Il futuro dell’Occidente si decide in Asia: verso il 2100


Intervista a Simone Pieranni, giornalista e autore di “2100. “Come sarà l’Asia, come saremo noi”.


L’immagine che l’Occidente ha del continente asiatico trae le sue radici da un momento preciso: le potenze coloniali, nell’intento di espandere il proprio dominio sui territori ad est dell’Europa, hanno contribuito ad una percezione intrisa di arretratezza, inaffidabilità, dispotismo e avversione verso la democrazia e i diritti umani. Un concetto confluito in ciò che lo studioso Edward Said ha definito “orientalismo”, a significare una superiorità culturale dell’Occidente e una netta contrapposizione tra un “noi” depositario di valori universali e un “loro” arretrato e brutale. Se l’idea che ci siamo formati di oriente è rimasta pressoché inalterata per secoli, oggi sono gli asiatici stessi a ragionare sulla propria identità e a scoprire quel panorama di varietà etnica, linguistica, religiosa e culturale che caratterizza il territorio che dal Caucaso raggiunge la Cina e il Pacifico. Il tutto con una paradossale ed estrema somiglianza a ciò che avviene anche nel Vecchio continente: la rilevanza politica ed economica dei Paesi asiatici impone infatti di dibattere degli stessi temi anche dalle nostre parti, poiché saranno le soluzioni adottate ad est ad influenzare inevitabilmente tutto il globo.

Simone Pieranni, laureato in Scienze Politiche, nel 2009 ha fondato China Files, agenzia editoriale con sede a Pechino che collabora con media italiani con reportage e articoli sulla Cina. Dal 2006 al 2014 ha vissuto in Cina, scrivendo per media italiani e internazionali. Dal 2014 al 2022 ha lavorato nella redazione esteri del Manifesto.
Oggi lavora a Chora Media, si occupa di podcast e ne conduce uno settimanale sull’Asia, intitolato Altri orienti.

Per comprendere la profondità di un tale esercizio di autocomprensione, il volume di Simone Pieranni “2100. Come sarà l’Asia, come saremo noi” (2024) edito da Mondadori (acquista qui) osserva dall’interno i singoli Stati asiatici, al fine di ritracciare punti in comune evidenti e in divenire capaci di superare lo “scontro di civiltà” a cui l’Occidente è abituato nel rapporto con i vicini asiatici. Un’analisi che, attraverso una chiara distinzione tra governi e popolazioni, porta alla luce i principali temi di riflessione in una società dinamica ma ancora fortemente ancorata alle proprie tradizioni.

Per il New York Times, la Malesia è il vero vincitore dello scontro tecnologico tra USA e Cina, per via del proprio ruolo nel settore dei circuiti integrati. Quali sono i punti di forza che hanno permesso a Kuala Lumpur di inserirsi in questo mercato? È possibile che il paese diventi il target di una politica di influenza più aggressiva da parte di Cina e/o Stati Uniti, tanto da rendere il paese una seconda Taiwan?
La Malesia è il vero vincitore – come riportato dai media internazionali – tra Cina e Stati Uniti poiché è il sesto esportatore mondiale di semiconduttori e sfrutta tutta una serie di caratteristiche che possiede da molto tempo: già dagli anni Settanta molte imprese tech straniere avevano investito nel Paese per via della sua dotazione di ottime infrastrutture, e dunque di un’ottima rete logistica. In più, nel tempo la Malesia ha investito in modo consistente nella formazione di lavoratori specializzati nel settore tecnologico. Oggi raccoglie i frutti di questi risultati, e sta diventando un hub di investimenti stranieri – ovviamente con un occhio ai semiconduttori e un altro all’intelligenza artificiale. Non credo che diverrà il target di un’influenza più aggressiva, anche perché attualmente il Primo Ministro Anwar Ibrahim si è avvicinato alla Cina, e come tutti i Paesi asiatici tende a stare con un piede in due scarpe, ovvero muoversi con cautela sia con la Cina che con gli Stati Uniti. In realtà, per la Cina è un’opportunità, affinché i cinesi possano delocalizzare in Malesia e soprattutto sfruttare la fornitura malesiana di tutta una serie di componenti tech nel caso avesse bisogno. A mio parere, manterrà questo suo status per molto tempo.

