“Bimbominkia” è diffamazione lo afferma la Cassazione


La Cassazione ritiene che dare del “bimbominkia” a qualcuno mentre si interagisce o si comunica attraverso i “social network”, si commetta il delitto di diffamazione aggravata a mezzo di pubblicità ex. art. 595 co.3 c.p., in quanto si asserisce che la persona in questione abbia un “quoziente intellettivo sotto la media”. Secondo la suprema Corte, il termine “bimbominkia” non è in alcun modo coperto dal “diritto di critica”, in quanto tale appellativo è ritenuto offensivo poiché si riferisce ad una categoria di persone avente un quoziente intellettivo sotto la media” e tale definizione è ben oltre la continenza per richiedere l’applicazione della scriminante”. Nota a Sentenza Cassazione Penale, Sez. V, ud. 18 gennaio 2022, (dep. il 05 Aprile 2022), n. 12826


Analisi

La Corte di Cassazione, pronunciandosi con la sentenza n.12826 ha affermato che chiunque utilizzi il termine “bimbominkia” tale da schernire e deridere una persona sui social network: è offensivo, e si commette il reato previsto e punito ai sensi dell’articolo 595 c.p. diffamazione aggravata al co.3 c.p. poiché tale condotta produce una lesione dell’onore di un individuo quale “bene del valore sociale della persona, ossia il decoro e la reputazione”.
Nel caso di specie, la Cassazione, nella sua funzione nomofilattica, – attraverso la medesima sentenza – conferma un principio già espresso in precedenza dalla medesima sezione, e tale conferma, lo enuncia chiaramente dichiarando che vi è una piena aderenza “ai principi che recentemente sono stati affermati dalla medesima sezione giudicante, in merito ad una precedente sentenza Cass., Sez. 5, n. 8898 del 18.01.2021 “.
I supremi giudici ritengono che la Corte d’Appello territorialmente competente, ha correttamente condannato l’imputata, osservando che tale epiteto non lo si può far rientrare nel diritto di critica e quindi giustificarlo, e che pertanto, il confine (per questo caso specifico) è invalicabile ai fini dell’applicazione della scriminante,  non rispettando la cornice edittale in cui sia possibile giustificare un appellativo ai fini di una critica, in virtù del fatto che l’appellativo “bimbominkia” era stato utilizzato in un contesto rivolto agli oltre duemila appartenenti al gruppo Facebook e che la stessa corte ritiene che tale gesto ha significato additarlo come “mentalmente ipodotato”.
Quindi elemento fondamentale non è solo aver apostrofato un individuo con l’appellativo “bimbominkia”, ma è averlo fatto all’interno di un gruppo del noto social network composto da oltre duemila iscritti e seguaci di quella pagina additandolo come un uomo “avente quoziente intellettivo sotto la media”.
Il diritto di critica richiamato dalla difesa del condannato non è applicabile e non va a scriminare la sua condotta, poiché il diritto di critica, di cronaca e di satira, devono essere esercitati entro determinati limiti, tra i quali vi è quello della “continenza”, inteso come rispetto della dignità altrui, non potendo la critica, trascendere nello scherno e nella derisione o nell’arbitraria aggressione morale, oltre al secondo limite fondamentale che corrisponde alla “veridicità dei fatti” basata su elementi documentabili.

Il caso

La vicenda appare controversa poiché vede E.R. quale persona offesa nell’odierna sentenza suindicata, essere stato condannato sempre per il reato di diffamazione, e sempre all’interno del medesimo gruppo Facebook (OMISSIS) per aver offeso la reputazione di D.M. (persona appena deceduta), assumendo prima una posizione attiva di soggetto agente del reato de quo, e poi successivamente (sempre all’interno dello stesso gruppo Facebook), essere persona offesa per lesione dell’onore, perché contro la sua persona, venivano usati epiteti offensivi vedi “bimbominkia”.
La situazione appare contorta ma è facilmente distinguibile poiché il tutto è avvenuto a distanza di tempo, con comportamenti non coincidenti, non consequenziali e non di dibattito offensivo.
Vi è solo la comunanza di elementi dei due momenti, quali il delitto contestato di cui all’articolo 595 co. 3 c.p. che il medesimo gruppo Facebook.

