Le principali novità introdotte con decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216: quale compromesso tra le esigenze di segretezza della corrispondenza ed il diritto di informazione?
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La nuova disciplina delle intercettazioni tra “riservatezza” e “rilevanza”. – 2.1. Il vaglio sui colloqui rilevanti e l’archivio riservato del p.m. – 2.2. I dialoghi tra assistito e legale. – 2.3. L’uso dei Trojan Horse. 2.4. – Il nuovo reato ex art. 617 septies c.p. – 3. L’accesso dei giornalisti alla ordinanza di custodia cautelare. – 3.1. L’ordinanza copia-incolla e l’«autonoma valutazione» del g.i.p. – 4. Riflessioni conclusive.
1. Introduzione. – A seguito di due esami preliminari e dei pareri espressi dalle Commissioni parlamentari Giustizia e Affari Costituzionali, lo scorso 29 dicembre il Consiglio dei Ministri ha approvato il testo definitivo del decreto legislativo[1] che riforma radicalmente la disciplina delle intercettazioni, sulla base dei principi e dei criteri direttivi in tema di “riservatezza” già enunciati all’art. 1, commi 82, 83 e 84, lettere a), b), c), d) ed e) della legge 23 giugno 2017, n.103 ( c.d. riforma Orlando)[2].
Nel recare disposizioni in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, scopo del suddetto decreto è quello di confermare «il ruolo delle intercettazioni come fondamentale strumento di indagine, creando un giusto equilibrio tra la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione e il diritto all’informazione». Si legge infatti nel comunicato stampa del Governo che «il decreto, nell’attuare una revisione della disciplina delle intercettazioni volta a rendere maggiormente equilibrata la salvaguardia fra interessi parimenti meritevoli di tutela a livello costituzionale, introduce disposizioni volte a incidere sull’utilizzazione, a fini cautelari, dei risultati delle intercettazioni, nonché a disciplinare il procedimento di selezione delle comunicazioni intercettate, secondo una precisa scansione temporale». Tra le finalità perseguite da quella che aspira ad essere una migliore operazione di bilanciamento tra le esigenze di segretezza e di informazione, ispirata in larga parte alle regole già proposte nelle linee-guida delle principali Procure della Repubblica[3], vi è certamente quella di escludere, per quanto possibile e in tempi ragionevoli, «ogni riferimento a persone solo occasionalmente coinvolte dall’attività di ascolto» nonché «d’impedire l’indebita divulgazione di fatti e riferimenti a persone estranee all’oggetto dell’attività investigativa» .
E’ agevole pensare come a contribuire ad alimentare il dibattito politico sul delicato tema delle intercettazioni siano anche state le svariate inchieste giudiziarie che, negli ultimi anni, hanno gettato o hanno provato a gettare luce sull’ombra della criminalità, del malaffare e, non da ultima, della corruzione nel mondo politico e nell’amministrazione pubblica. Tutto ciò – come lamentato da molti – in un contesto degenere in cui la funzione originaria dell’intercettazione quale strumento d’indagine sembrerebbe aver lasciato spazio a quella di strumento di gogna sui mezzi di comunicazione, alimentando appetiti mediatici molto spesso svincolati dalla rilevanza penale degli stessi contenuti ma purtroppo utili a parte della magistratura in cerca di visibilità o consenso pubblico ai fini della prosecuzione dell’inchiesta[4].
Se per il Ministro Orlando la bontà di una riforma è testimoniata dal fatto che non accontenta tutti, d’altra parte sono svariate le critiche avanzate da più fronti e, in particolare, dai rappresentanti di categoria di magistrati, avvocati penalisti e giornalisti.
I primi – rappresentati dall’attuale Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), Eugenio Albamonte – lamentano lo strapotere della polizia giudiziaria nella selezione delle intercettazioni dato che la nuova disciplina prevede che quelle ritenute non rilevanti a monte dalla polizia giudiziaria non debbano essere trascritte; sarà piuttosto il pubblico ministero, sulla base però delle scarne informazioni inerenti il tempo di registrazione e l’utenza intercettata (ma non il contenuto della stessa), a decidere eventualmente di effettuare un controllo più attento: operazione che, secondo i magistrati, risulterebbe difficile come “cercare un ago nel pagliaio”.
Duri sulla riforma anche gli avvocati dell’Unione Camere Penali Italiani (UCPI) i quali lamentano forti compressioni del diritto di difesa nonostante le ultime due novità approvate nell’ultima versione dello schema di decreto e consistenti nell’innalzamento da 5 a 10 giorni del termine attribuito ai difensori per esaminare il materiale intercettato ed il divieto, fermo restando quello di intercettare difensore e assistito, di verbalizzare le conversazioni occasionalmente captate tra questi ultimi. “Modifiche di dettaglio”, secondo Rinaldo Romanelli della giunta dell’Ucpi, a fronte di importanti vulnus della riforma come quello che non consente agli avvocati di ottenere copia di tutto il materiale intercettato.
Ed infine, non mancano all’appello le critiche dei giornalisti: «Sbaglia chi crede che la tutela del diritto di cronaca, nella nuova disciplina sulle intercettazioni, possa esaurirsi nel diritto di richiedere copia delle ordinanze del Gip – si legge in un comunicato[5] della Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI), il sindacato unico dei giornalisti- Questa norma, inserita nel provvedimento approvato dal governo, rappresenta un passo in avanti rispetto al testo iniziale, ma non può limitare il diritto dei giornalisti a pubblicare ogni notizia rilevante per l’opinione pubblica, anche se irrilevante ai fini del processo penale».
Ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 9 del decreto legislativo, la riforma (articoli 2,3,4,5 e 7) entrerà in vigore e si applicherà alle operazioni di intercettazione relative a provvedimenti autorizzativi emessi dopo sei mesi dall’entrata in vigore del decreto, mentre la norma (art. 2, comma 1, lettera b) del decreto) che consentirà ai giornalisti di ricevere copia dell’ordinanza di custodia cautelare, una volta resa nota alle parti, entrerà in vigore soltanto dopo un anno.
Lo scopo di questa dilazione, riferita alla norma sul diritto di cronaca che insieme ad altre modifiche è stata riconfermata nell’ultima versione del testo approvato, stando alle dichiarazioni del Ministro Orlando, dipenderebbe proprio dalla necessità di monitorare l’andamento delle ordinanze, in modo da superare la prassi del copia-incolla rispetto alle richieste dei p.m.[6], verifica che però spetterà al prossimo esecutivo. Si tratta, quest’ultima, di una delle più significative novità previste dalla c.d. riforma Orlando nell’ambito del più vasto e delicato rapporto tra procedimento penale e diritto di cronaca che, per questo ma anche per l’importanza degli interessi messi in gioco, non mancherà certamente di suscitare ulteriori discussioni nel dibattito pubblico dei prossimi mesi antecedenti alla data prevista per la sua entrata in vigore.
E’ proprio su quest’ultimo punto che, in questo contributo, concentreremo la nostra attenzione, subito dopo aver fornito un quadro generale delle principali novità introdotte con decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216 vigente al 26 gennaio 2018.