Il Giappone condivide con l’Italia una spinosa questione demografica legata al progressivo invecchiamento della popolazione, con il ventaglio di conseguenze economico-sociali che ne derivano. Come si percepisce, a questo proposito, la società giapponese? Vi è una discrepanza tra la dinamicità, la gioventù e il futurismo tradizionalmente associati da noi occidentali al Giappone e l’immaginario collettivo interno al paese stesso?
In Giappone si percepisce questo invecchiamento della società, tant’è che anche da un punto di vista tecnologico è rimasto un po’ indietro negli ultimi anni. È possibile che il Paese stia cercando di riadeguarsi in questo momento: Open AI ha aperto un ufficio a Tokyo, segno che si stia puntando sull’intelligenza artificiale per arginare un rallentamento anche nell’innovazione tecnologica, che in qualche modo segnala anche il cambiamento demografico del Paese avvenuto in questi anni. È anche vero poi che anche sulle questioni legate alla cura degli anziani si stia sperimentando moltissimo a proposito di robotica e tecnologia. Insomma, è una delle tante contraddizioni che possiamo osservare in Asia e in questo caso in Giappone.

Problematiche simili sono comuni anche alla Corea del Sud. Quali passi avanti sono stati compiuti a livello governativo, e soprattutto qual è stato il risvolto sociale di tali iniziative, considerando il cambio di percezione da parte dell’elemento femminile della società nei confronti della maternità e della competizione lavorativa?
In Corea del Sud, che ora è un Paese decisamente allo sbando dal punto di vista politico, passi avanti ne sono stati fatti pochi rispetto alla questione di genere. È il Paese con la più grande disuguaglianza di genere tra i Paesi sviluppati, vi sono state numerose proteste da parte dei movimenti femministi, ma il governo di Yoon è stato molto duro, incolpando le donne di essere le responsabili del calo demografico (in particolare le femministe) e non sono state fatte politiche che abbiano migliorato la situazione. Al momento, oltretutto, la Corea del Sud vive un momento di totale imperscrutabilità per quanto riguarda quello che può succedere in futuro: si vedrà come il nuovo governo affronterà questo tema, che era stato messo in evidenza proprio dalle femministe anche in relazione alle tendenze autoritarie se vogliamo di Yoon.  

Parlando di educazione sessuale, questioni di genere e omosessualità, in Cina vige la cosiddetta “linea dei tre no” del Partito comunista. Vi sono discrepanze tra la società cinese in generale e le famiglie, generalmente più tradizionaliste e specchio della competizione sociale che vede nei singoli individui un’incarnazione di ruoli e posizioni ben precise? E come si spiega la presenza di Paesi progressisti sul tema come Nepal, Thailandia e Taiwan in un continente popolato da élite irremovibilmente conservatrici?
Su questi temi – come ho provato a ribadire nel libro – siamo molto più simili di quanto pensiamo. Ci sono élites irremovibilmente conservatrici, ma anche strati di società civile molto conservatrici su questi temi. Tutto quanto è progressista, e si scontra poi con la tradizione: come da noi si parla molto di “famiglia tradizionale”, così anche in Cina. Nepal, Thailandia e Taiwan hanno una propria diversità: Taiwan ha un’identità molto forte e in contrapposizione con la Cina; la Thailandia ha molte riflessioni a proposito delle questioni di genere da molto tempo, anche legate ad una serie di problematiche che esistono nel Paese per esempio con la prostituzione; il Nepal è sicuramente una sorpresa, anche se a parer mio dipende dal fatto che sappiamo molto poco del Paese e ne parliamo soprattutto per questioni di natura geopolitica, tralasciando un po’ ciò che avviene all’interno. Ritengo che nel mondo vi sia questa contrapposizione tra i giovani – che hanno ormai un concetto molto diverso della sessualità e delle questioni di genere – e un’élite politica più anziana e legata a questioni tradizionali.

