Prima Amin, poi Bashir, oggi Sami. Quando si parla di Libano il nome dei Gemayel non passa inosservato.
Dall’indipendenza alla guerra civile, sino alla ricostruzione del Paese dopo la fine di uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi della seconda metà del ‘900. Il loro nome è legato alle Falangi libanesi, partito e milizia armata che ha contribuito a costruire il Paese dei Cedri.
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Sbarcare in Libano è come ritrovarsi in una terra straniera ma conosciuta, in un lembo di terra consunto da terre, mitologie e storie differenti, che lì trovano riparo tutte assieme. Crocevia tra cultura cristiana, ebraica ed islamica, ma anche enclave cristiana in Medio Oriente.
Né europei, né arabi ma fenici; né guerrieri, né strateghi ma navigatori: è questa l’identità del “Paese dei Cedri”.
A ben vedere, la distinzione è la cifra caratteristica di questo popolo umile ma fiero; la mancanza di pavidità, del resto, appartiene ai popoli di Tiro e Sidone da sempre. Da quando i suoi rematori e capitani osarono per primi circumnavigare il continente africano. O da quando la classe colta del tempo sfidò i greci e gli arabi, dando vita al primo alfabeto[1].
L’albero raffigurante il verde cedro che campeggia sullo sfondo della bandiera libanese, stretto tra due strisce di color rosso sangue, rappresenta al meglio la fermezza e l’inossidabilità ma anche la bellezza e la rigogliosità di questo popolo. Qualità e virtù di cui ci danno testimonianza i Salmi: “Sono cresciuta come un cedro sul Libano, come un cipresso sui monti dell’Ermon”[2] .“Il suo aspetto è quello del Libano, magnifico come i cedri”[3].
Il mito alletta sogni, cementifica identità, ridona nuove coscienze pronte a ridestarsi nel momento opportuno. Ciò accadde con la massima intensità durante la seconda metà del XX secolo, quando una guerra civile inondò di sangue le strade di quella che più voci definirono la “Parigi
mediorientale”: Beirut.
Per comprendere come si arrivò a questa situazione occorre fare alcuni passi indietro.
Quattro secoli di oscura dominazione ottomana cessarono con la fine della prima guerra mondiale (1918).
Disintegrato l’Impero turco, la Società delle Nazioni affidò il Libano alla Francia per mezzo di un mandato che unilateralmente gli indipendentisti libanesi dichiararono cessato nel novembre del 1943; ma solamente tre anni più tardi, a guerra ormai conclusa, gli occupanti francesi ed inglesi abbandonarono il paese.
Pierre Gemayel (1905-1984), un distinto ed elegante farmacista, nonché ex portiere della nazionale di calcio libanese, fu uno dei principali protagonisti che si batté per l’indipendenza della patria. Egli pagò di persona l’impegno profuso attraverso una carcerazione breve ma dura, la quale costituì l’atto conclusivo che determinò l’indipendenza del Libano.
Lo stesso Gemayel alcuni anni prima, nel 1936, partecipò alle Olimpiadi di Berlino restando affascinato dall’organizzazione ed efficienza della Germania. Ordine e compostezza che riversò, una volta rientrato in patria, nelle Falangi Libanesi (Katā’eb al-Lubnāniyya), movimento politico indipendentista che raccoglieva la comunità cristiano-maronita del Paese e che lottava per un Libano libero da intromissioni straniere e multiconfessionale.
Le Falangi guardavano con simpatia le potenze dell’Asse, uniche nazioni finalmente in grado di controbilanciare l’oppressione coloniale anglo-francese che soggiogava intere porzioni del globo.
La vicinanza al mondo arabo dell’Italia fascista, in particolare, riscuoteva grande presa in ampi strati della popolazione. Era finalmente giunto il momento di dotare il Libano della libertà, autonomia ed indipendenza che le spettavano. Josè Antonio Primo de Rivera (1903-1936), capo della Falange spagnola, movimento identitario e cattolico antitetico sia capitalismo che al socialismo, rappresentò per Gemayel qualcosa in più di una vaga ispirazione: un vero e proprio modello al quale rifarsi[4].
Il Libano, grazie anche al contributo del leader delle Falangi, si diede un assetto istituzionale ricalcante le confessioni religiose presenti nel Paese. Con il Patto Nazionale del 1943 le componenti cristiane (principalmente maronita ed ortodossa), sunnite, sciite e druse decisero di distribuire a ciascuna di esse dei ruoli governativi, attraverso un equilibrio istituzionale calibrato su base demografica[5].