2. La nuova disciplina delle intercettazioni tra “riservatezza” e “rilevanza”. – Quando parliamo di “intercettazioni di conversazioni e comunicazioni” facciamo riferimento ad un mezzo di ricerca della prova previsto dal nostro codice di procedura penale, la cui definizione viene data dalla giurisprudenza di legittimità[7] come quella «captazione, ottenuta mediante strumenti tecnici di registrazione, del contenuto di una conversazione o comunicazione segreta in corso tra due o più persone, quando l’apprensione medesima è operata da parte di un soggetto che nasconde la sua presenza agli interlocutori».
Trattandosi di uno strumento che potenzialmente limita uno dei diritti fondamentali della persona, l’art. 15 della Costituzione prevede, a presidio di tale diritto, una riserva di giurisdizione nel senso che la limitazione della segretezza e della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sarà possibile soltanto con un provvedimento motivato del giudice e nel rispetto delle “garanzie stabilite dalla legge”.
A presidio della garanzia della “riservatezza” delle persone coinvolte a qualsiasi titolo in un procedimento penale ma soprattutto di quelle estranee all’oggetto dell’attività investigativa, la delega in materia di intercettazioni inserita nella legge n. 103 del 2017 rappresenta una nuova quanto da tempo attesa via di intervento attorno al sempre più preoccupante fenomeno delle fughe di notizie tramite i mass media. Ed è proprio «quest’ultimo dato, considerato come ineluttabile, il punto di partenza dal quale muove, a ritroso, il tentativo di bloccare la conoscibilità e la diffusione delle conversazioni inutilizzabili o “irrilevanti”»[8]. L’ambizioso scopo della delega è certamente quello di rafforzare ab origine la procedura di selezione delle informazioni ritenute rilevanti ai fini del procedimento penale, così da evitare che una eventuale e imminente pubblicazione sui giornali, o in genere sui mezzi di comunicazione, di quelle irrilevanti penalmente possa arrecare un danno ormai irreversibile alla reputazione delle persone coinvolte o meno dall’indagine.
2.1. Il vaglio sui colloqui rilevanti e l’archivio riservato del P.m. – Un primo ordine di intervento della riforma prevede di attribuire al pubblico ministero un ampio potere di selezione di quelle conversazioni ritenute “utilizzabili” e “rilevanti” e, prima ancora, alla polizia giudiziaria un potere di “filtro” fin dalla primissima fase dell’ascolto ovvero a monte del procedimento. La disciplina innova quella finora vigente nel senso di modificare anche il procedimento di scrittura dei c.d. brogliacci d’ascolto, ovvero gli atti attraverso i quali la polizia giudiziaria provvede a trascrivere il contenuto delle intercettazioni ai sensi dell’art. 268 c.p.p. Per evitare il confluire di informazioni irrilevanti in atti come l’ordinanza di custodia cautelare (che già sfugge al divieto di pubblicazione ex art. 114 c.p.p. in quanto atto non di indagine del pubblico ministero o della polizia giudiziaria) l’art. 2 del decreto legislativo in esame vieta la trascrizione anche sommaria nei brogliacci «delle comunicazioni o delle conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti, nonché di quelle , parimenti non rilevanti, che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge»[9]. Dispone poi che nei verbali delle operazioni compiute siano indicati soltanto la data, l’ora e l’utenza intercettata.
La norma presenta delle criticità nella parte in cui non prevede altresì un obbligo di trascrizione del contenuto minimo delle conversazioni ascoltate, tale da consentire al pubblico ministero di operare un effettivo controllo sulla valutazione della “rilevanza”[10] di queste ultime, effettuata dalla polizia giudiziaria al momento dell’ascolto. La norma immediatamente successiva prevede infatti che il pubblico ministero possa, con decreto motivato, disporre comunque che quelle conversazioni ritenute non rilevanti dalla polizia giudiziaria, nonché quelle relative a dati personali definiti sensibili dalla legge, siano trascritte nel verbale «quando ne ritiene la rilevanza ai fatti oggetto di prova»[11]. In questo senso, il pubblico ministero potrebbe allora decidere di ascoltare le registrazioni delle conversazioni e chiedere di verbalizzare le parti omesse dalla polizia giudiziaria; come si diceva prima però, nel dubbio sulla rilevanza della conversazione, l’azione di controllo del pubblico ministero resta pur sempre rimessa ad informazioni molto scarne, quali sono quelle che la norma impone per la trascrizione da parte della polizia giudiziaria delle conversazioni da quest’ultima ritenute non rilevanti.
La soluzione scelta dal legislatore, che trae spunto dalle linee-guida già sancite dalle circolare delle Procure di Roma e Napoli[12], ha certamente il pregio di evitare che fin dall’inizio delle indagini, ovvero nella fase dell’ascolto, le conversazioni irrilevanti vengano trascritte e finiscano negli atti processuali con il rischio maggiore di una loro diffusione; per contro però, non può sfuggire all’evidenza il difetto consistente nell’affidare la scelta iniziale della trascrizione alla discrezionalità della polizia giudiziaria, con conseguente rischio di omissione di informazioni la cui rilevanza potrebbe apprezzarsi in un momento successivo.
L’art.2 del decreto opera in senso abrogativo sui commi finali dell’art. 268 c.p.p. che disciplina la c.d. udienza di stralcio. A differenza della disciplina previgente, il decreto prevede infatti una procedura del tutto innovativa. Al capitolo 3 recante Modifiche al codice di procedura penale in materia di trascrizione, deposito e conservazione dei verbali di intercettazione viene disciplinata ex novo la procedura di deposito degli atti riguardanti le intercettazioni e la selezione del materiale raccolto. Si tratta infatti di una procedura “bifasica”[13] che prevede un previo deposito delle conversazioni e comunicazioni e dei relativi atti entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, ed una successiva acquisizione disposta dal giudice ma sulla base di un contraddittorio cartolare tra le parti (memorie, richieste scritte): il difensore, infatti, entro dieci giorni[14] dalla ricezione dell’avviso di deposito, avrà la facoltà di richiedere l’acquisizione di quelle conversazioni e comunicazioni «rilevanti ai fini di prova» non contenute nell’elenco disposto dal pubblico ministero, ovvero l’eliminazione di quelle inutilizzabili o di cui non doveva essere operata la trascrizione ab origine. Il giudice decide con ordinanza sull’acquisizione ed entro cinque giorni dalla presentazione delle richieste, normalmente in camera di consiglio[15], potendo procedere anche d’ufficio allo stralcio delle registrazioni inutilizzabili. Con l’ordinanza e ai fini dell’acquisizione, dispone altresì «la trascrizione sommaria a cura del pubblico ministero del contenuto delle comunicazioni o conversazioni acquisite su richiesta dei difensori».
Sulla procedura di “recupero” delle conversazioni non verbalizzate, la nuova disciplina presenta delle criticità soprattutto nei casi in cui questa avvenga su richiesta della difesa. Fino al momento del deposito del materiale intercettato, la difesa conosce infatti soltanto ciò che è stato oggetto di filtro e selezione da parte della polizia giudiziaria e del pubblico ministero. Pertanto, mentre al pubblico ministero è riconosciuto il potere di ascoltare e far trascrivere conversazioni inizialmente omesse dalla polizia giudiziaria, di contro alla difesa è riconosciuto il diritto di ascoltare tutto il materiale intercettato soltanto a deposito avvenuto ed in tempi molto ristretti (dieci giorni, prorogabile di una sola volta) quali sono quelli previsti ai fini della nuova procedura di stralcio[16]. Tutto ciò, unito alle nuove modalità di trascrizione che impongono alla polizia giudiziaria di indicare nei verbali soltanto orario e utenza intercettata delle conversazioni non rilevanti, potrebbe rendere molto difficile l’esplicazione delle suddette iniziative difensive, nonché rappresentare una seria compromissione del diritto di difesa.