Le motivazioni della Cassazione

La Corte di Appello di Trento ha integralmente confermato la sentenza del 16 aprile 2019 del giudice di prime cure che ha affermato la penale responsabilità di C.M. per il reato ex art. 595 co. 3 c.p. diffamazione aggravata continuata commesso ai danni di E.R.
In particolare, alla imputata C.M si contesta di avere (quale titolare del profilo Facebook C.M.), con più azioni offeso la reputazione del E.R., pubblicando all’interno del gruppo Facebook (omissis), le seguenti espressioni offensive a lui dirette: “dagli al bimbominkia”, “Si chiama bimbominkia”, “Un saluto dai bimbominkioni Animalardosi” e pubblicando una tazza con il logo “=(OMISSIS)” e quindi appellandolo pubblicamente come “bimbominkia”. È da tali affermazioni che la difesa dell’imputata richiama nei confronti della sentenza “del giudice di prime cure”, la violazione dell’articolo 51 c.p. “esercizio di un diritto o adempimento di un dovere” sostenendo che ricorrerebbe la scriminante dell’esercizio del diritto di critica, anche in virtù del fatto che l’espressione utilizzata, “bimbominkia”, non sarebbe particolarmente offensiva.
Passaggio fondamentale che effettua la corte nel rigetto del ricorso da parte dei giudici supremi sta nel non far rientrare la definizione di “bimbominkia” all’interno di un diritto di cronaca e quindi scriminare la condotta. Ebbene, la critica in questione sarebbe stata scriminata se questa avesse rispettato i requisiti della continenza e se non avesse schernito e deriso la persona offesa, inoltre, sarebbe stata scriminata se tale notizia fosse vera, cioè riscontrabile e valutabile ai fini della veridicità. Appare chiaro che l’offesa in questione, non rientri – per gli ermellini – nel concetto del diritto di critica.
Sempre in Appello, a fondamento della tesi della difesa della C.M., veniva richiamata all’attenzione della Corte, il fondamento secondo cui la diatriba successiva, (ovvero quella che aveva ad oggetto il termine “bimbominkia”, era collegata con il precedente giudizio (quello dove lo stesso E.R. era già stato condannato). Difatti la difesa riteneva che l’intero processo fosse connesso con il giudizio già deciso, ma prima per la Corte d’Appello di Trento, poi per la Corte di Cassazione, smentiscono categoricamente ogni collegamento.
Gli ermellini rigettano tale motivo di censura, specificando che l’utilizzo dell’epiteto “bimbominkia”, è oggetto di un dibattito successivo e non rientrante in nessun modo in uno già deciso in passato.
Come secondo motivo di appello, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 599 c.p., rubricato “provocazione”, sostenendo che la Corte di Appello non l’abbia ritenuta esistente, affermando che la C.M. abbia reagito su Facebook a delle provocazioni ricevute, e pertanto, in virtù di un dibattito acceso ed offensivo, rientra nella sfera della causa di non punibilità e che tale atteggiamento non sia punibile.
Sostiene la difesa dell’imputata che “la Corte di appello, ha escluso la possibilità di applicare la causa di non punibilità, in quanto la condotta della C.M. era stata reiterata, mentre in realtà la condotta dell’imputata non era caratterizzata da serialità o progressione criminosa e non era caratterizzata da una particolare intensità del dolo”. 
La Suprema Corte è concorde e d’accordo con la Corte di Appello adita che ha escluso che in tale vicenda, ricorra l’ipotesi della provocazione ai fini di cui all’art. 599 c.p., affermando che non vi è collegamento tra le frasi rivolte. Difatti tale fattispecie ricorre soltanto se “chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’articolo 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso. Viene censurato ogni tentativo di giustificazione delle affermazioni della C.M.
Visti tutti i motivi di appello, i giudici della suprema corte hanno ritenuto di rigettare il ricorso presentato dalla imputata e di condannarla, confermando la sentenza della Corte di Appello.

Articolo 595 c.p. Diffamazione

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente(1), comunicando con più persone(2), offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato(3), la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa (57-58bis) o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità(4), ovvero in atto pubblico (2699), la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio (342), le pene sono aumentate. 

