[dropcap]Rapporti [/dropcap]tra libertà sessuale e riservatezza e disciplina di cui all’art. 612-ter c.p.
Rivolgendo l’attenzione all’evoluzione della disciplina normativa penalistica in tema di libertà di espressione sessuale del singolo, costantemente innovata e modificata sulla base dello sviluppo sociale collettivo, può agevolmente porsi in luce la progressiva intenzione del legislatore di liberalizzare ed emancipare uno degli aspetti storicamente tra i più controversi, afferenti proprio tale libertà di autodeterminazione.
La libertà di vivere la propria sessualità mediante la realizzazione o produzione di materiale pornografico è stata, come già accennato, progressivamente sancita in ambito legislativo. Tale rilievo è ulteriormente confermato se si considera che ai sensi della vigente disciplina normativa, ognuno, nel rispetto delle regole del buon costume, possa liberamente scegliere di produrre, realizzare o commercializzare materiale pornografico senza incorrere in alcuna sanzione.
Da ultimo, come noto, il d.lgs. 8/2016 ha provveduto alla depenalizzazione di innumerevoli fattispecie penali che precedentemente sanzionavano condotte lesive verso il “pudore e l’onore sessuale” (Libro II, Titolo IX, capo II c.p.); a titolo esemplificativo può menzionarsi l’art. 528 c.p. rubricato “Pubblicizzazioni e spettacoli osceni”, al cui interno residua il solo comma III quale sanzione di carattere penale avverso le condotte ivi indicate. Quanto da ultimo affermato consente dunque di ritenere pacifico il rilievo secondo cui ognuno, nel rispetto delle generali norme di buon costume possa produrre materiale pornografico senza incorrere in alcuna sanzione di carattere penale. Se tale considerazione risulta, come più volte affermato, del tutto acclarata, deve giungersi a conclusioni diametralmente opposte allorquando il soggetto che intenda realizzare o produrre materiale pornografico utilizzi minori di anni diciotto.
Discorrendo la disciplina normativa posta dal legislatore può, infatti, immediatamente rilevarsi l’intento di predisporre tutele maggiormente penetranti e stringenti nei confronti dei minori di anni diciotto. Ragione di siffatta scelta può individuarsi nella necessità di “ipertutelare” il diritto del minore al libero e corretto sviluppo della propria sfera sessuale, in considerazione della sua inferiore, innegabile, maturità, tale da non consentirgli la corretta ponderazione delle proprie scelte in un ambito così rilevante per il successivo sviluppo della propria personalità.
Dunque, è proprio la peculiare rilevanza che tale aspetto riverbera nello sviluppo della personalità del minore a giustificare pienamente il sistema normativo così come congegnato dal legislatore. Sin dall’esame delle scelte legislative in tema di prostituzione può evidenziarsi tale rapporto differenziato congegnato dal legislatore rispetto a soggetti maggiorenni e minorenni. In riferimento ai primi, come noto, risulta infatti prevista specifica sanzione penale volta a punire esclusivamente coloro i quali traggono vantaggio dall’attività di meretricio, non risultando penalmente perseguibile la persona che scelga liberamente di esercitare l’attività di prostituzione. Come già anticipato, è invece ribaltata ogni considerazione nell’ipotesi in cui l’attività di prostituzione coinvolga persona minore di anni diciotto.
L’ordinamento, considerando tale figura come oggetto di tutela rafforzata, in considerazione della mancanza di una vera e propria maturità psicofisica, sanziona, di fatto, ogni condotta, di qualsivoglia natura, concernente l’attività di prostituzione esercitata da un minore di anni diciotto. L’art. 600-bis c.p. (così come da ultimo modificato dalla legge 1 ottobre 2012 n. 172, conseguente alla ratifica della Convenzione di Lanzarote) evidenzia proprio tale intenzione legislativa.
Riguardo la specifica tematica attualmente in esame, può inoltre ribadirsi come l’attività di produzione o realizzazione di materiale pornografico che rispetti le regole del buon costume non sia considerata penalmente rilevante nell’ipotesi in cui riguardi persona che abbia compiuto gli anni diciotto, mentre ove “oggetto” di tale materiale sia persona minorenne dovrà necessariamente rilevarsi l’illiceità penale di qualsivoglia condotta ad esso connessa.