Piuttosto va segnalata, a proposito di garanzie difensive in sede cautelare, la disciplina introdotta all’art. 293 comma 3 c.p.p. che, a seguito di notificazione e esecuzione dell’ordinanza cautelare, prevede il diritto dei difensori di esame e di copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate, nonché di avere in ogni caso la trasposizione, su supporto idoneo, delle relative registrazioni. Mentre lo schema di decreto legislativo escludeva il diritto di copia del materiale a cui è riconosciuto accesso al difensore, il testo definitivo del decreto legislativo lo ha invece previsto insieme agli altri diritti “incondizionati” della difesa che, per ovvie ragioni, sono però limitati alle sole intercettazioni utilizzate dal pubblico ministero nella fase cautelare.
La riforma ruota poi attorno all’introduzione di un archivio riservato presso l’ufficio del pubblico ministero che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni in cui, ai sensi dell’art. 269 c.p.p. nella sua nuova formulazione, saranno conservati i verbali e le registrazioni, ed ogni altro atto ad esse relativo, tutti coperti da segreto. In esso confluiranno altresì tutte le conversazioni ritenute irrilevanti e inutilizzabili a seguito della procedura di stralcio. A tale archivio è riconosciuto il diritto di accesso anche al giudice per le indagini preliminari e ai difensori dell’imputato «per l’esercizio dei loro diritti e facoltà» e «l’ascolto delle conversazioni o comunicazioni registrate». In passato, ricordiamo, tutto il materiale inerente le intercettazioni veniva direttamente inserito nel fascicolo delle indagini preliminari, piuttosto che essere collocato in un archivio riservato; solo dopo, attraverso il modello incentrato sulla c.d. udienza di stralcio, veniva operata una selezione ed eliminazione del materiale irrilevante e inutilizzabile.
2.2. I dialoghi tra assistito e legale. – A tutela della riservatezza nonché delle garanzie difensive di cui all’art. 24 della Costituzione, il decreto legislativo – in attuazione dei criteri direttivi sanciti all’art. 1 comma 84 lettera a) delle legge delega – conferma il divieto di intercettazione diretta dei dialoghi intercorsi tra difensore ed il proprio assistito[17]. Il legislatore è però intervenuto su altro fronte, ovvero quello relativo alla captazione indiretta o occasionale: si tratta del caso in cui, pur essendo l’intercettazione legittima e rivolta ad altri soggetti, quest’ultima coinvolga indirettamente il difensore. In questa ipotesi, la norma prevede che l’eventuale coinvolgimento non possa portare alla trascrizione nemmeno sommaria delle conversazioni nei c.d. brogliacci d’ascolto, ma nel verbale delle operazioni dovranno essere indicati soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta: ciò al fine della successiva distruzione prevista dal codice di procedura penale per le intercettazioni inutilizzabili. Viene fatto salvo l’obbligo per la polizia giudiziaria di informare sempre il pubblico ministero, dominus delle indagini, della prospettata irrilevanza delle suddette comunicazioni attraverso un’annotazione ai sensi dell’art. 357 c.p.p., e ciò soprattutto nei casi in cui sia dubbio procedere o meno a trascrizione.
La norma suscita delle criticità, come lamentato dagli stessi avvocati penalisti, nella parte in cui comunque consente alla polizia giudiziaria di ascoltare le conversazioni e le comunicazioni occasionalmente o indirettamente captate tra difensori e assistiti. Mentre il divieto di trascrizione è chiaramente diretto ad evitare che tali contenuti possano finire pubblicati sui giornali, di contro però, non essendo previsto alcun divieto di “interruzione” della procedura di ascolto nel caso in cui quest’ultima portasse indirettamente a captare i dialoghi tra difensore e assistito, potrebbe ipotizzarsi il rischio di una messa a conoscenza da parte della polizia giudiziaria al pubblico ministero della strategia difensiva di chi è indagato[18].
2.3. L’uso dei Trojian horse. – L’art. 4 del decreto legislativo, recante Modifiche al codice di procedura penale in materia di intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico, regolamenta per la prima volta a livello normativo l’uso del c.d. trojan horse o captatore informatico. Si tratta di uno strumento già ampiamente usato in passato, seppur in assenza di una precisa disciplina, nonché potenzialmente invasivo della libertà garantita dall’art. 15 della Costituzione. Il decreto prevede l’inserimento al secondo comma dell’art. 266 c.p.p. (che disciplina i limiti di ammissibilità delle intercettazioni) della disposizione che, nei casi in cui è consentita l’intercettazione delle comunicazioni tra presenti, legittima l’esecuzione «mediante l’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile». Deve ritenersi che tale strumento, consistente in un malware «occultamente installato dall’inquirente su un apparecchio elettronico dotato di connessione internet attiva»[19] possa consentire svariate operazioni: l’attivazione delle telecamera del dispositivo e la possibilità di fotografare immagini o documenti visualizzati, nonché la memorizzazione del traffico dati, l’intercettazione di quanto digitato interamente sulla tastiera e ancora la localizzazione del dispositivo utilizzato.
Tale modalità è sempre consentita per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater (delitti più gravi, di grave allarme sociale o commessi a scopo di terrorismo): il decreto legislativo non fa altro che confermare, in questo senso, quanto già emerso dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione del 1 luglio 2016, n. 26889 (ric. Scurato) che, limitatamente ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata, aveva già legittimato l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un “captatore informatico” in dispositivi elettronici portatili «anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pure non singolarmente individuati ed anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa»[20]. Al di fuori di questi casi, il decreto legislativo prevede che l’attivazione del dispositivo nel domicilio o nei luoghi di privata dimora possa essere disposta soltanto se negli stessi si stia svolgendo l’attività criminosa e nel rispetto dei requisiti previsti per le intercettazioni telefoniche.
L’intercettazione tra presenti deve essere autorizzata dal giudice con decreto che indichi le ragioni che rendono necessaria l’operazione, fatta salva la possibilità del pubblico ministero di prescindere dalla autorizzazione nei casi di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del giudice; il tal caso seguirà il procedimento di successiva convalida del giudice (entro quarantotto ore), sempre che nel decreto siano indicate in modo specifico le situazioni di fatto che rendano impossibile la richiesta al giudice e le ragioni per le quali tale modalità di intercettazione sia necessaria per lo svolgimento delle indagini. Nelle operazioni di avvio e cessazione delle registrazioni con captatore informatico, la polizia può avvalersi dell’ausilio di consulenti tecnici. Ed infine, la norma prevede che i risultati delle intercettazioni operate con tale strumento possano essere usati ai fini di prova soltanto per i reati per i quali è stato emesso il decreto «salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza».