Analisi della fattispecie

L’articolo 595 c.p. è inserito all’interno del libro secondo “dei delitti in particolare”, al titolo XII “dei delitti contro la persona”, al capo II “dei delitti contro l’onore”. Il bene giuridico tutelato dalla norma è la reputazione della persona offesa.
L’offesa all’altrui reputazione non è altro che il riflesso oggettivo dell’onore inteso in senso ampio, e cioè la valutazione che il pubblico fa del pregio dell’individuo e, quindi, la stima che questi gode tra i consociati.
Tale delitto è un reato comune, ovvero può essere commesso da chiunque, non c’è bisogno che il soggetto agente rivesta una particolare qualifica giuridica. È un reato di mera condotta, ovvero viene punito il fatto di aver tenuto una determinata condotta. L’evento (per questa tipologia di reato) è una conseguenza possibile, ma non necessaria per la configurazione del reato. 
Inoltre, è un reato a forma libera, ovvero le modalità per commettere il reato di diffamazione, può avvenire in qualunque modo, non c’è bisogno che debba essere commesso attraverso una specifica condotta o comportamento ad hoc.
Per ciò che concerne l’elemento oggettivo del reato, esso consiste nella condotta diffamatoria manifestata attraverso l’offesa alla reputazione e all’onore del soggetto passivo del reato, ovvero del c.d. diffamato, ma che tale condotta, dovrà essere posta in esecuzione in assenza del diffamato. Questo elemento negativo implica che l’offeso non debba esserci nel momento dell’azione criminosa.
Per quanto riguarda l’elemento soggettivo della fattispecie, in capo al soggetto agente è richiesto il dolo generico, ovvero la rappresentazione e la volizione di commettere il reato, ovvero si parla di coscienza e di volontà dell’offesa che avviene mediante la comunicazione del soggetto agente innanzi a due o più persone.
A tal fine, proprio la presenza di più persone e l’assenza dell’offeso, occorre fare una differenza tra ingiuria e diffamazione. L’ingiuria scatta quando una persona offende un’altra in presenza della stessa, ovvero le rivolge delle offese. Benché questo comportamento non sia corretto secondo i canoni sociali, oggigiorno il comportamento ingiurioso non è più reato, ma costituisce solo un illecito civile poiché la norma è stata depenalizzata; la diffamazione invece, scatta quando una persona offende un’altra in assenza di questa e dinanzi almeno ad altre due persone, queste persone a cui giungono notizie diffamanti, non devono per forza essere presenti nello stesso momento, ma comunque ad esse vengono riportate parole diffamatorie. A tal riguardo anche parole pronunciate in una chat di messaggistica o su un gruppo social, equivale ad aver pronunciato fatti diffamatori in assenza del diretto interessato.
Nel caso in esame, è opportuno specificare che la condotta diffamatoria arrecata ai danni di E.R., è prevista e punita come aggravante ai sensi del comma 3 dell’art. 595 c.p.
Ebbene, quando l’offesa è commessa attraverso il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, avviene attraverso un veicolo di diffusione di notizie ben più veloce e alla portata di ogni individuo. Non si ritiene prevalente in termini di velocità della circolazione della notizia o dell’offesa uno strumento come Facebook, un giornale o altro strumento comunicativo, ovvero si prescinde dal mezzo di diffusione se questo strumento raggiunge il suo scopo, purché leda l’onore e la rispettabilità di ogni individuo. La ratio di questa aggravante sta proprio nel fatto che il mezzo di comunicazione usato, dirige ed importa, una maggiore divulgazione dell’epiteto disonorante e, quindi, determina un maggior danno.
Occorre inoltre precisare che si configura la diffamazione aggravata quando questa avvenga attraverso l’utilizzo di mezzi di stampa o di altri mezzi di pubblicità, come ad esempio commenti attraverso i siti web e i famosissimi “social network”. Secondo una sentenza della Cassazione n. 8482 del 2017“L’uso dei social network, e quindi la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata. Questo in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione”.
La pubblicazione di una eventuale affermazione potrebbe essere giustificata ai sensi dell’articolo 51 c.p. secondo cui si starebbe esercitando un diritto di critica, di cronaca o di satira soprattutto se questa affermazione rispettasse i canoni della continenza e della veridicità dei fatti. L’esercizio del diritto di critica non si concretizza quindi nella mera narrazione di fatti, ma nell’espressione di un giudizio o di un’opinione. Il tutto deve essere fatto tenendo presente che possa essere scriminato se riesce a rimanere confinato in una cornice di precisi limiti, quali di interesse pubblico della conoscenza di fatti e di opinioni, nel c.d. limite della continenza e della veridicità dei fatti che sono posti a fondamento della critica.