Pierre Gemayel assurse a maggiore notorietà nella vita politica libanese una volta cessata la guerra civile scoppiata nel 1958 e causata dalla nascita della Repubblica Araba Unita, nuova “creatura” politica promossa dal presidente egiziano Nasser (1918-1970), comprendente l’Egitto e la vicina Siria. Tale entità rispondeva, in un’ottica panarabista, alla necessità di unificare sotto un unico stato le sorti degli arabi in Medio Oriente[6].
Il presidente maronita Chamoun chiese l’intervento statunitense per placare gli animi dei filonasseriani presenti in Libano, i quali chiedevano che lo stesso Paese dei Cedri facesse fronte comune con quanto auspicava Nasser. La maggioranza cristiano-maronita, con in testa le Falangi, si schierarono a difesa del presidente del Libano. Ben presto il presidente statunitense Eisenhower inviò un contingente americano per porre fine alle ostilità che segnarono da quel momento in poi indelebilmente i destini del Paese.
Quanto accadde tra il maggio e l’ottobre del 1958 può essere considerato ben più di un’avvisaglia di quel che sarebbe accaduto in futuro; essa covava sotto il rigido ed instabile mosaico confessionale che permeava la statualità libanese. Se sagacemente provocata esternamente, infatti, tale impalcatura istituzionale era destinata a sbriciolarsi facilmente.
Tutto ciò si rese evidente con ancor più enfasi e fanatismo alla vigilia della terribile guerra civile scoppiata nel 1975, che tenne sotto scacco il Libano per ben 15 anni, sino al 1990.
Le incomprensioni, i rancori e gli odii che germinarono sul finire degli anni ’50 provocarono un’ulteriore e ben più temibile conseguenza: la militarizzazione dei movimenti politici, i quali da allora iniziarono a dotarsi seriamente di un apparato paramilitare strutturato e di un arsenale sempre più nutrito.
È all’interno di questo scenario che si inserisce la figura di Bashir Gemayel (1942-1982), figlio di Pierre e comandante militare delle Falangi libanesi.
Idolo, combattente eccezionale, uomo di fede e d’onore, figura quasi mitica per i cristiani; fanatico, spietato omicida, “uomo venduto ad Israele ed agli americani” per la componente musulmana e drusa del Paese.
Nell’immaginario collettivo una foto parla da sola e racconta più d’ogni altra cosa la figura di Bashir. L’immagine lo ritrae fiero ed attento, vestito della divisa verde militare delle Falangi, con imbraccio un fucile e gli occhiali da sole a goccia a coprire lo sguardo. Ne esistono anche altre: da lui che passa in rassegna le formazioni schierate, a foto che lo ritraggono tra le strade di Beirut intento ad aiutare la popolazione civile.
Bashir venne nominato dal padre Pierre comandante militare delle Forze libanesi nel 1976. Sotto questo nome si identificavano l’insieme delle milizie cristiano-maronite dei rispettivi movimenti politici, tra i quali le Falangi, la cui presenza numerica era la più cospicua.
Esse si opponevano alla presenza dei profughi palestinesi insediatisi sul territorio libanese.
Dal 1948, infatti, i profughi provenienti dalla Palestina all’indomani del conflitto arabo-israeliano accorrevano massicciamente. Dopo la guerra del ’67 e la conseguente crisi interna che investì la Giordania, ulteriori profughi e milizie armate palestinesi (OLP) giunsero in Libano arrivando a compromettere il delicato assetto istituzionale che questo si era dato, a fronte degli oltre due milioni di palestinesi che si installarono nella parte meridionale del Paese.
Già gli Accordi del Cairo del 1969 costituirono de facto la premessa della futura guerra civile.
Questi sancivano la fine delle ostilità tra miliziani del OLP e lo Stato libanese, riaffermando la sovranità del Libano sui territori occupati e, al contempo, legalizzavano la presenza dell’OLP, consentendole così di intraprendere azioni militari contro Israele dallo stesso suolo libanese.
Kamal Jumblatt (1917-1977), fondatore e presidente del Partito Socialista Progressista libanese e della milizia che l’affiancava, costituì, a sostegno dei combattenti e dei profughi palestinesi, il Movimento Nazionale Libanese, formazione che raggruppava tutti i partiti e le formazioni paramilitari, a prevalenza musulmana, che solidarizzavano col l’OLP di Yasser Arafat (1929-2004). Il Movimento Nazionale Libanese giunse così ad essere maggioritario in Libano, compromettendo la maggioranza cristiano-maronita prevalente nel Paese sino ad allora.
La scintilla che diede inizio alla guerra civile scoccò il 13 aprile 1975, quando ad ʿAyn al-Rummāna, quartiere cristiano-maronita di Beirut, durante una cerimonia religiosa a cui assistevano un gruppo di persone, tra i quali Bashir Gemayel, da una macchina partirono delle raffiche di mitra che costarono la vita a quattro persone, ferendone altre sette.