2.4. Il nuovo reato ex art. 617 septies c.p – La previsione di cui all’art. 1 del decreto legislativo, in attuazione dei principi sanciti all’art.1 comma 84 lettera b) della delega, è diretta ad introdurre nel codice penale il delitto di Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. La fattispecie, sancita dal nuovo art. 617 septies c.p., punisce con la reclusione fino a quattro anni «chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione». Si tratta di un reato procedibile a querela della persona offesa, con esclusione però dei casi in cui la diffusione delle stesse registrazioni derivi direttamente dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario. Come delineato più precisamente dal Ministero della Giustizia[21], oggetto di tutela sono l’onore e la dignità della vittima che possono essere pregiudicati dalla diffusione di immagini o conversazioni carpite in momenti o contesti che, secondo le previsioni dei partecipanti, erano destinati a rimanere del tutto privati. Si pensi infatti alle non poco frequenti diffusioni di registrazioni captate in modo nascosto da uno dei partecipanti per poi essere indebitamente diffuse sui social network o altro mezzo di diffusione di largo uso. Ai fini della punibilità, la norma richiede però un dolo specifico consistente nel solo fine di «recare danno all’altrui reputazione o immagine». Meno specifica, e quindi poco determinabile a priori, l’area del non punibile riferita al diritto di cronaca, che può rinvenirsi in tutti i casi di diffusione di comunicazioni private giustificate dalla rilevanza pubblica del fatto, nonché dalla notorietà dei soggetti coinvolti.
3. L’accesso dei giornalisti alla ordinanza di custodia cautelare. – Così come per l’intera fase delle indagini preliminari, l’applicazione di una misura cautelare rappresenta uno dei momenti più critici sotto il profilo dell’attenzione mediatica[22]. L’arresto di un soggetto è un atto a sorpresa limitativo della libertà personale che già di per sé suscita una inevitabile curiosità pubblica, tanto più elevata quanto più alto è il grado di notorietà del soggetto che ne è sottoposto o l’interesse generale sull’oggetto dell’inchiesta. La gente, la collettività vuole e deve certamente sapere quali sono le ragioni che hanno indotto un giudice a decidere sulla restrizione della libertà personale di un soggetto; per farlo, non può che ricorrere a quella pubblicità mediata rappresentata dal ruolo dei giornali e, in generale, dai mezzi di comunicazione i quali – a volte per superficialità, altre allo scopo di vendere qualche copia in più considerata altresì la preoccupante crisi economica che da anni colpisce il mondo dell’editoria e del giornalismo – sono però molto spesso indotti a ricercare quante più informazioni possibili e dettagliate sull’oggetto delle indagini, al fine di appagare una curiosità pubblica sempre più insaziabile e a volte anche “malsana”[23]. E’ in questo contesto che si inserisce, senza mai trovare forse un punto di incontro, l’annosa disputa tra chi sostiene che ai fini della pubblicazione di una qualsiasi notizia sui giornali sia necessario guardare anzitutto alla sua “rilevanza processuale” e chi, come parte dei giornalisti italiani, ritiene invece sia sempre giusto pubblicarla (anche se coperta da segreto investigativo) se questa può ritenersi rilevante per l’opinione pubblica.
Sulla scia di tale premessa, può allora trovare giustificazione l’intento del legislatore di introdurre nel codice di procedura penale «disposizioni volte a incidere sull’utilizzazione, a fini cautelari, dei risultati delle intercettazioni», considerato che l’ordinanza con la quale il giudice dispone una misura cautelare ha da sempre rappresentato un particolare “contenitore” in cui vengono fatti convogliare tutta una serie di dati e informazioni il più delle volte processualmente irrilevanti e lesivi della privacy e della reputazione delle persone a qualsiasi titolo coinvolte nelle indagini. Motivi per i quali – tenuto altresì conto del fenomeno patologico consistente nel copia-incolla nell’ordinanza cautelare del contenuto delle richieste del pubblico ministero da parte del giudice per le indagini preliminari, e nel riversamento nella motivazione di tale provvedimento di stralci di atti d’indagine la cui pubblicazione è vietata ex art. 114 c.p.p. – il legislatore ha difatti voluto differire ad un anno dalla pubblicazione del decreto (quindi al 26 gennaio 2019) l’entrata in vigore della norma che consentirà ai giornalisti di ottenere copia dell’ordinanza di custodia cautelare, attraverso un libero accesso degli stessi agli uffici giudiziari che, in un certo senso, elimina quella “clandestina” intermediazione di altri soggetti come pubblici ministeri e avvocati ed i conseguenti condizionamenti che ne derivano e che inevitabilmente si ripercuotono nell’esercizio del diritto di cronaca[24]. Lo scopo è appunto quello di monitorare nel tempo l’effettivo rispetto da parte delle autorità giudiziarie dei limiti posti alla trascrizione e redazione degli atti processuali, prima di rendere definitiva la pubblicabilità per intero dell’ordinanza di custodia cautelare.
Quella di rendere più libero e trasparente l’accesso dei giornalisti agli atti processuali non più coperti da segreto interno è un’idea già da qualche tempo accreditata presso i maggiori esperti del settore[25] perché «avrebbe quantomeno l’effetto di mettere i “lavoratori dell’informazione” in condizione di esercitare paritariamente il diritto di cronaca, evitando trattamenti di favore, umilianti questue o vane attese»[26]. Per contro però, una possibilità di questo tipo, esigerebbe da parte dei giornalisti una forte presa di coscienza in merito ad un più deontologicamente corretto uso delle stesse informazioni per le quali vige un divieto di pubblicazione integrale. Si tratterebbe, difatti, di un’attività altamente rischiosa perché «se non adeguatamente controbilanciata da effettive regole disciplinari o reputazionali, finisce col legittimare pratiche distorsive del corso della giustizia e, alla lunga, deleterie per la tenuta del sistema giudiziario»[27].
In questo caso, nell’intento originario del legislatore la libera accessibilità dei giornalisti all’ordinanza di custodia cautelare e quindi la non assoggettabilità di quest’ultima ai limiti di pubblicabilità degli altri atti[28], sarebbe giustificata dal fatto che, in base alle nuove regole di redazione degli atti processuali (dalle richieste del pubblico ministero fino ai provvedimenti decisori del giudice), questi non dovrebbero più contenere informazioni penalmente e processualmente irrilevanti. Il riferimento è, in questo senso, all’art. 3 del decreto legislativo, nella parte in cui dispone modifiche agli art. 291 e 292 c.p.p.: la riforma prevede infatti che, sia nella richiesta di provvedimento del pubblico ministero che nell’ordinanza del giudice, siano inseriti soltanto i «brani essenziali» delle comunicazioni e delle conversazioni intercettate; nel caso dell’ordinanza con la quale il giudice decide sulla richiesta del pubblico ministero, l’inserimento dei brani essenziali è previsto quando ciò sia «necessario per l’esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi» posti a carico del soggetto a cui si riferiscono.
