Revival del Mare clausum?


Il geodiritto marittimo cinese nel XXI secolo. E’ la pratica di territorializzazione giuridica dello spazio marittimo a costituire il più generale contesto storico-giuridico, e a fornire il quadro filosofico-dottrinale di un trend geopolitico più ampio della disputa tra Pechino e Manila.


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Sono trascorsi quattro secoli circa da quando, nel 1602, nella regione malese delle Molucche, la cattura di una caravella portoghese da parte della Compagnia olandese delle Indie scatenò la celeberrima – per dirla con Ernst Nys – “guerra libresca” attorno allo statuto giuridico dello spazio marittimo. La difesa della libertas maris toccò al cugino del comandante olandese coinvolto nella vicenda, il giovane umanista Ugo Grozio.
Nel capitolo di una sua più ampia opera, destinato a diventare un autonomo libello giuridico di fama epocale, Grozio osservava che “in quell’immenso tratto di costa” (in illo immenso litorum tractu) i Portoghesi non avevano nulla che poteva dichiararsi loro proprietà[1]. Proprio la grande regione dell’Oceano Pacifico, oggi, è teatro di quello che è stato da più parti indicato come il “processo del secolo”, tra Cina e Filippine[2].
La rivendicazione cinese di sovranità su circa il 90 per cento del Mar Cinese Meridionale, il quinto più ampio bacino idrico mondiale esteso per 3,5 milioni di km quadrati, costituisce certamente la più grande discordia giuridico-territoriale del XXI secolo. E non priva di ambiguità giuridico-dottrinali di fondo, al netto del pronunciamento della Corte permanente di arbitrato presso L’Aia nel 2016 (a sfavore della Cina), e del mancato riconoscimento del giudizio arbitrale da parte cinese (boicottato da Pechino). Se alla Cina toccasse oggi il ruolo del Portogallo, e alle Filippine quello dell’Olanda del XVII secolo, l’analogia sarebbe di per sé piuttosto caricaturale e infelice. Ma la controversia investe invece il fondamento di una dottrina geo-giuridica proto-liberale che, almeno a partire dalla seconda metà del XX secolo, ha conosciuto diverse torsioni in senso territorialistico.

Lo stesso Grozio ammetteva infatti che, accanto alla libertas maris, per così dire, naturale, sussistevano opposte consuetudini giuridiche per le quali il mare era sottoposto al “dominio” di colui “che possiede i porti più vicini e le coste che li circondano”[3].
È la dottrina del mare clausum resa celebre dall’omonima opera di John Selden del 1635, ma difesa da precursori (William Welwood) ed epigoni di diverse nazionalità (Serafino de Freitas, Juan S. Pereira, Johan Locken, e i genovesi Raffaele Della Torre e Pietro Battista Borgo)[4].
A fare di Selden il teorico navale della Cina contemporanea[5], oggi, sarebbe stata la pratica cinese di cartografare una porzione di proprio ‘territorio marittimo’ del Pacifico – la cosiddetta linea a nove trattini a ‘U’ (Nine-dash line, o anche U-shaped line) – in modo simile a quanto fece l’Inghilterra stuartiana con porzioni di acque costiere nell’Atlantico (le King’s Chambers)[6].

Nine dash line cinese. China Media Project

Ancora nel 2016 la figura di Grozio è stata positivamente rievocata da parte filippina per negare qualsiasi dominium esclusivista da parte dell’avversario regionale cinese[7].
Tuttavia accanto all’anti-grozianismo ‘con caratteristiche cinesi’ è occorsa nel XX secolo una più ampia revisione di questo dogma geo-giuridico, e a partire da ambienti diplomatici occidentali. Risale al 1979 l’ironica affermazione dell’ambasciatore canadese, espressa in occasione della terza conferenza sul diritto del mare: “sono qui per seppellire Grozio, non per elogiarlo”[8]. Commentatori occidentali hanno parlato di un “addio a Grozio” con riferimento alla crisi del 2018 sul Mar Nero tra Ucraina e Russia (che, a sua volta, sostiene diplomaticamente la Cina nella disputa sul Mar Cinese Meridionale)[9].
Tuttavia, è la pratica di territorializzazione giuridica dello spazio marittimo a costituire il più generale contesto storico-giuridico, e a fornire il quadro filosofico-dottrinale di un trend geopolitico più ampio della disputa tra Pechino e Manila.