Dall’auto un urlo di terrore e rabbia accompagnò il gesto: “Siamo combattenti palestinesi”[7].
Bashir Gemayel si porrà alla teste delle milizie cristiano-maronite per difendere l’indipendenza e la sovranità del Libano. Nello stesso anno in cui assumerà il comando delle Forze Libanesi, la Siria invierà un contingente militare di 25.000 uomini promosso dalla Lega Araba: la Forza Araba di Dissuasione (FAD) per scongiurare il crescente conflitto tra il fronte cristiano-maronita e quello musulmano a sostegno dei palestinesi. Bashir Gemayel commenterà con tali parole l’invasione del Libano da parte della FAD: “L’obiettivo finale di queste violazioni dell’ordine pubblico è distogliere l’attenzione dal ritiro palestinese dal Sud, per cercare di interrompere la comprensione di sciiti e cristiani a Chiyah e Aïn el-Remmaneh”[8].
I Gemayel e i cristiano-maroniti si troveranno così inseriti in una partita ben più grande, in cui Siria e Israele, con i rispettivi alleati, si contenderanno il monopolio nella regione servendosi di milizie, uomini di potere, depistaggi e persino di stragi raggelanti (come quella di Sabra e Shatila[9]) per mezzo delle quali tenteranno di far pendere la partita da una parte o dall’altra, adoperando anche la presa emotiva scaturita dagli occhi attenti della comunità internazionale, indirizzati sulla tragica situazione politico-sociale libanese.
Bashir Gemayel ancora oggi campeggia sui cartelloni e sui manifesti affissi sulle mura dei quartieri a prevalenza cristiano-maronita, ove è considerato un martire. Egli verrà ucciso il 14 settembre 1982, pochi giorni prima del suo insediamento, dopo essere stato eletto presidente della Repubblica il 23 agosto. Qualche mese prima, il 6 giugno, Israele aveva dato avviò all’operazione “Pace in Galilea”, inviando 60.000 uomini dell’esercito israeliano (Tsahal) in Libano per liberare la parte meridionale del Paese a maggioranza musulmana, spingendosi sino a Beirut, ove incontrò la resistenza dura dei musulmani spalleggiati dalla FAD siriana.
Bashir scelse di non appoggiare l’invasione israeliana ed allo stesso tempo combatté sul campo le truppe siriane, celatisi dietro il nome di FAD, affinché abbandonassero presto il Libano ed ogni velleità annessionistica.
“Per quanto ci riguarda – egli dirà – stiamo cercando la liberazione del nostro paese – stiamo cercando che tutti gli stranieri escano – siriani, palestinesi e israeliani e persino Unifil – non abbiamo bisogno di alcuna presenza straniera e armata in questa nazione. Come libanesi, dal momento che avremo un forte governo centrale, un forte esercito centrale, una volta riunita la nazione, ci occuperemo della sicurezza del nostro paese; non abbiamo bisogno di nessuno in questo paese – e Arafat dovrebbe capirlo”. Infine, a proposito di chi gli muovesse l’accusa di essere alleato degli israeliani, Bashir rispondeva: “In politica, non c’è nulla di permanente; non hai alleati permanenti e nemici permanenti. Stiamo sfruttando il massimo vantaggio a beneficio del cambiamento dell’equilibrio di potere in Libano”[10].
Pragmatismo mai compreso sino in fondo, ma che aveva come unico fine quello di garantire l’indipendenza del Libano su base multiconfessionale. Con la componente cristiana-maronita quale unica controparte confessionale e politica a non aver alcun interesse nella regione se non quella di garantire una pacifica coesistenza. “Durante i secoli – spiega Nassib Wehbe, ex falangista – la comunità cristiana in Libano è stata sempre un fattore di pacificazione. Ha sempre adoperato per la convivenza pacifica e per avvicinare i punti di vista fra le altre componenti religiose in Libano e in Medio Oriente, malgrado abbia subito durante questi secoli delle atrocità”.
Oggi al comando delle Falangi vi è il giovane nipote di Bashir, Sam Gemayel, che fa del pragmatismo dello zio e del padre Amin, presidente del Kataeb e già presidente del Libano dall’1982 al 1988 – al posto del fratello ucciso Bashir – la sua nota distintiva. Benché rancore e vendetta nutrano ancora le volontà di molti, alla luce di questo tratto pacificatore dovrebbe intendersi il rapporto con il partito sciita Hezbollah. Non ha alcuna esitazione Nassib nel dire ciò che gran parte dei cristiano-maroniti hanno avuto modo di constatare, durante l’avanzata dell’ISIS.