Tuttavia, alle precauzioni pensate dal legislatore al fine di consentire la pubblicabilità per intero di un’ordinanza priva di elementi pregiudizievoli, sembra sfuggire l’irrimediabilità ad un’altra preoccupante prassi quale è quella che in molti casi porta il giudice ad abbondare – nella parte dell’ordinanza cautelare inerente le motivazioni che giustificano la gravità della misura – in pesanti giudizi sulle qualità “moralità” dell’indagato, nonché in espressioni molto negative sulla sua personalità che, fino a prova contraria, non possono e non dovrebbero pregiudicare la presunzione di innocenza di quest’ultimo. In questo senso, ai fini processuali si registra nella pratica un largo uso in seno all’ordinanza cautelare di espressioni del tipo «assoluta spregiudicatezza», «cinica disinvoltura», «indole spregevole e malvagia»[29] e così via, proprio al fine di giustificare una limitazione così importante della libertà personale del soggetto che ne viene colpito. Di queste espressioni, come già attualmente accade, potrebbe certamente continuare a farsi un più largo abuso negli articoli di stampa in cui sono fedelmente e puntualmente riportate, nonché spesso enfatizzate per fini che poco hanno a che vedere con quelli processuali.
Come si accennava prima però, il problema della questione non deve tanto porsi sul piano della segretezza o meno dell’ordinanza cautelare quanto piuttosto sul nuovo aspetto del suo contenuto il quale, nel rispetto delle nuove regole, in futuro non dovrebbe più contenere fiumi di intercettazioni o di altri atti d’indagine ma soltanto le conversazioni e le comunicazioni strettamente necessarie a consentire al giudice l’esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi. L’ordinanza cautelare infatti «già ora è atto non segreto – lo è, per così dire, a doppio titolo: in quanto atto non di indagine e non della polizia giudiziaria o del pm – e quindi pubblicabile»[30]. Gli atti coperti dal segreto, ai sensi dell’art. 329 c.p.p., sono infatti «gli atti d’indagine compiuti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero», non essendo in questo senso previsti in tale gruppo gli atti non strettamente qualificabili come d’indagine, quali quelli del g.i.p. di emissione di ordinanze cautelari o di rigetto delle stesse, incidenti probatori o l’interrogatorio di cui all’art. 294 c.p.p., ma anche la denuncia o la medesima iscrizione della notizia di reato che difatti fuoriescono dai limiti di pubblicabilità ex art. 114 c.p.p.[31]. Il nostro codice di procedura penale fa infatti dipendere la pubblicabilità degli atti (art. 114 e 115 c.p.p.) dal regime di segretezza stabilito in altra disposizione (art. 329 c.p.p.), dando pertanto origine ad una disciplina spesso poco chiara e confusionaria che si presta e continua a prestarsi ad interpretazioni sfaccettate e diverse. Si è infatti preferito dare rilevanza all’orientamento restrittivo intorno all’espressione “atti d’indagine”, in coerenza con la lettura che di essi viene fatta all’art. 407 comma 3 c.p.p.[32]. L’ordinanza di custodia cautelare è allora già adesso atto pubblicabile.
Tuttavia, il problema della pubblicabilità dell’ordinanza cautelare – sul quale, tra l’altro, la giurisprudenza è abbastanza carente – deriverebbe dall’esistenza di una disposizione di chiusura dell’art. 114 c.p.p. (il comma 7) secondo la quale «è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto». In coerenza con questa lettura, che conferma come il nostro codice di procedura penale distingua tra “atto in sé” ed il suo “contenuto”, si deve allora ritenere che per gli atti non coperti (e non più coperti) da segreto continui a sussistere un divieto soltanto limitato di pubblicazione destinato a scemare, fino a scomparire del tutto, man mano che, in ragione dello sviluppo del procedimento, viene meno la ragione del divieto stesso, che è quella di preservare la verginità cognitiva e l’imparzialità del giudice dibattimentale (ragione che sta anche alla base della divisione tra fascicolo del pubblico ministero e quello del dibattimento). Dell’ordinanza cautelare, una volta depositata, è allora consentita la pubblicazione del suo contenuto -quindi del riassunto- e non del testo integrale. Nel modulare poi la durata del divieto, i commi successivi dell’art. 114 c.p.p. tengono conto di altri fattori, distinguendo anche a seconda della fase processuale a cui si perviene. Nonostante ciò, la precoce pubblicazione da parte dei giornali di interi stralci del testo dell’ordinanza come di atti d’indagine (sui quali invece vige un divieto più forte di pubblicazione) è ormai da tempo considerata una prassi largamente accettata. In ogni caso, al di là del complicato discrimine tra atto in sé e suo contenuto nonché tra disciplina e prassi, con le nuove disposizioni previste dal decreto sarà consentita la pubblicazione integrale e immediata dell’ordinanza cautelare (senza più incorrere nella “pubblicazione arbitraria” punita dall’art. 684 c.p.), subito dopo però essere stata resa nota e notificata alle parti.
Per rimediare, infine, ai limiti del “sistema” sull’interpretazione del significato da attribuire al termine “atti d’indagine”, il legislatore ha previsto l’inserimento nel novero degli “atti segreti” ex art. 329 comma 1 c.p.p. delle «richieste del pubblico ministero di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste». Il riferimento principale è chiaramente alle richieste di autorizzazione alle operazioni di intercettazioni e al decreto che provvede su di esse, rimanendo però esclusi dall’area della suddetta segretezza la «richiesta di misura cautelare del pm e l’ordinanza che la dispone, anche prima della sua esecuzione o notifica»[33]. Una “falla” di non poca importanza se consideriamo che tale omissione, piuttosto che rispondere con maggiore chiarezza ai precedenti dubbi interpretativi, potrebbe invece aumentarli.
In conclusione, il vero pregiudizio allora non dovrebbe rinvenirsi tanto e soltanto nell’accessibilità dei giornalisti alla ordinanza di custodia cautelare (per la quale vengono agevolate le modalità) e nella sua pubblicabilità (per intero), quanto piuttosto nel rischio che eventuali fughe di notizie possano verificarsi già nella fase cautelare che precede l’esecuzione e la notifica della stessa ordinanza alle parti, ovvero nel caso di indebita diffusione del contenuto della richiesta di misura cautelare che a sua volta, nell’involontario o volontario mancato rispetto delle nuove regole di “riservatezza” da parte del pubblico ministero, contenga informazioni penalmente irrilevanti e mediaticamente appetibili.[34]
Ci si potrebbe chiedere allora, per quale motivo il legislatore non abbia anche previsto una disciplina che regolamenti l’applicazione di precise sanzioni, per esempio disciplinari, a carico delle autorità giudiziarie che disattendano le nuove regole di redazione degli atti – che, ricordiamo, sono funzionali a garantire una maggiore tutela della riservatezza e della reputazione dei soggetti coinvolti – il cui mancato rispetto ab origine, in una fase delicata come quella cautelare, potrebbe già atteggiarsi come principale e irreversibile pregiudizio difficilmente rimediabile in altre sedi. Altro è poi chiedersi chi stabilirà l’efficacia del nuovo modello di elaborazione dell’ordinanza – dalla cui valutazione è stata fatta dipendere l’operatività della norma sulla pubblicabilità – e chi, invece, dovrebbe sostituirsi allo stesso magistrato che abbia operato una errata valutazione sulla “rilevanza” delle intercettazioni riportate negli atti[35].
