Il rapimento e la liberazione di Silvia Romano


[dropcap]Lo scorso [/dropcap]11 maggio, la volontaria italiana Silvia Romano è tornata a casa e (quasi) tutta l’Italia ha gioito alla notizia della liberazione lanciata dal Presidente Conte via Twitter. Sembrava impossibile pensare di poterla rivedere insieme alla sua famiglia, dopo 535 giorni di prigionia tra Kenya e Somalia, un paese ormai off-limits a causa della forte instabilità e della presenza del gruppo terroristico Al-Shabāb.


 

Per capire la storia di Silvia bisogna conoscere il contesto nel quale si era recata, la componente geopolitica, e infine cercare di analizzare la natura del suo rapimento. Innanzitutto, la giovane volontaria era partita per il Kenya con l’organizzazione Africa Milele, una piccola associazione di volontariato che opera a Chakama, nella regione di Kilifi, un villaggio rurale che si trova a 60 km nell’entroterra dalla famosa località turistica costiera di Malindi.
La zona non era considerata sicura da tempo: una serie di rapimenti più a nord nel 2011 e nel 2012 avevano causato un crollo del turismo. All’epoca, il governo keniota accusò Al-Shabāb di aver lanciato attacchi all’interno del Kenya come rappresaglia per gli interventi militari di Nairobi in Somalia, ma i militanti negarono la responsabilità. La tensione era poi riesplosa nel 2012, quando uomini armati rapirono quattro operatori umanitari e uccisero un autista nel campo profughi di Dadaab, in Kenya, vicino al confine con la Somalia. E ancora nel 2013 con l’attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi dove sono rimaste uccise 63 persone; l’assalto al campus universitario di Garissa con 148 morti e decine di feriti. Più recentemente, dall’inizio dell’anno Al-Shabāb si è reso responsabile dell’omicidio di tre militari americani durante un attacco alla base di Manda Bay, sempre nella zona costiera, e di assalti ripetuti alle scuole della contea di Garissa, una zona rurale nel nord-est del paese già colpita dal gruppo somalo. Questi attacchi sono stati tutti rivendicati.

L’instabilità dei rapporti tra Kenya e Somalia

Le relazioni Kenya-Somalia sono segnate da crescenti tensioni che si sono acuite negli ultimi anni e che derivano dalle divisioni in materia di sicurezza e dalla disputa sui confini marittimi tra i due Stati dell’Africa orientale. La Somalia è in un costante stato di instabilità politica dal 1991, e ciò ha impedito al Governo di imporre la propria autorità sul territorio. I disordini hanno favorito l’ascesa di gruppi jihadisti militanti come Al-Shabāb, formatosi nel 2006, che continua a rappresentare una significativa minaccia per la sicurezza internazionale.[1] Il gruppo terroristico detiene ancora il territorio nella parte sudorientale della Somalia ed è costantemente impegnato in attacchi contro forze militari e civili sia in Somalia che in Kenya, con incursioni frequenti nel territorio che si sono spinte su tutta la fascia costiera.

La minaccia rappresentata da Al-Shabāb ha spinto il governo keniota a sviluppare forti legami con lo Jubaland, uno Stato somalo semi-autonomo situato nella Somalia meridionale, al confine con il Kenya. Nairobi percepisce la regione di Jubaland come un’importante zona cuscinetto tra il suo territorio e il territorio controllato da Al-Shabāb in Somalia. Il governo keniota, nonostante l’opposizione dei governi della Somalia e dell’Etiopia, ha sostenuto l’elezione del presidente dello Jubaland Ahmed “Madobe” Mohamed[2] lo scorso anno, per garantire la sicurezza dei propri confini. Gli stretti legami tra Jubaland e il governo keniota, e le tensioni interne tra il governo federale somalo e gli Stati e le regioni che lo compongono, hanno attirato il Kenya negli affari interni della Somalia. Sebbene l’interesse del Kenya sia quello di garantire la sicurezza dei propri confini da ulteriori attacchi da parte di Al-Shabāb, il governo somalo considera l’intervento di Nairobi come un’ingerenza nei suoi affari interni.

 

Al-Shabāb: chi sono i terroristi?