Gli artt. 600-ter e ss. c.p. palesano inequivocabilmente la massima attenzione posta dal legislatore nell’estendere il più possibile l’ambito di tutela apprestata nei confronti del minore, affinché questi possa correttamente sviluppare la propria sessualità.
I recenti interventi della Suprema Corte costituiscono ulteriore esempio di tale progressivo adattamento dell’ordinamento alle condotte che nell’epoca contemporanea possono ledere il bene giuridico tutelato più volte menzionato. Pertanto, alla luce del quadro normativo così definito dal legislatore, rispetto a soggetti che abbiano già raggiunto la maggiore età, è recentemente emersa la sussistenza di un grave e pericoloso vuoto di tutela afferente condotte di particolare allarme sociale, riassunte con il neologismo di matrice anglosassone di “revenge porn”.
Attraverso tale locuzione ci si riferisce in realtà ad ogni condotta che abbia ad oggetto la pubblicazione ovvero la diffusione di immagini a contenuto pornografico, in assenza di esplicito consenso prestato per tale diffusione. Ciò consente dunque di liberare il campo da un equivoco in cui potrebbe incorrersi a seguito di interpretazione letterale della locuzione “revenge porn”.
Come noto, infatti, il termine inglese “revenge” assume il significato di “vendetta”, pertanto ove si considerasse come ricompreso nell’alveo della disciplina penalistica riguardante il fenomeno noto come revenge porn solo la condotta connotata dal carattere della “vendicatività”, si incorrerebbe in un grave errore interpretativo, poiché si considererebbe punita solo uno dei diversi aspetti che la disciplina penalistica mira a reprimere. Non è infatti solo la condotta che sia “vendicativa” ad essere annoverabile tra le condotte di grave allarme sociale cui si è in precedenza fatto riferimento. Affinché non si incorra in tali gravi equivoci risulta dunque maggiormente corretto considerare ogni condotta che riguardi la produzione di materiale pornografico per cui il soggetto ripreso non abbia espressamente autorizzato la diffusione.
Proprio per tale ragione sembrerebbe appropriato rammentare che in ogni circostanza in cui, per ragioni di semplicità ed immediatezza espositiva, sia utilizzato il termine “revenge porn”, intende riferirsi ad un fenomeno ben più ampio, che può definirsi quale “pornografia non consensuale”.
Con la legge del 19 luglio 2019 n. 69 il legislatore ha introdotto all’art. 612-ter c.p. una fattispecie di novo conio rubricata “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”. Tale disciplina normativa (posta all’interno del provvedimento normativo denominato “codice rosso”) si pone quale ulteriore passo in avanti rispetto alla tutela della libertà di autodeterminazione sul piano sessuale del singolo individuo. A seguito di attento esame concernente la struttura della fattispecie da ultimo citata, nonché volgendo l’attenzione alla sua collocazione sistematica contigua rispetto ad altre disposizioni che mirano a tutelare diversi aspetti della più ampia nozione di autodeterminazione del singolo (Sezione III, Titolo XII, Libro II c.p.), emerge chiaramente l’intenzione legislativa di tutelare non solo la libertà sessuale del singolo individuo, bensì anche la riservatezza dello stesso.
Da ciò deriva la natura senza dubbio plurioffensiva della complessa fattispecie posta dal legislatore all’interno dell’art. 612-ter c.p.. Come in precedenza esaminato, la formulazione testuale congegnata dal legislatore risulta mirata alla repressione di innumerevoli ed eterogenee condotte che possono ricondursi all’ambito del c.d. revenge porn (inteso in senso lato come precisato). L’intera disciplina sostanziale è posta dal legislatore all’interno dei primi due commi dell’art. 612-ter c.p. secondo cui “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000.
La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”.
Come dunque facilmente desumibile il legislatore ha così inteso rendere penalmente rilevante pressoché ogni condotta che possa astrattamente collegarsi al fenomeno del c.d. revenge porn. È per tale ragione sanzionabile sia l’azione volta a divulgare il contenuto pornografico presso un’indistinta rete di destinatari (si pensi all’ipotesi di pubblicazione di tali contenuti su social network), sia il caso in cui tali contenuti siano indirizzati a soggetti ben individuati (si pensi alla condivisione mediante applicazioni di messaggistica istantanea).