3.1. L’ordinanza copia-incolla e l’«autonoma valutazione» del g.i.p. – Tra le motivazioni che hanno indotto il legislatore a prevedere una differita di un anno per l’entrata in vigore della norma che riconoscerà il diritto dei giornalisti di ricevere copia dell’ordinanza di custodia cautelare (nonché il diritto alla pubblicazione subito e per intero), vi è certamente la necessità di monitorare l’andamento degli uffici giudiziari chiamati, dal momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n.216/2017, al rispetto delle nuove regole di redazione degli atti processuali ispirati ai criteri della “riservatezza” e della “rilevanza”. Sarà allora sulla base dei risultati di tale attività di controllo, affidata al prossimo esecutivo, che dovrà necessariamente valutarsi l’opportunità o meno di dare corso alle nuove regole di pubblicazione dell’ordinanza cautelare. Secondo il guardasigilli Andrea Orlando, l’auspicio è quello di ottenere «delle ordinanze che non siano più il copia-incolla di oggi, come spesso avviene» ed è per tale motivo che, se questo avverrà, per il Ministro sarà «ragionevole che si possa arrivare alla loro pubblicazione».
Le modifiche previste dalla c.d. riforma Orlando in materia di utilizzazione delle intercettazioni in sede cautelare, offrono un’occasione per soffermarsi su quello che è il contenuto del provvedimento applicativo di una misura limitativa della libertà personale, soprattutto alla luce dei diversi interventi che il legislatore ha promosso e – con tale riforma – continua a promuovere al fine di superare quella prassi applicativa meglio conosciuta come “appiattimento del g.i.p. sulla richiesta del pubblico ministero” che consiste nella redazione di ordinanze nelle quali il giudice si limita a riportare e riproporre il contenuto delle richieste della parte che esercita l’azione penale. Il problema, come ogni fenomeno che si riscontra nella “prassi”, non è di semplice soluzione e può essere affrontato su due fronti: da un lato, quello di evitare che il g.i.p. nel “motivare” il provvedimento cautelare possa pedissequamente, o quasi, ricopiare le testuali informazioni riportate nella richiesta dal pubblico ministero (e magari ricavabili dagli atti di indagine della polizia); dall’altro – ed è il problema a cui si è cercato di rimediare con la legge n. 47 del 2015 – quello di evitare che il g.i.p. rediga un’ordinanza del tutto priva di «autonoma valutazione» dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze di cautela e quindi completamente supina alle tesi accusatorie.
Nel primo caso, il problema si fa ancora più forte qualora il pubblico ministero, a sua volta, abbia mancato di ottemperare correttamente alle prescrizioni contenute nel decreto legislativo che impongono allo stesso di operare una previa selezione del materiale rilevante, al fine di escludere dalla richiesta le conversazioni ritenute irrilevanti e inutilizzabili. Trattandosi, nel caso della misura cautelare, di un atto adottato a sorpresa per il quale è impensabile un contraddittorio anticipato tra le parti ai fini dello stralcio, si fa dunque ancora più forte e attenta l’attività di selezione del pubblico ministero del materiale da porre a base della richiesta di misura cautelare. Pensiamo agli effetti negativi – sia con riguardo alla presunzione d’innocenza dell’indagato che alla c.d. verginità cognitiva del giudice del dibattimento – che potrebbero derivare dalla divulgazione di un’ordinanza che favorisca un’acritica trasposizione nel testo di svariate risultanze investigative rifacendosi, a sua volta, al contenuto della richiesta del pubblico ministero che abbia riportato conversazioni irrilevanti o inutilizzabili o ancora abbia fatto principale riferimento al contenuto dei brogliacci d’ascolto senza operare quell’attività di controllo “eventuale” prevista dal decreto al fine di consentire al dominus delle indagini di ordinare comunque la trascrizione delle conversazioni ritenute a torto irrilevanti dalla polizia (e che, per esempio, potrebbero anche essere favorevoli per l’indagato).
Nel secondo caso invece, con la modifica degli art. 292 e 309 c.p.p. attuata dalla legge n.47 del 2015, si è cercato di porre un importante freno a quella che era ormai diventata una patologica prassi dei g.i.p. di redigere motivazioni non autonome rispetto alle richieste del pubblico ministero; l’intervento del legislatore del 2015 ha voluto far sì che la mancanza della motivazione su uno dei presupposti indicati all’art. 292 cp.p.p. nella sua nuova formulazione, generasse una nullità non più sanabile dal potere integrativo del Tribunale del riesame, limitato ai casi di esistenza della motivazione, seppur insufficiente o incongrua. L’art. 309 c.p.p. al comma 9 dispone infatti che «Il Tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292 c.p.p., delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa», alle quali deve aggiungersi quella inerente l’inadeguatezza di misure meno afflittive di quella carceraria. Un intervento, quest’ultimo, con il quale non si è voluto soltanto completare l’insieme degli elementi strutturali del provvedimento cautelare, ma anzitutto tentare di superare quella prassi che induce il g.i.p. a riproporre nell’ordinanza il contenuto della richiesta della pubblica accusa senza esplicitare le ragioni per le quali incide sulla libertà dell’indagato[36]. Per evitare, dunque, che le misure cautelari siano per così dire scritte “sostanzialmente” dai pubblici ministeri, la legge richiede che il g.i.p. effettui un «concreto vaglio critico della richiesta del p.m., che non può in alcun modo essere puramente recepita»[37]: il giudice allora, sulla base sia degli elementi forniti dall’accusa che da quelli forniti o a favore della difesa, dovrà argomentare con una propria e autonoma critica le ragioni per le quali ritiene o meno fondata la richiesta del pubblico ministero e quindi l’esigenza di provvedere ad una limitazione della libertà del soggetto coinvolto.
Pertanto, si vuole sottolineare l’importanza che un’attenta attività di monitoraggio sull’andamento delle ordinanze – anche nel senso in ultimo descritto – assumerà in ordine alla valutazione sull’opportunità o meno di dare corso alle nuove regole di pubblicazione e accessibilità dell’ordinanza di custodia cautelare. Nonostante infatti l’intervento decisivo del legislatore del 2015 – che, attribuendo al Tribunale del Riesame il potere di dichiarare la nullità del provvedimento privo di autonoma valutazione, ne ha fatto un “giudice dell’ordinanza cautelare” – non sono mancati casi di “clamorose” scarcerazioni disposte per effetto dell’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare priva di autonomo vaglio critico da parte del giudice, soprattuto quando disposta nei confronti di più indagati. In casi del genere infatti, non solo la notizia della imminente scarcerazione è potenzialmente idonea a suscitare una diffusa perdita di fiducia nella magistratura e nella giustizia in generale, ma si ritiene che ciò sia altresì inevitabile se a contribuire a fomentare l’iniziale clamore mediatico sui provvedimenti e l’oggetto dell’indagine sia stata anche la contestuale diffusione sui giornali di tesi prevalentemente colpevoliste, quali sono quelle che emergerebbero dalla stessa ordinanza “appiattita” alle richieste della pubblica accusa.
