L’acceso scambio di minacce degli ultimi mesi tra P’yŏngyang e Washington ha infuocato uno scenario già caldo facendo temere che i ricorrenti test nordcoreani – e le successive ripercussioni a livello internazionale – costituiscano il preludio di un conflitto armato.
A cura di Alessia Angiulli
In una situazione del genere, comprendere l’eziologia della crisi e la strategia dello Stato-eremo è più che mai fondamentale per giungere a conclusioni plausibili circa possibili sviluppi futuri della vicenda: a tal fine, è necessario approfondire alcuni aspetti che forniscono un punto di vista interessante sulla quotidianità nordcoreana, sui meccanismi interni di mantenimento del potere e sull’intelligente strategia di politica estera adottata da P’yŏngyang.
Sin dagli anni ’50, la penisola coreana ha costituito un crocevia di interessi particolari così strettamente interconnessi da vanificare ogni tentativo di risolvere la questione al tavolo negoziale[1]. Qui Stati Uniti e Cina si giocano in parte il primato mondiale[2]; Mosca spera di sfruttare la sua amicizia con i nordcoreani per ingigantire la propria posizione nel sudest asiatico; mentre Shinzō Abe vorrebbe fare dell’ostilità di P’yŏngyang un’utile leva per aggirare la clausola pacifista della Costituzione nipponica.
Le conseguenti difficoltà di organizzazioni internazionali e Stati nell’armonizzare le proprie iniziative per costringere il Paese a regolamentare il programma nucleare hanno permesso alla Corea del Nord di ottenere quanto desiderato: P’yŏngyang – la cui condotta non è affatto irrazionale, ma è basata su una strategia ben calcolata – non vuole una guerra, ma punta piuttosto ad alimentare ciclicamente le tensioni così da accrescere il proprio peso negoziale, ricavare concessioni eccezionali e soddisfare le esigenze dell’esercito – istituzione-chiave in uno dei Paesi più altamente militarizzati al mondo[3].
Uno dei primi aspetti da tenere in considerazione per comprendere tali meccanismi è il ruolo del leader all’interno del Paese: esso si trova all’apice di una complessa struttura sociale e viene considerato una figura semi-divina, un padre collettivo e un erudito versato in qualunque campo della conoscenza umana.
In questo sistema gerarchico dominato da valori confuciani e patriarcali vige una spietata suddivisione in caste, la mobilità sociale è scarsa se non inesistente, e lo status individuale – ereditario e dipendente da un punteggio di lealtà detto Songbun[4] – influenza lo stile di vita e le prospettive lavorative, arrivando persino a decidere la collocazione geografica dei cittadini.
I più importanti strumenti di controllo sociale a disposizione del leader sono la propaganda e l’ideologia, che assieme strutturano la vita e i comportamenti individuali della popolazione della Corea del Nord. Il Juche, in particolare – traducibile con il termine “autarchia” o “autosufficienza” – è un sistema ideologico che enfatizza l’indipendenza nazionale, rinnegando globalizzazione e pluralismo politico[5].
Il concetto di Juche è stato pensato per essere piuttosto vago e – di conseguenza – onnicomprensivo: è proprio grazie a questa caratteristica che, nel breve periodo, esso è stato in grado di rispondere alle problematiche di un Paese neonato schiacciato tra grandi potenze, riuscendo a fare da collante sociale in un momento di grandi divisioni interne[6]. In quanto ideazione di Kim Il Sung, esso è considerato perfetto e immutabile: se da un lato tale aspetto ha tutelato l’ideologia da tentativi di revisionismo, dall’altro esso ha reso il Juche uno strumento di difficile applicazione in risposta a emergenze specifiche – al punto che alcuni affermano che l’attuale arretratezza della Corea del Nord sia da attribuire al suo rigidismo ideologico[7].
I successori di Kim Il Sung, tuttavia, sembrano aver trovato un efficace escamotage per plasmare ad hoc l’ideologia ufficiale senza però “violarne” i principi fondanti. Spinti sia da cause di forza maggiore che dalla volontà di disporre un lascito, Kim Jong Il e Kim Jong Un hanno ciascuno introdotto una branca ideologica: il Songun e il Byungjin.
Il Songun nacque nel 1998 a fronte delle difficoltà che Kim Jong Il incontrò al termine del periodo di lutto collettivo successivo alla morte del padre. Nonostante sin dagli anni ’80 fosse chiaro che il leader volesse fare del primogenito il suo successore, alla morte di Kim Il Sung (1994) c’erano tutti i presupposti perché la cerchia ristretta che lo aveva sostenuto non rimanesse fedele al figlio. Kim Jong Il decise dunque di agire su due fronti: in primis, ordinò epurazioni all’interno del Partito e attraverso esse sostituì i membri della vecchia guardia con individui a lui fedeli; in secondo luogo, creò il Songun e lo utilizzò per garantirsi l’appoggio dell’esercito.
È soprattutto al Songun che bisogna guardare per comprendere l’origine della crisi attuale. Questa branca ideologica, infatti, promosse cambiamenti interni che mutarono il ruolo dell’Armata Popolare Coreana e la sua influenza su Partito e popolazione civile. Le forze armate passarono dall’essere un mero strumento di difesa nazionale a costituire la fonte di legittimazione di tutte le istituzioni del Paese. Con la Costituzione del ’98, il nuovo leader, nello stupore collettivo, rinunciò al titolo – ormai esautorato – di capo del governo e divenne Presidente della Commissione Militare Centrale, alla quale la nuova Costituzione attribuì il compito di emettere ordini e decisioni[8].