Sin dalla prima lettura del complesso tessuto normativo emerge inoltre l’intenzione legislativa di punire mediante sanzioni del tutto eguali sia la condotta del c.d. “primo distributore” che la condotta del c.d. “secondo distributore”.
Mediante la locuzione “primo distributore” si fa riferimento al soggetto che per primo realizza ovvero sottrae il contenuto a carattere pornografico. Secondo distributore è invece il soggetto che, ricevendo dal primo distributore il contenuto a carattere pornografico contribuisce a renderlo “virale”, apportando, secondo la logica palesata dal legislatore, una lesione sostanzialmente eguale al bene giuridico tutelato rispetto a quella apportata dal primo distributore.
Come più volte precisato l’intenzione del legislatore era senza dubbio volta a colpire condotte concretamente eterogenee e differenti tra sé, ma considerate parimenti aggressive rispetto al bene giuridico tutelato, individuato nella libertà di autodeterminazione del singolo nonché nel suo diritto alla riservatezza. Pertanto, dalla formulazione di cui al primo comma dell’articolo citato, emerge la descrizione della condotta tipica in termini particolarmente ampi. Non è necessario che il materiale a contenuto pornografico sia realizzato mediante l’utilizzo di particolari supporti, né tantomeno risulta necessario che alcuna delle condotte ivi descritte debba realizzarsi mediante peculiari modalità, così come la diffusione di detto materiale non è necessario avvenga mediante specifici supporti. A tal proposito può precisarsi che l’utilizzo di sistemi informatici, in considerazione della maggiore capillarità e dunque della maggiore efficacia di veicolazione delle immagini rese virali, determina il sorgere di una specifica circostanza aggravante disciplinata dal comma III dell’art. 612-ter c.p.. Ai fini della punibilità, dunque, non risulta affatto essenziale che tale diffusione avvenga, come detto, mediante particolari sistemi di comunicazione.
Il secondo comma dell’art. 612-ter c.p. risulta essere una sostanziale riproduzione del primo, soprattutto per quanto concerne l’aspetto materiale del fatto punibile; unico elemento di divergenza risulta individuabile nella premessa posta dal legislatore a fondamento della condotta tipica. Se, infatti, nella casistica rientrante nel primo comma il distributore è il soggetto che ha realizzato ovvero sottratto direttamente dalla vittima il materiale pornografico, nelle ipotesi di cui al secondo comma, l’autore materiale del fatto ha ricevuto (attraverso qualunque modalità) da altri il materiale poi successivamente divulgato.
L’evidente ampia formulazione congegnata dal legislatore determina la necessità di indagare peculiari ipotesi applicative, la cui verificazione sul piano concreto non è così difficilmente ipotizzabile. Considerando il tenore letterale delle locuzioni utilizzate per descrivere la condotta materiale, sembrerebbe non configurabile l’ipotesi di reato di cui all’art. 612-ter c.p. allorquando non vi sia stata cessione a terzi del materiale acquisito dal “distributore”.
Così opinando, dunque, ci si interroga circa l’ammissibilità della fattispecie di reato allorquando l’autore del fatto, una volta acquisita l’immagine o il video, si sia limitato a mostrarne il contenuto a terzi, senza tuttavia cederne a questi il possesso materiale. La soluzione a tale quesito che sembrerebbe in linea con la ratio di tutela del diritto di autodeterminazione e di riservatezza della vittima di “revenge porn”, induce a ritenere che solo nel caso in cui la condotta materiale possa integrare gli estremi della “pubblicazione” del contenuto, potrà considerarsi integrata la fattispecie tipica di reato. Per siffatta ragione, esibire ad un unico individuo tale immagine o video potrebbe difficilmente determinare l’applicazione della sanzione prevista all’art. 612-ter c.p.. D’altro canto, invece, l’esibizione offerta ad un pubblico maggiormente vasto (si pensi ad es. alla proiezione del video ad un particolare evento), in maniera tale da ledere il bene giuridico tutelato dalla norma, sembrerebbe senza dubbio sussumibile nell’alveo della nozione di pubblicazione o diffusione di cui all’art. 612-ter c.p..