Dunque, al diritto di critica viene riconosciuta una giustificazione ai sensi dell’art. 51 c.p. se questo viene esercitato attraverso modalità tali da non arrecare attacchi personali ed offensivi al destinatario che possano sfociare in aggressioni gratuite totalmente avulse e non pertinenti al tema in discussione perché chiaramente dirette a screditare un soggetto.

Considerazioni conclusive:

Alla luce di quanto avvenuto, si può affermare che il linguaggio gergale in uso, in particolare sui social, anche pronunciato per scherzo o con leggerezza, può attribuirsi un significato tutt’altro che passabile, assumendo a tutti gli effetti i canoni di un reato aggravato poiché rientrante nella condotta che viene punita ai sensi dell’articolo 595 co. 3 c.p. ovvero della diffamazione aggravata con mezzi di pubblicità. La pena prevista – al netto di tutti i gradi di giudizio – per aver commesso il delitto de quo va da un minimo di sei mesi fino ai tre anni di reclusione e con la multa non inferiore a € 516,00.

DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA SU FACEBOOK

Cassazione Penale sez. V – ud. 18.01.2022, n. 12826

RITENUTO IN FATTO

  1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Trento ha integralmente confermato la sentenza del 16 aprile 2019 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trento che ha affermato la penale responsabilità di C.M. per il reato di diffamazione aggravata continuata commesso ai danni di E.R. e, applicate le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, la ha condannata alla pena di giustizia.

In particolare, alla C. si contesta di avere, quale titolare del profilo Facebook C.M., con più azioni offeso la reputazione del R., pubblicando all’interno del gruppo =(OMISSIS), a lui dedicato e di cui la predetta era coamministratrice, dopo le reazioni del R. all’uccisione dell’orsa Daniza in Trentino, le seguenti espressioni offensive a lui dirette: “dagli al =bimbominkia”, “Si chiama =bimbominkia”, “Un saluto dai bimbominkioni Animalardosi” e pubblicando una tazza con il logo “=(OMISSIS)” e quindi appellandolo pubblicamente come “bimbominkia”.

  1. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso C.M., a mezzo del suo difensore, chiedendone l’annullamento ed articolando tre motivi.

2.1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 51 c.p., sostenendo che ricorrerebbe la scriminante dell’esercizio del diritto di critica.

L’espressione utilizzata, “bimbominkia”, non sarebbe particolarmente offensiva.
Inoltre, la Corte di appello avrebbe erroneamente escluso che potesse ricorrere detta scriminante, affermando che il R. non era un personaggio politico di statura nazionale o anche semplicemente locale. In realtà, egli era un personaggio noto alle cronache nazionali e segretario del Partito animalista Europeo.
Ricorrevano quindi gli estremi dell’esercizio del diritto di critica politica, avendo l’imputata inteso divulgare il proprio giudizio sul R. che a sua volta, in qualità di segretario di detto partito, aveva espresso frasi oltraggiose in relazione alla morte di D.M., Presidente del Consiglio regionale della Regione (OMISSIS) e che traevano origine proprio dalla passione del M. per la caccia.

