L’Accordo di Cotonou si inserisce all’interno di una panoramica più ampia delle relazioni ACP – UE, che va dalla loro nascita al tempo coloniale ad oggi. Nonostante la grande ambizione dell’accordo, diversi sono stati i punti deboli che si sono rivelati tali e in prossimità della sua estinzione, sono stati prospettati 4 possibili scenari futuri post-2020.
A cura di Debora Gais
L’accordo di Cotonou [1] ha come obiettivo primario la riduzione, se non l’eliminazione della povertà (art.93 della Convenzione), e favorire lo sviluppo economico, sociale e culturale dei paesi firmatari, agevolando il loro ingresso ed integrazione all’interno dell’economia mondiale.
E’ stato definito da molti professionisti come innovativo nel suo genere sia a livello di relazioni UE-ACP[2], che a livello internazionale e soprattutto come modello unico di cooperazione tra Nord e Sud del mondo per via delle sue particolari caratteristiche. In particolare la sua natura vincolante (hard laws), l’impostazione inclusiva che ingloba l’ambito commerciale, di cooperazione allo sviluppo e politico, la centralità degli attori non statali che hanno un ruolo chiave includendo partner economici e sociali, settore privato, organizzazioni sindacali e la società civile, che sono fondamentali nella prestazione di servizi e come partner nel dialogo.
L’accordo si può definire costruito su tre pilastri fondamentali, ovvero cooperazione allo sviluppo, commercio e dimensione politica.
Il primo si basa sulla concessione dell’UE di fondi finanziari per progetti volti alla crescita economica e sociale dei paesi ACP, i quali, a differenza di altri finanziamenti UE che provengono dal budget europeo generale, sono ricavati dal FES[3], creato appositamente per raccogliere gli aiuti economici destinati ai Paesi ACP e PTOM e che si compone principalmente dei contributi degli Stati Membri (attualmente è in vigore l’11° FES dal valore di € 30,5 miliardi), destinati a questi Paesi attraverso la “Grant Facility”, gestito dalla Commissione Europea per la concessione di contributi a sostegno di progetti a lungo periodo e l’“Investment Facility”, amministrato dalla BEI[4] che si occupa della concessione di prestiti e capitali di rischio al settore privato.
Il secondo pilastro è il commercio ed ha subito numerosi cambiamenti dal 2000, in quanto prima i rapporti commerciali UE-ACP si basavano su preferenze commerciali non reciproche (la maggior parte dei prodotti ACP potevano accedere senza nessun dazio al mercato europeo), mentre il nuovo accordo prevede la creazione di aree di libero scambio che permettono scambi commerciali senza barriere tariffarie tra UE e ACP regolati dagli APE[5] e prevede un’altra novità ancora che riguarda il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) ed il rispetto delle sue regole, quindi il principio di reciprocità e l’eliminazione di accordi preferenziali che favoriscono delle nazioni rispetto ad altre.
Infine il terzo pilastro consiste nella dimensione politica ed è ciò che rende unico nel suo genere questo accordo, in quanto stabilisce che il rispetto di principi quali diritti umani, democrazia e stato di diritto deve ritrovarsi in ogni azione condotta da UE e Paesi ACP e che le parti devono instaurare un dialogo solido e continuo per promuovere e applicare questi valori al punto che se ciò non avvenga e si verifichi una violazione di tali principi, il trattato predispone misure appropriate, quali sanzioni o sospensione dei finanziamenti (clausola di condizionalità, art. 96).
L’accordo di Cotonou si inserisce dunque all’interno dei rapporti UE- ACP, che si sono evoluti nel tempo, a partire dalle Convenzioni di Yaoundé stipulate in seguito alle intenzioni delle parti di mantenere i vantaggi derivati da condizioni economiche e finanziare privilegiate che già si erano stabilite durante il periodo coloniale, dando così priorità allo sviluppo industriale basato sulle esportazioni, superata con la terza Convenzione di Lomé, che invece inizia a promuovere l’autosufficienza e la sicurezza alimentare, applicando questa volta un approccio più ampio rivolto anche alla dimensione sociale e culturale, ed alla prevenzione ed eliminazione delle discriminazioni, e per la prima volta l’importanza della conservazione delle risorse naturali per lo sviluppo dei paesi ACP, identificando la siccità e la crescente desertificazione come ostacoli al raggiungimento degli obiettivi della cooperazione ACP-UE.
