, No. 1, pp. 85-103 
[7]GEETA MOHAN, US to send Covid-19 aid worth $100 million to India, first flight to land today, aprile 2021 https://www.indiatoday.in/coronavirus-outbreak/story/us-covid-19-aid-100-million-to-india-first-flight-oxygen-cylinders-1796114-2021-04-29?


Foto copertina: BRICS Summit. Fonte: Wikimedia Commons