4. Riflessioni conclusive. – Alla luce delle novità analizzate, la riforma c.d. Orlando ha sicuramente il pregio di intervenire sulla disciplina delle intercettazioni, a distanza di tanti anni dalle precedenti iniziative riformistiche, con l’ambizioso fine di sciogliere i più problematici nodi processuali inerenti un uso delle stesse risultanze investigative che possa al meglio bilanciare le esigenze di segretezza con la libertà di informazione. Tuttavia, anche in considerazione delle diverse critiche mosse indistintamente dalle parti in gioco, l’applicazione in concreto della nuova disciplina stabilita con decreto rischia di far acqua da tutte le parti se, per esempio, non accompagnata da specifiche sanzioni (con effetto deterrente) per i casi di ripetuta violazione delle nuove regole in materia di redazione degli atti processuali. La pubblicazione per intero della stessa ordinanza di custodia cautelare sui giornali rischia di rappresentare un grave pregiudizio se non preceduta dalle apposite precauzioni imposte ab inizio alla polizia giudiziaria e ai magistrati. Si pensi, per fare un esempio emblematico, al triste fatto di cronaca riguardante il suicidio di un padre accusato dalla figlia di violenza sessuale[38]: in quel caso, brani dello stesso tema in classe sul quale la ragazzina aveva scritto le accuse di violenza da parte del padre, sono stati poi riprodotti sull’ordinanza cautelare e pubblicati sui giornali, portando così alla identificazione delle parti coinvolte e della stessa minorenne[39]. A ciò si aggiunga che la riforma in oggetto, mentre mette in chiaro la piena pubblicabilità dell’ordinanza cautelare – dove è inevitabilmente preminente la tesi accusatoria – per contro non ha previsto la sua esplicita estensione anche al provvedimento con il quale il Tribunale del Riesame annulli l’ordinanza di custodia cautelare del g.i.p, ovvero in genere ad atti successivi dai quali potrebbero emergere elementi maggiormente favorevoli alla difesa.
In conclusione, non solo si rinviene la necessità di intervenire in ambito sanzionatorio nel senso dapprima illustrato (che è il frutto di una critica già mossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane), ma oggi più che mai è soprattutto fondamentale avviare in tutto il Paese un costante “dialogo” in cui possano concretamente prendere parte attiva avvocati, magistrati e giornalisti sulle problematiche che riguardano l’informazione giudiziaria ed il delicato rapporto tra procedimento penale e mezzi di comunicazione. Un accesso più libero e trasparente dei giornalisti agli uffici giudiziari e agli atti processuali non coperti da segreto interno rappresenta un obiettivo abbastanza condivisibile se teso a migliorare l’esercizio del diritto di cronaca ed evitare quei “condizionamenti” che inevitabilmente vengono a crearsi nel rapporto già abbastanza controverso tra magistratura e giornalismo (a cui si aggiunge l’inevitabile disparità di trattamento tra giornalisti di serie A- che hanno una via privilegiata di accesso- e giornalisti di serie B). Per contro, è a maggior ragione auspicabile da parte dei giornalisti una maggiore assunzione di responsabilità sul piano deontologico -nonché disciplinare- che possa permettere alla categoria di esercitare quell’indispensabile funzione di controllo sociale sul “potere” e sull’amministrazione della giustizia, senza però tralasciare l’importanza di un’autoregolamentazione che sia anzitutto ispirata al potenziamento di una cultura etica e giuridica.
[1]Decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216, pubblicato l’11 Gennaio 2018 in Gazzetta Ufficiale n°8. Disponibile qui: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/11/18G00002/sg
[2]http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/07/4/17G00116/sg
[3] In questo senso, si rimanda al contributo di G. Cascini, Intercettazioni e privacy: dalle circolari delle Procure di Roma, Torino e Napoli soluzioni utili per il legislatore, in Questione Giustizia, 19 aprile 2016.
[4] Fenomeno che invece viene costantemente denunciato dai giornalisti de Il Dubbio. Secondo il direttore Piero Sansonetti, che in diversi editoriali ha auspicato un ritorno al vero giornalismo d’inchiesta piuttosto che a quello da “trascrizione” degli atti processuali, si dovrebbe lavorare nel senso di «porre fine all’uso delle intercettazioni come strumento della cosiddetta pesca a strascico. Che è quel sistema al quale accennava Luciano Violante (..) Quando denunciava quel malcostume di un pezzo di magistratura che non persegue i reati, cercandone i colpevoli, ma decide prima chi è il colpevole e poi cerca di trovare il reato da attribuirgli». Il Dubbio, Ora fermiamo sputtanopoli, 3 ottobre 2017.
[5] http://www.fnsi.it/intercettazioni-il-cdm-approva-il-decreto-fnsi-sbaglia-chi-crede-di-poter-limitare-il-diritto-di-cronaca
[6] «Noi pensiamo a delle ordinanze che non siano più il copia-incolla di oggi, come spesso avviene. Se questo avverrà e la prassi del copia incolla viene superata mi sembra ragionevole che si possa arrivare alla loro pubblicazione. Se questo non avverrà il governo a quella data valuterà come precedere». Dichiarazione del ministro della Giustizia Andrea Orlando al termine del Cdm sulla riforma delle intercettazioni. ANSA- politica, news 30 dicembre 2017.
[7] Definizione tratta dalla sentenza della Cass. sez. un., 28 maggio-24 settembre 2003, Torcasio, in Guida dir., 2003, 42, 49.
[8] C. Conti, La riservatezza delle intercettazioni nella “delega Orlando”, in Diritto Penale Contemporaneo – Riv. trim., 3/2017, p. 78 ss.
[9] Il decreto prevede infatti l’inserimento nell’art. 268 c.p.p. dei commi 2-bis e 2-ter in attuazione dei criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 84, lett.a), punto 5) della legge delega.
[10] La norma fa più volte riferimento alla “rilevanza”, richiedendo dunque un controllo – da parte del pubblico ministero ma anche della polizia giudiziaria prima – molto più penetrante di quello richiesto per l’ammissione delle prove in dibattimento ex art. 190 c.p.p. (manca infatti l’aggettivo “manifesta”).
[11] Si tratta di una soluzione già presente nelle linee-guida adottate nelle circolari delle Procure delle Repubblica di Roma e Napoli e che differisce invece da quelle della circolare della Procura di Torino: al contrario delle prime due, quest’ultima non prevede delle direttive per la polizia giudiziaria in materia di conversazioni non rilevanti ai fini delle indagini e lesive della privacy; prevede invece che queste ultime siano distrutte, su iniziativa del pubblico ministero, con la procedura di cui all’art. 269 c.p.p. Per approfondire: G. Cascini, Intercettazioni e privacy: dalle circolari delle Procure di Roma, Torino e Napoli soluzioni utili per il legislatore, in Questione Giustizia, 19 aprile 2016.
[12] Nella circolare n.27 della Procura della Repubblica di Roma, 26 novembre 2015, si legge: « La polizia giudiziaria ed il pubblico ministero eviteranno di inserire nelle note informative, nelle richieste e nei provvedimenti, il contenuto di conversazioni manifestamente irrilevanti e manifestamente non pertinenti ai fatti oggetti di indagine». Come si faceva notare in precedenza, la nuova disciplina prevista nel decreto prevede invece un controllo molto più penetrante di quello richiesto per l’ammissione delle prove in dibattimento ex art. 190 c.p.p. (non si parla infatti di “manifesta” irrilevanza).
[13] La procedura è disciplinata nei nuovi articoli 268-bis (Deposito di verbali e registrazioni), 268-ter (Acquisizione al fascicolo delle indagini) e 268-quater (Termini e modalità della decisione del giudice).