Con la seguente Convenzione, in seguito ad eventi come l’attuazione di programmi di aggiustamento strutturale per i PVS promosse dalla BM e dal FMI, si prevedeva un aumento dei contributi finanziari stanziati per i paesi ACP e soprattutto divenne il primo trattato di cooperazione allo sviluppo contenente una clausola sui diritti umani[6]. In seguito ad un’analisi dei risultati ottenuti, le parti decisero di stipulare un nuovo accordo maggiormente adatto al nuovo scenario globale, per cui firmarono l’Accordo di Cotonou, in vigore ancora oggi fino al 2020. Mancano due anni alla scadenza dell’Accordo,ma le parti hanno già cominciato a discutere sulle possibilità del Post-Cotonou.
Nonostante la grande ambizione da parte di questo accordo, la sua realizzazione si è rivelata comunque difficoltosa, ciò in riferimento ad es. agli APE (che non sono stati ancora stipulati con tutte le aree economiche ed hanno avvantaggiato maggiormente l’UE); alla dimensione politica, ovvero al dialogo politico (art.8) in relazione al quale le parti si sono dimostrate poco propense; ai ricorsi alla clausola di condizionalità democratica (art. 96), in cui gli interessi storici, politici e di sicurezza hanno talvolta ostacolato la loro attuazione, dando vita solo a mere dichiarazioni di condanna del gesto senza intraprendere nessuna azione; ancora alla gestione del FES (gestito interamente dall’UE) e nella ripartizione delle risorse finanziare che privilegiano i paesi meno sviluppati, a discapito degli Stati a medio reddito (che hanno problemi di disuguaglianza e povertà); infine al funzionamento delle istituzioni congiunte ACP-UE.
Un’analisi del nuovo contesto internazionale dimostra l’inadeguatezza dell’accordo UE-ACP attuale, comprovata dalla presenza di diversi fattori, come l’emergere dei BRICS (che si propongo ai paesi ACP come partner alternativi all’UE); fenomeni di globalizzazione e regionalizzazione; cambiamenti interni ad UE e Paesi ACP; differenze demografiche tra i due attori; la crisi finanziaria del 2008 che ha colpito entrambe le parti, ma soprattutto l’UE che ha dovuto affrontare un periodo di dura recessione. Inoltre sono emerse nuove questioni quali la sicurezza, di cui l’Accordo non tratta molti aspetti, come il tema della migrazione, che coinvolge sempre più i rapporti ACP-UE che sia gli stati ACP; o il cambiamento climatico che può influenzare lo sviluppo di tali paesi; infine, anche i progressi avvenuti nell’ambito dell’ONU, in relazione ai nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, vanno valutati e considerati nel futuro di UE e stati ACP.
Cercando di prospettare il futuro delle relazioni ACP-UE, si possono presentare quattro possibili opzioni:
- Accordo “revisionato”: l’Accordo di Cotonou resta il quadro principale per la cooperazione con ACP-UE;
- Accordo ombrello: include accordi regionali vincolanti con Africa, Caraibi e Pacifico (stipulazione di tre diversi trattati con ognuna delle regioni ACP rompendo il legame con il gruppo nella sua interezza) che vengono agevolati da un accordo ombrello che collega tutti gli ACP, risponde alla regionalizzazione e alla crescita di quadri istituzionali alternativi ma sempre all’interno dell’accordo di Cotonou e inoltre comporta la divisione dei compiti tra ACP e le regioni (sussidiarietà e complementarietà);
- Regionalizzazione delle relazioni ACP-UE: consiste in accordi di cooperazione flessibili e non legalmente vincolanti tra organizzazioni regionali e sub-regionali di UE e ACP, la regionalizzazione è vista come forza trainante dietro la politica estera delle regioni ACP e UE e agevola gli interessi della cooperazione internazionale;
- Accordo misto – Partenariati regionali e tematici: permette a regioni/stati UE e ACP di impegnarsi sulla base di interessi condivisi e una cooperazione potenziale, si basa su una cooperazione in relazione alle sfide globali basate su una logica funzionale (portfolio o partenariato) e permette di continuare e approfondire partenariati geografici. Consiste quindi nella creazione di un ampio accordo composto da due parti, di cui la prima confermerebbe il partenariato tra l’UE e il gruppo ACP stabilendo i principi e valori condivisi e le linee guida da seguire, e la seconda sarebbe costituita da singoli accordi tra l’UE e le diverse regioni ACP.