Nel dibattito corrente il casus sinico-filippino è stato ridimensionato ad un’anomalia regionale, espressione di una mera ambizione di proiezione nazionalistica nell’area compresa tra le isole Paracelso a nord fino alle 50 miglia nautiche dalle isole filippine di Luzon e Palawan a sud. Si è parlato in varia misura di “tentazione territoriale”, Via della Seta Marittima, o ancora di “sindrome di Tordesillas” (rievocando la celebre bolla papale di suddivisione delle sfere di dominio spagnole e portoghesi, nel 1494)[10]. Non si tratta di un’apprensione nuova: risale infatti al 1973 l’idea di un “mare clausum” in Estremo Oriente[11], con la trasformazione di una porzione di Pacifico in una sorta di “lago cinese” nel quale i diritti marittimi dei diversi Paesi sarebbero stati interdetti.
Nonostante la retorica dottrinale interna alla disciplina internazionalistica, un ‘grozianismo puro’, comunque, non è mai esistito. E non soltanto perché di fatto, già negli anni 10′ del XVII secolo, pochi anni dopo l’apparizione di Mare liberum (1609), alcuni associati di Grozio giustificarono privilegi monopolistici nelle Indie Orientali contro le proteste inglesi[12]; ma anche perché, la dottrina internazionalistica si è evoluta negli ultimi decenni in un senso più ibrido rispetto alla dicotomia tra libertas e dominium.

Risale al 1958 la Convenzione sulla Piattaforma Continentale che prevede la possibilità di proclamare un’estensione della giurisdizione costale fino a 100 miglia dalla costa, e oltre. A fare da apripista giuridico fu la Dichiarazione di Santiago del 1952, in cui Cile, Ecuador e Perù proclamarono l’estensione della propria sovranità fino a 200 miglia dalla costa; una risoluzione a cui si accodarono poi tutti i Paesi dell’America latina con la Dichiarazione di Montevideo nel 1970 (con la sola eccezione di Bolivia e Paraguay).
Storicamente, l’apprensione per il riconoscimento giuridico della sovranità su un’area marittima adiacente fu una prerogativa che contraddistinse le nazioni costiere più piccole, preoccupate per la preservazione dell’attività di pesca[13].
Non sorprende dunque sia stato il diplomatico maltese Arvid Pardo a lanciare, nel 1967, l’ipotesi di estendere la sovranità territoriale alle 200 miglia nautiche. Un iter storico-giuridico globale che approda, nel 1982, alla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), e al riconoscimento di una Zona Economia Esclusiva (EEZ) estesa fino alle 200 miglia nautiche dalla costa. La tangibile conseguenza di questa evoluzione dottrinale è stato il passaggio di poco più del 30 per cento delle superfici marittime sotto la sovranità statale.
La ‘novità’ cinese della costruzione di installazioni artificiali nelle isole Spratly, a ben guardare, trovava un precedente nel Fur Seal Arbitration del 1893, sull’estensione della sovranità territoriale alle acque adiacenti a strutture artificiali come i fari. Questione che vide illustri giuristi occidentali divisi nelle rispettive posizioni[14]. Ma la memoria storica cinese corre, piuttosto, alle rivendicazioni colonialiste francesi sulle isole Spratly nel 1933, o ancora alle mire imperialiste giapponesi nel Pacifico settentrionale in cui, osservava Karl Haushofer nel 1941, esisteva un regime di mare libero sui generis[15].
La prima versione della cosiddetta U-shaped line sarebbe stata pubblicata proprio pochi anni dopo, da Bai Meichu, fondatore della Società Geografica Cinese (1948)[16].