“Tanti libanesi negli anni 80, soprattutto cristiani, non si fidavano di Hezbollah e lo consideravano un partito iraniano in Libano di matrice integralista. Con il passare degli anni si è scoperto che Hezbollah è un partito nazionalista libanese fino al midollo. In generale gli sciiti libanesi non hanno altro paese che il Libano. Sono legati religiosamente all’Iran come lo sono i cattolici con Roma. […] In quattro anni, da quando Hezbollah ha cominciato il suo intervento militare a fianco dell’esercito regolare siriano del Presidente Assad, Hezbollah ha offerto circa 800 giovani martiri in Siria contro gli integralisti dell’ISIS e le sue organizzazioni affini. Quest’intervento militare di Hezbollah ha salvato il Libano e le sue comunità religiose, cristiane e musulmane, da una fine atroce simile a quella degli yazidi a Sinjar”[11].
L’avvenire della Falange, in questi mesi e giorni difficili per il Libano, aggravatisi per via del Covid-19 e per le conseguenze economiche da esso determinatesi, si reggerà sulla capacità di interpretare correttamente il suo ruolo pacificatore dell’area, senza irrigidimenti ed eventualmente correggendo alcuni pregiudizi sorti per via del terribile passato.
Note
[1] Enciclopedia Treccani, Fenici (voce), in URL: http://www.treccani.it/enciclopedia/fenici/ (consultato in data 30/07/2020).
[2] Siracide 24,13.
[3] Cantico 5, 15.
[4] M. Tomasoni, Parole in storia: Falange, in “Diacronie: studi di storia contemporanea”, in URL: https://www.studistorici.com/2019/05/15/parole-in-storia-falange/#fn14 (consultato in data 31/07/2020).
[5] Encyclopedia Britannica, Lebanese National Pact (voce), in URL: https://www.britannica.com/event/Lebanese-National-Pact-1943 (consultato in data 31/07/2020).
[6] Encyclopedia, United Arab Republic (voce), in URL: https://www.encyclopedia.com/history/asia-and-africa/egyptian-history/united-arab-republic#3-1E1:UntdArRep-full (consultato in data 30/07/2020).
[7] P. Zoccatelli, La guerra in Libano (1975-1990), in “Dizionario del Pensiero forte”, in URL: https://alleanzacattolica.org/la-guerra-in-libano-1975-1990/ (consultato in data: 31/07/2020).
[8] B. Gemayel, Suite à l’agression de la FAD syrienne contre Aïn el-Remmaneh (10 avril 1978), in URL: https://bachirgemayel-biographie.tumblr.com/ (consultato in data 31/07/2020).
[9] Il Massacro vide coinvolti in un intricato rapporto, non ancora del tutto chiarito, parte delle Falangi Libanesi guidate da Elie Hobeika (1956-2002) e l’Esercito del Libano del Sud (ELS) – milizia armata dell’autoproclamatosi Stato libero del Libano, al cui comando vi era Sa’d Haddad (1936-1984), disertore dell’esercito libanese regolare – con la silente complicità del Governo israeliano, come ha accertato la Commissione d’inchiesta Kahan (1983). L’ELS controllava la parte meridionale del Libano, una volta che le truppe israeliane penetrarono oltre confine. Esso quindi agiva de facto con il supporto logistico e militare di Israele. Il movente del massacro venne individuato nell’uccisione del comandante Bashir Gemayel e di altri 26 falangisti caduti durante un attentato avvenuto nel quartiere cristiano di Ashrafiyyeh. Pochi giorni dopo, infatti, il 16 settembre 1982 i falangisti con il supporto dell’ELS entrarono nel quartiere palestinese di Shabra e nel campo profughi palestinese di Shatila, ove compirono, secondo la risoluzione delle Nazioni Unite, un “atto di genocidio” ai danni di oltre settecento persone.
[10] B. Gemayel, Interview with Bashir Gemayel on ABC television – 9 July 1982, in Israel Ministry of Foreign Affairs, in URL: https://mfa.gov.il/mfa/foreignpolicy/mfadocuments/yearbook6/pages/42%20interview%20with%20bashir%20gemayel%20on%20abc%20television.aspx (consultato in data 31/07/2020).
[11] S. Bonfiglio, La falange cristiana e il “Partito di Dio”, in “La Voce d’Italia”, in URL: https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-falange-cristiana-e-il-partito-di-dio (consultato in data 31/08/2020).
Foto copertina:A Lebanese Family Leaving the Martyrs Cemetery, Beirut 1982, printed 2013 Don McCullin born 1935 ARTIST ROOMS Tate and National Galleries of Scotland. Purchased with the assistance of the ARTIST ROOMS Endowment, supported by the Henry Moore Foundation and Tate Members 2014
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