La centralizzazione del ruolo delle forze armate – che divennero il “sistema nervoso centrale” dello Stato[9] – mutò gli equilibri politici e sociali interni, annullando la separazione tra la sfera militare e quella civile[10]. L’Armata Popolare Coreana, infatti, iniziò a esercitare un controllo esteso nei confronti dei cittadini, i quali ancora oggi confidano ciecamente nel fatto che “l’esercito sia dotato delle risorse, delle conoscenze e delle capacità necessarie a risolvere problemi che si riscontrano nella vita di tutti i giorni. In questo modo, la dottrina invita alla completa dipendenza del popolo dall’esercito”[11]. Dato tale quadro, non sorprende che la Corea del Nord sia divenuta una delle società più militarizzate al mondo, con più di 6 milioni di nordcoreani in servizio attivo su un totale di 25 milioni di cittadini, per i quali il servizio militare costituisce costituzionalmente un “supremo dovere e onore”[12].
Una volta letta la crisi nordcoreana alla luce del Songun, si giunge dunque alla conclusione che l’ideologia ufficiale così plasmata abbia favorito la dipendenza informale del Partito e della leadership dall’esercito – da cui questi traggono legittimazione, tutela e consenso. A sua volta, il leader garantisce alle forze armate una posizione privilegiata, dirottando gran parte delle scarse risorse economiche del Paese in progetti militari, dando mostra delle capacità belliche nordcoreane con parate e prove di forza – si vedano i test missilistici e nucleari – e garantendo all’Armata Popolare Coreana crescenti potere e controllo sui cittadini. La branca ideologica introdotta da Kim Jong Un nel 2013 – poco dopo aver preso il potere – non fa che confermare questa teoria: lo “sviluppo parallelo” di scienza e capacità militari promulgato dal Byungjin vorrebbe completare il processo di fusione del settore civile con quello militare già intrapreso dal Songun e – presentando i test nordcoreani come strumenti necessari allo sviluppo tecnologico del Paese – far rientrare atti apertamente provocatori nella sfera dei diritti della Corea del Nord come Stato sovrano.
La strategia nordcoreana perpetrata da Kim Jong Un, dunque – che difficilmente, vista la sua abilità nel calcolare mosse e contromosse, può essere definito folle o irrazionale – consiste nell’innalzare artificialmente le tensioni, previo poi fare un passo indietro un momento prima che la situazione degeneri.
Il leader nordcoreano non è interessato a fare la guerra, ma piuttosto a mantenere internamente il potere soddisfacendo le esigenze delle forze armate e a tal fine esercita una strategia che alterna minacce, lanci di missili e test nucleari a periodi più o meno brevi di distensione.
Kim Jong Un sembra infatti conoscere bene i limiti del suo Paese e sa di non poter competere ad armi pari con gli Stati Uniti a livello militare: sfrutta dunque il groviglio di interessi internazionali di cui si è già discusso per raggiungere i propri obiettivi, ben consapevole del fatto che l’immobilismo della comunità internazionale gli permetta di agire più o meno indisturbato senza dover temere ripercussioni che vadano oltre le già numerose e poco incisive sanzioni internazionali.
Pur tenendo dunque presente i rischi insiti in una strategia di tal genere e non potendo escludere a prescindere che l’ennesima provocazione nordcoreana non possa prima o poi sfociare in un conflitto armato, è molto probabile che la crisi in corso non finisca per degenerare in una guerra, ma che la Corea del Nord e il resto dei soggetti internazionali coinvolti – tutti favorevoli per motivi diversi a mantenere lo status quo – optino per mantenere questo strano equilibrio nato da decenni di alternanza di minacce e aperture del governo di P’yŏngyang.
Note
[1] Oberdorfer D., The Two Koreas: A Contemporary History, 2013.
[2] Chunshan M., La via per tornare a essere il numero uno al mono. Limes, Gennaio 2017.
[3] Fiori A., Il nido del falco. Mondo e potere in Corea del Nord. Mondadori Education, 2016.
[4] Demick B., Nothing to Envy: Ordinary Lives in North Korea, 2009.
[5] Oh K. & Hassig R. C., North Korea Through the Looking Glass, 2000.
[6] Oberdorfer D., The Two Koreas: A Contemporary History, 2013.
[7] Oh K. & Hassig R. C., North Korea Through the Looking Glass, 2000.
[8] Cap. VI, artt. 101-104, Cost. 1998.
[9] Park Han S., Military-First Politics (Songun): Understanding Kim Jong-il’s North Korea, Academic Paper Series, Vol. 2, Numero 7, 2007.
[10] Cap. IV, art. 61 Cost. 1998.
[11] Park Han S., Military-First Politics (Songun): Understanding Kim Jong-il’s North Korea, Academic Paper Series, Vol. 2, Numero 7, 2007.
[12] Cap. V, art. 86, Cost. 1998.
Immagine in evidenza: Day of the Shining Star