Se di revival del mare clausum dobbiamo parlare, insomma, dovremmo anche ricordare che la stessa pratica giuridica consuetudinaria ha da sempre tentato di trasformare lo spazio marittimo da res nullius a res alicuius, prima e dopo Grozio. E proprio nel caso del Mare Cinese Meridionale, curiosamente, è proprio la figura di Selden a riemergere: il filosofo e giurista inglese possedeva infatti una ‘mappa della Cina’, tracciata attorno al 1608, nella quale erano indicate le rotte commerciali cinesi nel sud-est asiatico, corredate da dettagliate annotazioni di funzionari della dinastia Ming.
Un documento troppo importante, oggi, per non essere allegato dalla Cina e per perorare la sua causa neo-seldeniana[17].


Note

[1] U. Grozio, Mare liberum, a cura di F. Izzo, Liguori, Napoli, 2007, p. 144.

[2] Cfr. Huffington Post, “Trial of the Century: Philippines vs. China in the South China Sea” https://bit.ly/30gcsSM.

[3] U. Grozio, Mare liberum, a cura di F. Izzo, p. 144.

[4] A. Aubert, L’Europa degli Imperi de degli Stati. Monarchie universali, equilibrio di potenza e pacifismi dal XV al XVII secolo, Cacucci, Bari, 2008, pp. 156-160.

[5] J. Holmes, “China’s New Naval Theorist”: https://thediplomat.com/2013/07/chinas-new-naval-strategist/.

[6] T. W. Fulton, The Sovereignty of the Sea, William Blackwood and Sons, Edinburgh – London, 1911, pp. 118-123.

[7] “Final Transcript Day 1— Merits Hearing: [2013-19] South China Sea Arbitration (The Republic of Philippines v. The People’s Republic of China)”: https://pca-cpa.org/en/cases/.

[8] Cit. in R. Wolfrum, “The Freedom of Navigation: Modern Challenges Seen from a Historical Perspective”, in L- de Castillo (ed.), Law of the Sea, from Grotius to the International Tribunal for the Law of the Sea: Liber Amicorum Judge Hugo Caminos, Brill, Nijhoff, 2015, p. 89.

[9] Cfr. Foreign Policy, “Goodbye Grotius, Hello Putin”: https://foreignpolicy.com/2018/11/29/goodbye-grotius-hello-putin-russia-ukraine-sea-of-azov-kerch-strait-south-china-sea-unclos-law-of-sea-crimea/

[10] C. Rossi, Treaty of Tordesillas Syndrome: Sovereignty Ad Absurdum and the South China Sea Arbitration, in “Cornell International Law Journal”, Vol. 50, No. 231-283 (2017), pp. 269-275.

[11] W. Senftleben, Political geography of South China Sea, in “Philippine Geographical Journal”, Vol. XX, no. 4 (1976), p. 166. 

[12] W. S. M. Knight, Grotius in England: His Opposition There to the Principles of the Mare Liberum, in “Transactions of the Grotius Society”, Vol. 5 (1919), pp. 1-38.

[13] Cfr. W. Friedmann, Selden Redivivus—Towards a Partition of the Seas?, in “The American Journal of International Law”, Vol. 65, No. 5 (1971), pp. 758, 768.

[14] Utile il rinvio a C. Rossi, Treaty of Tordesillas Syndrome: Sovereignty Ad Absurdum and the South China Sea Arbitration, pp. 273, 249.

[15] Si veda K. Haushofer, Japan baut sein Reich [1941], trad. it. Il Giappone costruisce il suo impero, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 1999, p. 230.

[16] Cit. in C. Rossi, Treaty of Tordesillas Syndrome: Sovereignty Ad Absurdum and the South China Sea Arbitration, p. 257.

[17] T. Brook, Mr Selden’s Map of China: The spice trade, a lost chart & the South China Sea, Profile Books Ltd, London, 2013, p. 14.


Foto copertina:Un primo piano della Cina nella mappa di Selden. Cortesia dell’immagine: Bodleian Library, University of Oxford. AsiaTime


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