A quali conseguenze potrebbe portare un cambio di paradigma all’interno delle società asiatiche verso la possibilità tangibile che un numero sempre maggiore di giovani inizi a percepire la propria esistenza sganciandola dai valori tradizionali (la famiglia in primis), considerati come sempre più ingombranti? Sono riscontrabili esempi in questo senso?
Questo cambio di paradigma che è in corso un po’ in tutto il mondo in Asia si focalizza su alcuni temi, legati al riscaldamento globale per esempio. C’è una sensibilità dei giovani molto più forte rispetto ad altre fasce di età. Sulla questione lavoro invece vi è una messa in discussione delle fondamenta delle relazioni lavorative all’interno dei Paesi, e poi sulla questione di genere. Gli esempi in questo senso sono i giovani lavoratori coreani che chiedono tutta una serie di garanzie per la propria vita privata, o anche se vogliamo l’élite ultra-capitalistica e finanziaria di Singapore, che per andare incontro alle esigenze dei giovani richiede alle aziende di attenersi alla settimana corta, ossia di 4 giorni lavorativi. Sono segnali di come queste istanze che provengono dalle fasce più giovani stanno già cambiando in qualche modo le società asiatiche.

La politica in Asia è un affare di famiglia: gli oppositori politici cambogiani affermano che dal momento in cui al comando del Paese è giunto Hun Sen si è passati dal dominio dei khmer rossi a quello dei “khmer ricchi”. Che cosa ci svela questo evento del rapporto delle élite asiatiche con il potere?
L’esempio cambogiano è peculiare e incarna una tendenza generale che potrebbe essere assimilata alla Cina e al Vietnam, ovvero il passaggio da una società dominata dall’ideologia e la politica ad una società invece dominata da relazioni di natura economica. Sia in Cina, sia in Cambogia, sia in Vietnam i partiti comunisti o gli ex khmer rossi che in principio basavano il proprio dominio su queste società di fatto sull’ideologia invece hanno convertito la loro legittimità da processi storici (antimperialismo, ad esempio) a processi economici, cioè a garantire il benessere della popolazione. E all’interno di questa svolta economicista hanno cercato da un lato di mantenere il potere politico, dall’altro quello economico, creando quindi una nuova classe di ricchi che di fatto è anche quella dominante dal punto di vista politico. Però c’è stato anche questo passaggio soprattutto in quei Paesi che hanno una storia ideologicamente molto forte, come quelli citati.

A suo avviso, le massicce opere di installazione di telecamere dotate di intelligenza artificiale e centri di monitoraggio ufficialmente volti a “prevenire i crimini e mantenere l’ordine pubblico” nelle città asiatiche trova il proprio fondamento in una necessità di controllo e sorveglianza della popolazione o piuttosto in un bisogno di dati e informazioni sui cittadini a fini di difesa e sicurezza?
La questione legata al controllo sociale e a tutte le misure securitarie a cui stiamo assistendo in Asia secondo me trovano riscontro anche da noi. Ogni governo parte da un punto di vista propagandistico e della comunicazione nei confronti della società civile con una sottolineatura che le telecamere e i sistemi di controllo servono alla sicurezza dei cittadini. Mentre questi dati ad un certo punto possono essere utili anche per un controllo sulla popolazione. Su questo non esistono garanzie: anche in Paesi che consideriamo esempi di democrazia come gli USA abbiamo assistito a tutta una serie di soprusi in termini di controllo e spionaggio dei cittadini (pensiamo al caso NSA o a Cambridge Analytica). Questo può accadere anche all’interno di Paesi gestiti da partiti che dominano l’area politica in modo autoritario. Ciò permette loro di usare “il bastone e la carota”: da un lato propagandare una sicurezza garantita nei confronti dei cittadini – in Cina vi è un numero molto basso di reati e si riescono facilmente a ritrovare le persone scomparse – ma dall’altro lato chiaramente il Partito comunista ha una grande possibilità di controllare, nel momento in cui gli serva, cosa stia facendo una persona h24.


Foto: copertina del volume di Simone Pieranni “2100. Come sarà l’Asia, come saremo noi” (2024) edito da Mondadori.