[14] Il termine può essere prorogato dal giudice una sola volta per un periodo non superiore a dieci giorni, come disposto dal nuovo art. 268-ter comma 3, e deve essere giustificato dalla complessità del procedimento e del numero delle intercettazioni.
[15] E’ prevista altresì una procedura eventuale in udienza, con la presenza delle parti, nel caso in cui il contenuto delle intercettazioni sia stato utilizzato ai fini dell’emissione di un provvedimento cautelare. In questo caso, infatti, la norma prevede che sia il pubblico ministero a provvedere all’acquisizione nel fascicolo di cui all’art. 373 c.5, ovvero quello delle attività di indagine.
[16] C. Conti, La riservatezza delle intercettazioni nella “delega Orlando”, in Diritto Penale Contemporaneo – Riv. trim., 3/2017, p. 84.
[17] “Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni [266 c.p.p.] dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite”. Art. 103 c. 5 c.p.p.
[18] Si tratta di una delle principali contestazioni mosse dagli avvocati dell’Unione Camere Penali Italiane nei confronti della c.d. riforma Orlando.
[19] Per approfondire consultare la Relazione illustrativa al Decreto a cura del Ministero della Giustizia.
[20] Secondo i giudici di legittimità, come precisato nella stessa sentenza, «Per i reati di criminalità organizzata devono intendersi non solo quelli elencati nell’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, c.p.p., ma anche quelli comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere, ex art. 416 c.p., correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato».
[21] Ibidem.
[22] Nel libro AA.VV., L’Informazione giudiziaria in Italia – Libro bianco sui mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, 2016- curato dagli avvocati dell’Osservatorio sull’Informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali Italiane- vengono riportati alcuni dati interessanti riguardo alle fasi alle fasi del procedimento penale su cui più si concentra l’informazione giudiziaria: 27, 5 % soltanto alla fase degli arresti e ben 36,7 % a quella delle indagini preliminari (svolgimento), a fronte del 4,8 % inerente la fase di chiusura delle indagini, il 13, 2 % quella del dibattimento o rito abbreviato e l’11,2 % quello della sentenza.
[23] Vuol farsi riferimento ad una espressione – «malsana curiosità» – già usata dai giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Bédat c. Svizzera (Corte EDU, Grande Camera, 29 marzo 2016) riguardo alla delicata linea di confine tra esigenze di segretezza e legittimo interesse pubblico alla conoscenza dei particolari dell’oggetto dell’indagine. In Italia, una degenerazione del processo mediatico che contribuisce ad alimentare tale «malsana curiosità» è certamente rappresentata dai numerosi programmi televisivi aventi per oggetto casi di cronaca nera trattati il più delle volte in chiave colpevolista e poco rispettosa delle principali garanzie stabilite dal codice di procedura penale.
[24] Il differente termine previsto per l’entrata in vigore della norma è dovuto ad un «necessario adeguamento tecnico-giuridico: in particolare, dovrà essere diramata un’apposita circolare a tutti gli uffici giudiziari, dovranno essere approntati gli appositi moduli per le richieste». M.A. Calabrò, Huffpost, 18 dicembre 2017.
[25] La proposta è largamente condivisa da Luigi Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Diritto Penale Contemporaneo, n.3/2017, nonché da Armando Spataro (Procuratore della Repubblica di Torino) e dallo stesso Raffaele Cantone (Presidente Autorità Nazionale Anti-Corruzione).
[26] R. Orlandi, La giustizia penale nel gioco degli specchi dell’informazione, in Diritto Penale Contemporaneo, n.3/2017
[27] Ibidem
[28] Il decreto legislativo prevede all’art. 2, comma 1, lettera b) che all’art. 114 comma 2 c.p.p., dopo le parole «dell’udienza preliminare» siano aggiunte le seguenti: «fatta eccezione per l’ordinanza indicata dall’articolo 292».
[29] Importante riflessione degli avvocati della Camera Penale di Brescia riportata sulla pagina Facebook ufficiale della stessa: «Sotto il profilo processuale, infatti, poiché il Giudice deve giustificare l’anticipata privazione della libertà del cittadino indagato, che viene messo in carcere prima che sia celebrato un processo e prima dell’eventuale condanna (e ciò può avvenire solo se si dimostra il concreto e attuale pericolo che il soggetto, se lasciato in libertà, possa commettere nuovi gravi reati), diventa (quasi) obbligato per l’organo giudicante esprimersi negativamente sulla personalità dell’indagato, che deve emergere in tutta la sua negatività, altrimenti non si riuscirebbe a giustificare – appunto – la sussistenza di un concreto e attuale pericolo di reiterazione del reato». Link alla pagina: https://www.facebook.com/CameraPenaleBrescia/
[30] G. Giostra, Nelle intercettazioni la falla dell’ordinanza cautelare, in Il Sole 24 Ore , 29 dicembre 2017.
[31] Sul combinato disposto tra art. 114 e 329 c.p.p. : C. Valentini, Stampa e processo penale: storia di un’evoluzione bloccata, in Processo Penale e Giustizia, Anno I, n. 3 – 2011. Ma anche G. Giostra, Processo Penale e informazione, Milano, 1989.
[32] Sull’argomento anche Giuseppina Ferro, AA.VV., L’Informazione giudiziaria in Italia – Libro bianco sui mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, 2016, pag. 153 e ss.
[33] Sempre G. Giostra, Nelle intercettazioni la falla dell’ordinanza cautelare, in Il Sole 24 Ore , 29 dicembre 2017.
[34] In questo caso, la nuova disciplina prevede che in sede di acquisizione il pm possa chiedere al giudice l’estromissione delle conversazioni di cui si sia apprezzata successivamente l’irrilevanza, oppure una iniziativa d’ufficio da parte di quest’ultimo. Questo meccanismo- reso obbligatorio dalla mancanza, in sede cautelare, di un contraddittorio anticipato sullo stralcio- rischia però di non funzionare se la fuga di notizia precede tal momento.
[35] Su quest’ultimo punto il legittimo dubbio è posto da Donatella Stasio, Intercettazioni/2: riforma equilibrata ma senza risorse rischio boomerang, in Questione Giustizia, 8 gennaio 2018.
[36] Si rinvia alle lettura del contributo di L. Giordano, Sull’annullamento dell’ordinanza cautelare priva dell’autonoma valutazione degli indizi e delle esigenze di cautela, in Diritto Penale Contemporaneo, 14 luglio 2017. Nonché al Dossier del Servizio Studi del Senato sull’A.S. n.1232, Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali, n. 95 gennaio 2014.
[37] L. Semeraro, Non solo taglia e incolla (parte prima), in Questione Giustizia, 29 Ottobre 2015.
[38] http://www.huffingtonpost.it/2018/01/22/papa-mi-stupra-da-sei-mesi-la-confessione-shock-nel-tema-di-italiano_a_23339646/
[39] L’art. 114 comma 6 è diretto ad evitare proprio questo, sancendo infatti: «..È altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possano comunque portare alla identificazione dei suddetti minorenni». Nonostante ciò, il suddetto articolo è quasi sempre disatteso rappresentando uno scarso deterrente per i trasgressori.