Taiwan, l’isola del destino


Taiwan è uno dei «luoghi del destino» che rendono la Terra un pianeta infiammabile. La geografia la rende ineluttabilmente sinosfera, ma la storia e la (geo)strategia l’hanno fatta entrare nel mirino delle potenze-guida dell’Occidente sin dal diciassettesimo secolo.


Furono gli europei, e nello specifico i portoghesi, a chiamarla formosa, l’isola bella. E il bello, si sa, ossessiona. Anche perché Taiwan, oltre che bella, è geostrategicamente indispensabile dal punto di vista del contenimento della «Germania dell’Estremo Oriente»: la Cina. Contenimento da cui dipende, in definitiva, il dominio dell’Anglosfera sull’Indo-Pacifico.

La geografia è destino

La geografia è destino. Un destino che non ammette libero arbitrio, ma impone la propria volontà con la forza. Un destino che permette agli stati e ai loro statisti di fare ciò che desiderano fintanto che non provano ad alterare gli schemi in cui sono ingabbiati, a mutare le traiettorie della storia che è stata scritta per loro, poiché esso, ed esso soltanto, ha l’ultima parola al momento fatidico.
Esistono luoghi il cui fato è più evidente di altri, calvinisticamente predestinati per risaltare, illuminando come una città su una collina, e in ambito geofilosofico li si definisce in un modo: «luoghi del destino». A volte, ma non sempre, questi posti si trovano lungo linee di faglia tra civiltà, hanno una posizione geostrategica o sono stati benedetti da Demetra con un sottosuolo smisuratamente ricco di preziosi e risorse naturali. La loro benedizione, se impropriamente utilizzata, può assumere la forma di una maledizione. Così è scritto. Così è per Taiwan.
Non è soltanto per la centralità all’interno di quel macchinario che è la globalizzazione, emblematizzata dal suo status di primo, principale e incomparabile produttore di circuiti integrati del pianeta, che Taiwan è il fulcro dello scontro egemonico tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. Gli stati di dominanza commerciale e tecnologica vanno e vengono, con investimenti, lungimiranza e un pizzico di fortuna, ma la geografia del destino è una e unica.

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E il destino di Taiwan è…

Non è per i semiconduttori che la presidenza Biden, nel maggio 2022, ha posto fine all’era dell’ambiguità strategica nei confronti di Taiwan, dichiarando pubblicamente che le clausole del Taiwan Act implicano un intervento militare diretto degli Stati Uniti in soccorso dello stato insulare in caso di necessità. E non è per i circuiti integrati che Nancy Pelosi, speaker della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, si è recata a Taipei tre mesi più tardi, facendo orecchie da mercante ai moniti di Xi Jinping e mettendolo in imbarazzo davanti ai colleghi alla vigilia del ventesimo congresso del Partito Comunista Cinese. È per la geografia del destino.
Taiwan non può e non potrà essere sacrificata dagli Stati Uniti, né permettendone un’annessione morbida né guidandola a distanza in una guerra per procura, perché dalla conservazione del suo status di indipendenza, e in special modo di allineamento e identificazione con l’Occidente, dipende l’intero impianto di quella strategia contenitiva nei confronti della Cina che è il «sistema della catena di isole». Taiwan, nell’ottica degli Stati Uniti, o è anti-Cina o non è.

Una questione di terra e mare

Prima di procedere alla spiegazione del sistema della catena di isole è necessaria una sintetica premessa sul ruolo di terra e mare, “o land und meer” per dirla alla Carl Schmitt, nelle relazioni internazionali.
Esistono potenze che guardano il mare dalla terra, con fascinazione ed impotenza, sognando di poterlo dominare così da proiettarsi alla volta del mondo. Ed esistono potenze che guardano la terra dal mare, dall’alto di flotte possenti con le quali navigare acque turbolente, egemonizzare i commerci marittimi e stabilire avamposti in luoghi ignoti. Tutto è ed è sempre stato una questione di terra e mare, nonché di terra contro mare.
La globalizzazione esiste da quando l’Impero britannico, nel corso dell’età dell’imperialismo, riuscì ad assumere il controllo dei colli di bottiglia che (col)legano l’Indo-Pacifico al Vecchio Continente, rendendo la propria talassocrazia essenziale al fine dei commerci globali e, in particolare, della prosperità delle economie del sistema europeo degli stati. E la gestione di questi snodi fondamentali, da Malacca a Suez, è passata dall’Impero britannico agli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Chi controlla queste tratte ha in mano le chiavi della globalizzazione. E per controllarle è necessario intrappolare tutte quelle (grandi) potenze che si affacciano sull’Indo-Pacifico in una dimensione tellurica, terrestre, destabilizzandole internamente – seguendo la scuola della Compagnia britannica delle Indie orientali – e/o rendendo ostili le acque che le circondano – la strategia della catena di isole.