2.2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 599 c.p., sostenendo che erroneamente la Corte di appello ha ritenuto insussistente la causa di non punibilità della provocazione.
La Corte territoriale, pur dando atto che il R. era stato definitivamente condannato per avere offeso la reputazione di D.M., deceduto durante una battuta di caccia, aveva evidenziato che le frasi offensive, pubblicate sul socia/ network Facebook e ribadite in un’intervista nella trasmissione (OMISSIS), in quel caso si collocavano in un contesto ben diverso, quello della gestione dell’orsa Daniza.
In realtà, sostiene la ricorrente, la Corte di appello aveva travisato i fatti di causa che erano da ricondurre non alla questione dell’orsa Daniza, ma alla morte di D.M., avvenuta in data (OMISSIS) a causa di un attacco cardiaco in occasione di una battuta di caccia. Nei giorni immediatamente successivi al decesso, il R. aveva pronunciato le frasi offensive per le quali era stato poi condannato. La condotta della C. era la risposta alle frasi offensive rivolte dal R. al M., del quale la imputata era stata amica. L’immediatezza della reazione alla provocazione andava intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle modalità della reazione, non essendo necessaria la contemporaneità della reazione alla provocazione, essendo sufficiente che lo stato d’ira determinato dalla provocazione fosse ancora in atto al momento della reazione.
Anche L.C. aveva appellato il R. con l’epiteto di “bimbominkia”, ma era stato assolto dal Tribunale di Rovereto, che aveva affermato che la creazione del gruppo Facebook e tale termine erano collegati alle frasi rivolte dal R. al M. ed aveva applicato la scriminante della provocazione; le due condotte, quella del L. e quella dell’odierna ricorrente, non potevano essere giudicate in modo diverso.

2.3. Col terzo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 131-bis c.p..

La Corte di appello ha escluso la possibilità di applicare la causa di non punibilità prevista dalla citata disposizione, in quanto la condotta della C. era stata reiterata, mentre in realtà la condotta dell’imputata non era caratterizzata da serialità o progressione criminosa e non era caratterizzata da una particolare intensità del dolo. 

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

La Corte di appello ha escluso che la condotta della ricorrente fosse scriminata dal diritto di critica sulla base di due distinte ed autonome rationes decidendi.
Essa ha innanzitutto escluso che E.R. fosse un personaggio politico di rilievo nazionale o anche solo locale. La ricorrente, affermando che tale conclusione non è esatta, introduce una questione di merito che è inammissibile in questa sede di legittimità, atteso che la censura della ricorrente è sostanzialmente finalizzata ad un riesame del merito del processo.
In secondo luogo, la Corte di appello ha osservato che in ogni caso anche il diritto di critica deve essere esercitato entro determinati limiti, tra i quali vi è quello della continenza, non potendo la critica trascendere nello scherno e nella derisione.
Nel caso di specie, del tutto correttamente e in piena aderenza ai principi anche recentemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte di cassazione in relazione a pubblicazioni su soda network (vedi Cass., Sez. 5, n. 8898 del 18/01/2021 – dep. 2021, Fanini, Rv. 280571), la Corte territoriale ha osservato che detto limite non è stato rispettato, atteso che appellare il R. quale “bimbominkia” nei messaggi rivolti agli oltre duemila appartenenti al gruppo Facebook ha significato additarlo come mentalmente ipodotato.

  1. Analoghe considerazioni valgono a rendere inammissibile il secondo motivo di ricorso.

La Corte di appello ha escluso che ricorra l’ipotesi della provocazione ai fini di cui all’art. 599 c.p., affermando che non vi è collegamento tra le frasi rivolte dal R. al M. e quelle della odierna ricorrente dirette a deridere il R. innanzi agli iscritti al gruppo Facebook.
La C., affermando che la Corte territoriale ha travisato il fatto e che in realtà sussiste un collegamento tra le due vicende, anche sotto il profilo cronologico, mira anche in questo caso a sollecitare valutazioni di merito inammissibili in questa sede.

  1. Inammissibile è anche il terzo motivo di ricorso, atteso che la Corte territoriale ha posto a fondamento del rigetto del motivo di appello volto all’applicazione della causa di non punibilità prevista dalla citata disposizione due distinte ed autonome rationes decidendi, costituite dalla abitualità della condotta, avendo la C. reiteratamente deriso il R. con detti messaggi, e dalla non lieve offensività della condotta, in quanto i messaggi erano diretti a ben 2.297 iscritti al gruppo Facebook.

La ricorrente attacca solo la prima ratio, omettendo di confrontarsi con l’altra.
E’ inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle diverse rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove queste siano autonome ed autosufficienti (Sez. 3, n. 2754 del 06/12/2017, dep. 2018, Bimonte, Rv. 272448), atteso che anche laddove venisse meno una di esse, la decisione verrebbe ad essere sorretta dall’altra.

  1. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., comma 1, al pagamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che si reputa equo fissare in Euro 3.000,00. 

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2022


Foto copertina: Suprema Corte di Cassazione