Ulteriore questione attinente la materialità del fatto su cui risulta necessario soffermarsi concerne la nozione di contenuto “sessualmente esplicito”; caratteristica che deve necessariamente essere posseduta dall’immagine o video ai fini della configurabilità della fattispecie di reato. Al fine di circoscrivere l’ambito di tale locuzione entro l’alveo della sufficiente determinatezza della fattispecie, occorre fare riferimento al significato offerto a tale nozione dalla giurisprudenza, nell’interpretazione di fattispecie di reato affini.
Sembrerebbe a tal proposito preferibile considerare come “sessualmente esplicita” non solo l’immagine che contenga nudità di organi genitali ovvero riproduzione di rapporti sessuali, bensì qualunque tipo di contenuto che, in ragione delle peculiari circostanze o modalità in cui è realizzato, risulti idoneo a stimolare l’altrui eccitazione sessuale.
Secondo un’interpretazione dottrinaria, inoltre, la fattispecie attualmente in esame richiederebbe implicitamente un’ulteriore requisito, individuato nella specifica riconducibilità dell’immagine sessualmente esplicita ad un soggetto determinato. In assenza di diretta riconducibilità dell’immagine alla vittima di revenge porn, non potrebbe ravvisarsi alcuna lesione del diritto di autodeterminazione e di riservatezza. L’indirizzo dottrinario da ultimo evidenziato ritiene che la procedibilità a querela di parte, paleserebbe ulteriormente la presenza di tale requisito implicitamente necessario.
Sebbene tale rilievo potrebbe sembrare particolarmente persuasivo, nella prassi sembrerebbe difficilmente ipotizzabile l’avvio di un procedimento penale a carico di taluno in assenza di determinabilità circa l’identità della vittima, in considerazione proprio della procedibilità a querela prevista dall’ultimo comma dell’art. 612-ter c.p..
L’atto di querela, pur in presenza di immagini non particolarmente nitide ovvero in cui siano mancanti segni di riconoscimento inequivocabile, determinerebbe necessariamente l’implicita ricognizione della propria persona nell’ambito dell’immagine o video diffuso. Inoltre deve rilevarsi la circostanza secondo cui l’ultimo comma dell’art. 612-ter c.p. prevede la procedibilità d’ufficio per alcune delle ipotesi aggravate, in considerazione della particolare gravità dell’offesa. Per tale ragione, sembra preferibile ovviare alla possibile limitazione della portata della fattispecie in esame in cui si incorrerebbe, ove si ritenesse implicitamente necessario accertare tale ulteriore presupposto, soprattutto al fine di non creare possibili vuoti di tutela rispetto ai gravi fatti per cui è prevista la procedibilità d’ufficio.
Alla luce delle considerazioni così come evidenziate, può dunque comprendersi la consistente ampiezza del dato normativo introdotto dal legislatore.
La circostanza secondo cui è stata congegnata una fattispecie incriminatrice dai confini particolarmente elastici ed ampi non può, tuttavia, non conformarsi al principio di ragionevolezza, in ragione della cornice edittale senza dubbio severa prevista dall’art. 612-ter c.p..
La questione che avrebbe potuto generare maggiori profili di problematicità rispetto al principio di ragionevolezza è individuabile soprattutto nell’equiparazione sul piano sanzionatorio delle condotte di cui al secondo comma rispetto a quelle di cui al primo comma. È infatti innegabile che sul piano materiale siano le prime ad essere ben più offensive nei confronti della vittima del reato rispetto alle condotte previste all’interno del più volte citato secondo comma.
Presumibilmente, proprio al fine di ripianare tale disparità tra primo e secondo comma dell’art. 612-ter c.p. sul piano dell’offensività materiale, il legislatore ha predisposto la necessità che le condotte di cui al secondo comma siano accompagnate da un nesso di adesione psicologica tale da renderle parimenti gravi ed offensive rispetto a quelle di cui al primo comma.