Al-Shabāb, che in arabo significa “i giovani”, è la più grande organizzazione militante che combatte contro il governo somalo. Il gruppo cerca di stabilire un nuovo Stato somalo governato secondo la sua rigida interpretazione della shari‘a. Sebbene abbia sede in Somalia, il Gruppo conduce attacchi anche nei Paesi vicini, specialmente in Kenya. Al-Shabāb è emersa come organizzazione indipendente intorno al dicembre 2006, dopo essersi staccata dall’Unione dei tribunali islamici (ICU), per la quale aveva prestato servizio come ala militare. A partire dal 2008, Al-Shabāb ha rafforzato il suo rapporto con Al Qaeda. Ha iniziato a prendere di mira i civili attraverso attacchi kamikaze, e la leadership dell’organizzazione ha cominciato a includere molti membri di Al Qaeda. Al-Shabāb ha sfruttato il suo rapporto con Al Qaeda per attirare combattenti stranieri e donazioni in denaro da parte dei sostenitori del gruppo terroristico sunnita, e i suoi membri si sono formati proprio con i combattenti che avevano partecipato alle azioni in Afghanistan.
Per promuovere i suoi obiettivi di rovesciare il governo somalo ed espellere le truppe straniere, Al-Shabāb ha iniziato ad attaccare i funzionari governativi e le forze dell’AMISOM (la missione dell’Unione Africana in Somalia). Il gruppo ha anche preso di mira la polizia, i giornalisti, gli attivisti per la pace, gli operatori umanitari internazionali, le imprese, i diplomatici e altri civili per cercare di distruggere il più possibile il tessuto nazionale somalo. Spinti dall’ideologia salafita, i militanti hanno diretto la violenza verso i cosiddetti “nemici dell’Islam”, compresi i cristiani e i musulmani sufi della Somalia.
Il gruppo ha commesso stupri ed estesi atti di violenza contro le donne, e si è impegnato nel reclutamento forzato di combattenti, compresi i bambini. Nei territori sotto il suo controllo, Al-Shabāb è noto per applicare un rigoroso codice di comportamento per le donne; coloro che violano le sue disposizioni sono spesso lapidate a morte.[3]

 

Chi erano i carcerieri di Silvia?

Nonostante non sia mai arrivata la certa rivendicazione del rapimento da parte di Al-Shabāb, la maggior parte dei media italiani ha dato la notizia come assodata, mentre tra diversi giornali stranieri (Telegraph, Al-Jazeera, BBC Africa) si parla più cautamente di gruppi criminali auto-dichiaratisi affiliati ad Al-Shabāb, cellule indipendenti che, come già capitato in passato con i più grandi gruppi terroristici (Al-Qaeda, ISIS, Boko-Haram), si rifanno al nome importante per fare scalpore. In questa ottica sembrerebbero plausibili anche le prime dichiarazioni di Silvia Romano che ha specificato di non avere subito violenza; la storia di Al-Shabāb ci mostra invece un altro modus operandi, anche durante i rapimenti. Come ha ben dichiarato Padre Giulio Albanese[4], missionario comboniano e giornalista in Kenya, stiamo parlando di un’organizzazione che in Africa Orientale ha realizzato ciò che Boko-Haram ha fatto al capo opposto del continente: ricordiamo per esempio il rapimento di quasi 300 studentesse nel nord della Nigeria, tutte di religione cristiana, molte delle quali uccise, altre vendute e rese spose-schiave per i miliziani. La cronologia degli spostamenti di Silvia conferma il fatto che sia stata venduta anche a gruppi somali, non a caso sarebbe poi stata liberata a una trentina di chilometri da Mogadiscio, ma non possiamo accettare la sua conversione e l’ipotesi del riscatto come unici elementi di conferma del rapimento da parte di Al-Shabāb.

 

La sicurezza per i volontari

La vicenda di Silvia Romano ha creato grande scalpore nel Terzo Settore: la sua partenza come volontaria lasciata a gestire un progetto di assistenza all’infanzia in un villaggio rurale ha destato molti dubbi sul protocollo seguito dall’Organizzazione con cui è partita per garantirle sicurezza. Silvia era da sola a Chakama, o forse con qualche collaboratore locale, ma in una struttura libera, aperta all’accesso di esterni, non sorvegliata.
Ogni anno sono circa 6500 i volontari che scelgono di partire con Associazioni, Onlus e ONG che operano in contesti di vulnerabilità per portare assistenza alle popolazioni colpite da povertà, carestie, emergenza, e il loro supporto è fondamentale per realtà medio-piccole che non possono permettersi grandi investimenti nelle risorse umane. Ma come ha ben sottolineato Cinzia Giudici, Presidente di SISCOS (Servizi per la cooperazione internazionale), bisogna affidarsi ad associazioni la cui struttura, grande o piccola che sia, garantisca procedure di sicurezza ferree, radicamento nel territorio con partner locali a supporto delle attività, assicurazioni che coprano i rischi. Spesso invece questa dimensione viene dimenticata perché “c’è la percezione che le associazioni più piccole abbiano mantenuto una visione “più romantica” della cooperazione, ma è in quelle meno strutturate che i rischi aumentano notevolmente e le misure sono un po’ improvvisate. Le regole invece vanno sempre seguite per la sicurezza nostra, di chi lavora con noi e della popolazione locale”.


Note

[1] Fonte: Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

[2]https://www.aljazeera.com/news/2019/08/somalia-jubaland-region-elects-ahmed-mohamed-president-190822091045118.html

[3] Fonte Stanford University, Center for International Security and Cooperation

[4] Francesco Battistini, “Silvia Romano, «l’Islam fanatico ti spinge a uno scambio: la conversione in cambio della tua vita»”, Corriere della Sera, 11 maggio 2020


Foto copertina: Illustrazione di Emanuele Fucecchi.Tpi

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