Il partenariato ACP-UE ha una storia che conta più di cinquant’anni e l’Accordo di Cotonou rappresenta la sua fase attuale, per questo è improbabile che venga cessato dopo il 2020, anche se è palese che vadano apportate delle profonde modifiche.
Lo scenario che sembra andarsi a realizzare è comunque quello che configura l’accordo misto, ovvero un ampio accordo formato da due parti: una più generale tra UE e paesi ACP, in cui si stabiliscono principi, obiettivi, linee guida da seguire; e una più specifica tra l’UE e le tre regioni ACP, per affrontare le problematiche e necessità peculiari di ciascuna, così da rendere il lavoro svolto dalle parti ancora più valido. Tuttavia, il futuro delle relazioni ACP-UE verrà discusso in modo formale tra le parti solo a partire da settembre 2018.
Note
[1] La Convenzione di Cotonou è un accordo bilaterale tra l’Unione europea e il gruppo degli stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, firmata a Cotonou, in Benin, il 23 giugno 2000. La convenzione prende il posto della precedente Convenzione di Lomé nel gestire i rapporti di cooperazione allo sviluppo tra i paesi ACP e i paesi dell’Unione europea.
[2]Il Gruppo degli stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (abbreviato in ACP) è un’organizzazione internazionale formata dai paesi in via di sviluppo che partecipano al sistema di partenariato e cooperazione con l’Unione europea istituito dalla Convenzione di Lomé del 1975 e confermato dalla Convenzione di Cotonou del 2000. Il numero dei paesi ACP è passato da 46 nel 1975 a 79 nel 2012 (48 paesi dell’Africa subsahariana, 16 dei Caraibi e 15 del Pacifico). Oltre alla loro partecipazione allo stesso sistema di partenariato, i paesi ACP sono uniti da istituzioni comuni e da un segretariato permanente.
[3] Il Fondo europeo di sviluppo (FES) rappresenta lo strumento principale degli aiuti comunitari per la cooperazione allo sviluppo con gli Stati ACP, nonché con i paesi e territori d’oltremare (PTOM). Il trattato di Roma del 1957 ne aveva previsto la creazione per la concessione di aiuti tecnici e finanziari, inizialmente ai paesi africani all’epoca ancora colonizzati e con i quali alcuni Stati hanno avuto dei legami storici. http://www.eubuilders.eu/focus-paese/paesi-fes/
[4] La Banca europea per gli investimenti o BEI (Banque européenne d’investissement, European Investment Bank – EIB) è l’istituzione finanziaria dell’Unione europea creata nel 1957, con il Trattato di Roma, per il finanziamento degli investimenti atti a sostenere gli obiettivi politici dell’Unione. https://europa.eu/european-union/about-eu/institutions-bodies/european-investment-bank_it
[5]Gli Accordi di Partenariato Economico o APE (Economic Partnership Agreement), sono accordi commerciali per lo sviluppo del libero scambio tra l’UE e paesi noti con l’acronimo ACP (Africa, Caraibi e Pacifico). La trattativa è ancora in corso in alcuni paesi, ma altri hanno firmato accordi provvisori (Botswana, Swaziland, Lesotho, Mozambico in Africa del Sud, Camerun in Africa centrale e la Costa d’Avorio in Africa occidentale) o completa (Caraibi) (2009). Questi accordi, che verranno stipulati ogni 5 anni, puntano a ridefinire le regole commerciali tra i due gruppi di paesi. Nascono in alternativa agli accordi multilaterali o bilaterali tra stati.
[6] L’art. 5 sosteneva che l’individuo è al centro delle strategie di sviluppo attuate e deve vedersi riconosciuti e garantiti tutti i diritti umani fondamentali, i diritti civili e politici, economici, sociali e culturali.
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