Taiwan, l’anti-Cina

La Cina è stata per secoli il cuore pulsante della sinosfera ed il centro nevralgico dei commerci nell’Indo-Pacifico, ma il declino vissuto dalla dinastia Qing e l’espansione dell’ottocentesca competizione tra grandi potenze ne hanno comportato l’involuzione da colosso a nano e causato l’ingabbiamento in una condizione tellurica. Il secolo dell’umiliazione.
La storia dei cento anni dei trattati iniqui e delle occupazioni militari multinazionali finisce nel 1949, con la vittoria dei comunisti di Mao Tse Tung nella guerra civile che da anni dilaniava il fu impero, ma quella dell’egemonia anglosassone nell’Indo-Pacifico va avanti e assume il nome di strategia della catena di isole.
È il 1953, la guerra di Corea è appena terminata, e lo stratega John Foster Dulles, come ogni altro membro delle stanze dei bottoni degli Stati Uniti, è rimasto profondamente scosso dall’ingresso delle forze armate cinesi nel conflitto. Se Mosca e Pechino congiungessero i loro sforzi, potrebbero dare vita ad un’iperpotenza eurasiatica estesa dai ghiacci dell’Atlantico settentrionale al Pacifico occidentale. Ha un’idea: i nazionalisti cinesi si sono rifugiati a Formosa, il cui assalto da parte dei rivoluzionari maoisti è impossibile per via della loro mancanza di una flotta, perciò qui è dove, con l’aiuto del Giappone vassallizzato, verranno fermati i comunisti cinesi quando tenteranno di riconquistare il mare. Ne va dell’egemonia degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico, eredità dell’Impero britannico e conquista insanguinata della seconda guerra mondiale.

Le catene di isole

Oggi, dopo una serie di aggiornamenti e rivedute, la strategia della catena di isole è basata sull’imperativo strategico che gli Stati Uniti controllino tre catene di isole principali e siano presenti in due catene secondarie.
La prima delle tre catene di isole principali è la più vicina alla Repubblica Popolare Cinese, sulla quale esercita una pressione a dir poco asfissiante. Essa inizia dalle Curili, procede con il Giappone, Taiwan, le Filippine e termina nel Borneo. Taiwan è il centro nevralgico della catena: posizionata a meno di duecento chilometri dalla costa cinese, è l’isola che più di ogni altra contiene le spinte centrifughe della Cina continentale. Se cadesse, si sfalderebbe l’intera cintura.
La seconda catena di isole principali è lo scudo che protegge gli Stati Uniti dalle proiezioni egemoniche delle grandi potenze asiatiche nel Pacifico orientale ed è una piattaforma per il lancio di operazioni e campagne militari nell’Estremo Oriente. La seconda guerra mondiale insegna. La dispersione è la sua forza: si stende dalle Bonin e dalle Vulcano giapponesi alle estremità settentrionali della Nuova Guinea, inglobando le Caroline e le Marianne, con l’isola-caserma di Guam al centro. Pechino sa che forza non è sinonimo di invulnerabilità e quivi è alla ricerca di ventri molli.
La terza catena di isole principali attraversa il Pacifico centro-occidentale e si estende dalle Aleutine ai pilastri estremi del Commonwealth, Australia e Nuova Zelanda, delegando all’isola-continente australiana il ruolo di guardiano degli equilibri della seconda catena. È nel nome dell’indebolimento di questa fascia che la Repubblica Popolare Cinese è sbarcata nelle Isole Salomone, stato arcipelagico tanto geostrategico quanto geologicamente prezioso.

Le prime due catene di isole. Fonte: Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
Le prime due catene di isole. Fonte: Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

Le due catene di isole secondarie sono state aggiunte di recente, in reazione ai tentativi di Pechino di aggirare la prigionia a vita tra nuove vie della seta e alleanze periferiche nei punti-chiave dell’Indo-Pacifico – la strategia della collana di perle –, e sono posizionate nell’Indosfera. Inibitori in potenza del funzionamento della collana di perle. 
La prima catena copre un’area che va dalle Laccadive alle Chagos. La seconda, che spazia dallo Sri Lanka al Mozambico, è pensata per ostacolare più che per contenere. Ostacolare un altro dei sogni reconditi di Pechino: la Cinafrica. Di cui la satellizzazione del Pakistan e la sottrazione del Bangladesh e dello Sri Lanka dall’Indosfera sono dei componenti fondamentali, perché trampolini di lancio essenziali per una proiezione in profondità nell’Indosfera.

Il monte Fato del Duemila

Scrivere del sistema della catena di isole equivale a sfatare miti, preconcetti e stereotipi su Taiwan, lo stato insulare che gli Stati Uniti non difendono soltanto per ragioni economicistiche e al quale non tengono sicuramente nell’ambito della “bideniana” lotta tra democrazie e autocrazie, riedizione contemporanea del “guerrafreddesco” Mondo libero contro Impero del male.
Taiwan non è sacrificabile perché dalla sua posizione da una parte o dall’altra del mondo, se ad Occidente o se ad Oriente, dipendono la forma della globalizzazione, la distribuzione del potere nell’Indo-Pacifico e la stessa sicurezza degli Stati Uniti, memori del significato di un’Asia in controllo delle proprie acque – Pearl Harbour. Taiwan non è sacrificabile per gli Stati Uniti, così come non è dimenticabile per la Cina, perché è l’isola del destino. Il loro destino.


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