Kamala Harris e il conflitto israelo-palestinese: nuove prospettive o stallo politico?


Kamala Harris si prepara a confrontarsi con la complessa questione israelo-palestinese, in un momento di crescente tensione internazionale. La sua esperienza politica e la sua posizione critica verso Netanyahu la collocano in un ruolo chiave, mentre cerca di bilanciare gli interessi delle comunità arabo-musulmana ed ebraica negli Stati Uniti.


A cura di Sara Castagna

L’attuale Vicepresidente degli Stati Uniti potrebbe trovarsi presto a dover affrontare una delle sfide più complesse della politica internazionale: il conflitto israelo-palestinese. Forte dell’esperienza maturata sotto l’amministrazione Biden e con un passato da Prosecutor in California, Harris si presenta come una leader capace di affrontare complesse sfide globali grazie ad una giusta dose di pragmatismo e determinazione. La sua presidenza ridefinirebbe completamente le strategie statunitensi precedentemente adottate rispetto al conflitto, con scelte politiche che potrebbero trasformare totalmente lo scenario geopolitico attuale, aggravatosi ulteriormente dalla recente escalation iraniana. Ancora una volta, tutti gli occhi sono puntati sulla prossima mossa degli Stati Uniti, in uno scenario politico sempre più incerto.
Sono state molteplici le occasioni in cui la VP non ha avuto timore nel mostrare pubblicamente la sua posizione apertamente critica rispetto alle scelte politiche di Netanyahu, partendo dalla decisione di non presentarsi al discorso di quest’ultimo al Congresso, tenutosi lo scorso 24 luglio[1]. Nonostante i molteplici ringraziamenti da parte del presidente israeliano per il “sincero sostegno” mostratogli da Biden, infatti, è risultata sonora l’assenza della Harris, considerata da molti come un chiaro segnale politico d’opposizione da parte della ex prosecutor. Una rischiosa presa di posizione che potrebbe però dimostrarsi una strategia elettorale vincente alla luce della forte presenza della comunità musulmana in alcuni dei principali swing-States, come il Michigan, dove Dearborn è divenuta la prima città con maggioranza araba degli Stati Uniti, con il 55% dei suoi 110.000 abitanti di radici mediorientali dall’ultimo censimento[2].
Jim Zogby, fondatore dell’influente organizzazione Arab American Institute, ha evidenziato come Kamala Harris abbia dimostrato un notevole impegno nel cercare un dialogo costruttivo con la comunità araba, fin dall’inizio del conflitto. Secondo Zogby, questa sua linea politica potrebbe permetterle di riguadagnare il supporto di un’ingente porzione di elettorato inizialmente scettico o deluso dall’operato dell’amministrazione Biden. L’appoggio della comunità araba rispetto al partito Democratico sarebbe infatti cresciuto da un 40% ad un 57%, garantendo alla Harris una porzione di voti astenutasi alle scorse presidenziali[3]. A fare da sottotesto a questa linea politica c’è, secondo Zogby, la volontà di dimostrare un genuino intento di promuovere un equilibrio tra le diverse istanze, in un contesto socioculturale estremamente delicato.
La necessità di raggiungere rapidamente un cessate il fuoco immediato si è dimostrato il fulcro di quello che di fatto è stato il primo intervento di politica estera da candidata in pectore dei democratici, in un discorso nettamente più empatico nei confronti della popolazione palestinese rispetto alla cauta neutralità adottata fino ad ora dal presidente Biden. Decisa nel portare avanti un’immagine pubblica da leader intransigente verso le sue posizioni valoriali, la Harris ha fortemente sollecitato una soluzione a due Stati come risposta al conflitto israelo-palestinese alla Conferenza di Sicurezza di Monaco[4], non esimendosi inoltre dal condannare con fermezza l’isolazionismo statunitense di fronte ad uno scenario geopolitico fortemente delicato come quello mediorientale.
Nonostante la più ferrea presa di posizione della VP rispetto alla linea presidenziale – anche solo dal punto di vista della retorica utilizzata – non sono estranei all’opinione pubblica i profondi legami della Harris con la comunità ebraica statunitense, a partire da suo marito Doug Emhoff. Il second gentleman degli Stati Uniti rappresenta infatti il primo partner di un vicepresidente statunitense nella storia ad essere di religione ebraica, scostandosi dalla maggioranza cristiana del Paese. Lo stesso Emhoff ha assunto un ruolo di primo piano nella lotta all’antisemitismo intrapresa dall’amministrazione Biden dopo l’attacco del 7 ottobre, e non è nascosto anche il sostegno mostrato alla Harris da parte di prestigiosi gruppi ebraici nella sua corsa alla presidenza, tra cui l’alleanza israelo-statunitense Democratic Majority for Israel [5].

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La situazione si rivela ulteriormente critica a seguito dell’uccisione a Teheran del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che comporterebbe un’immediata vendetta iraniana e una conseguente escalation militare, rischiando di trasformare il conflitto in una guerra regionale che potrebbe coinvolgere gli stessi Stati Uniti. Sul fronte iraniano, la Harris ha mostrato opinioni generalmente simili alla linea adottata dall’amministrazione Biden, come anche rispetto ai rapporti con i leader regionali nel Golfo. Tuttavia, rimane indiscutibile come l’ultimo attacco israeliano e la possibile rappresaglia iraniana abbiano severamente compromesso l’equilibrio geopolitico della regione, rendendo le future mosse strategiche statunitensi cruciali per determinare l’andamento del conflitto.

L’ex procuratrice si trova dunque a confrontarsi con un panorama politico-elettorale di straordinaria delicatezza, il cui esito sarà determinato dalla sua abilità nel districarsi tra le due fazioni opposte, propalestinese e filoisraeliana, compito particolarmente arduo considerato il sostegno ricevuto dalle associazioni ebraiche e l’attrattiva dei voti provenienti dalla comunità arabo-musulmana. D’altro canto, resta evidente come – anche nel caso di una vittoria alle presidenziali – le sue azioni potrebbero essere limitate nel concreto da intricati equilibri politici, sia interni che esterni alla Casa Bianca; primo tra tutti, la mancanza di volontà manifesta da parte di Netanyahu e di Hamas di raggiungere un cessate il fuoco, complicando ulteriormente gli sforzi per una risoluzione pacifica.

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Note

[1] https://www.nytimes.com/2024/07/24/us/politics/netanyahu-congress-democrats.html [2] https://alumni.umich.edu/education-gateway/a-brief-history-of-dearborn-michigan-the-first-arab american-majority-city-in-the-us/
[3] https://www.ft.com/content/5cd6d995-1270-4206-8c0d-106433b32192
[4] https://www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2024/02/16/remarks-by-vice president-harris-at-the-munich-security-conference-munich-germany/
[5] https://demmajorityforisrael.org/democrats-on-israel/vice-president-harris-on-israel/


Foto copertina: CHICAGO, ILLINOIS – AUGUST 22: Democratic presidential candidate, U.S. Vice President Kamala Harris speaks on stage during the final day of the Democratic National Convention at the United Center on August 22, 2024 in Chicago, Illinois. Delegates, politicians, and Democratic Party supporters are gathering in Chicago, as current Vice President Kamala Harris is named her party’s presidential nominee. The DNC takes place from August 19-22. (Photo by Justin Sullivan/Getty Images)