Discorrendo, dunque, le disposizioni normative di cui al primo e secondo comma può realizzarsi che il medesimo trattamento sanzionatorio sia ricondotto a ragionevolezza grazie al ricorso alla fattispecie di dolo specifico per le condotte di cui al secondo comma, a differenza di quelle riconducibili al primo comma che senza dubbio possono considerarsi sussistenti e punibili in presenza di dolo generico. Esaminando l’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 612-ter c.p. può agevolmente evidenziarsi che ai fini della punibilità del fatto tipico è richiesta la sussistenza del “fine di recare nocumento” (alla vittima del reato).
La ratio che soggiace dietro siffatta scelta normativa può così individuarsi proprio nella diversa offensività sul piano materiale esercitata dalle condotte poste in essere dal “primo distributore” rispetto a quelle poste in essere dal “secondo distributore”. È infatti indubbio che la condotta di chi divulghi contenuti a carattere pornografico dopo averli realizzati o sottratti presenta un carattere di maggiore afflittività rispetto al bene giuridico tutelato. Nella prassi è tra l’altro innegabile che il c.d. “primo distributore” sia frequentemente legato da un rapporto di maggiore vicinanza rispetto alla vittima del reato, potendo così direttamente attingere al materiale a carattere pornografico successivamente diffuso. Il “secondo distributore”, invece, è soggetto che offende il bene giuridico tutelato poiché contribuisce al rendere virale il contenuto ottenuto dal primo distributore, sicché è insito in tale circostanza il diverso rapporto che intercorre con la vittima del reato di cui all’art. 612-ter c.p.
È tuttavia opportuno precisare che la condotta posta in essere dal secondo distributore, pur se ontologicamente meno offensiva rispetto al bene giuridico tutelato, contribuisce ugualmente alla propagazione dell’effetto lesivo innescato dal primo distributore. Tale considerazione, derivante soprattutto dalle esperienze legislative comunitarie ed extracomunitarie cui l’ordinamento nazionale ha avuto la possibilità di attingere, unitamente con la scelta di predisporre la necessità di procedere all’accertamento della sussistenza del dolo specifico, che imprime senza dubbio maggiore gravità alla relativa condotta, ha dunque determinato la scelta di equiparare sul piano sanzionatorio le diverse posizioni dei “distributori”.
Circa l’accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo, dunque, in conclusione, se l’ipotesi di cui al primo comma fa riferimento alla sussistenza di “semplice” dolo generico, ai fini della punibilità ai sensi del secondo comma dell’art. 612-ter c.p. è richiesto l’accertamento della sussistenza del fine di arrecare nocumento (di qualsiasi genere) alla vittima del reato.
Alla luce di quanto più volte sottolineato, dunque, se esigenze di ragionevolezza hanno indotto il legislatore all’introduzione del requisito del dolo specifico nei confronti del c.d. “secondo distributore”, d’altro canto non può sottacersi che potrebbe proprio annidarsi in tale elemento un pericoloso vulnus di tutela per le vittime di revenge porn.
L’esperienza contemporanea ha infatti sottolineato che non infrequentemente si assiste a “condivisioni” di file multimediali ricevuti da terzi, in assenza di specifico intento nocivo nei confronti della vittima. Talvolta tale diffusione risulta essersi verificata per divertimento ovvero in altre ipotesi addirittura per noia.
Tale rilievo, senza dubbio non trascurabile, pone dunque in luce il rischio cui in precedenza si faceva riferimento, poiché in siffatte ipotesi, ove non si riesca a dimostrare il fine nocivo, non potrebbe procedersi ad applicazione della relativa sanzione, lasciando impunite condotte che sul piano materiale risultano avere, probabilmente, la maggiore portata lesiva rispetto alla personalità della vittima. È innegabile infatti che la “viralizzazione” del contenuto costituisce la vera e propria lesione della sfera personale della vittima, essendo ben noto che la capillarità e quasi pressoché impossibilità di controllare i flussi di informazioni diffusi mediante l’impiego dei moderni mezzi di comunicazione, generano i maggiori effetti negativi.
Se, dunque, in ottica punitiva risulta senza dubbio degna di nota la scelta legislativa di equiparare sul piano sanzionatorio ogni condotta di cui all’art. 612-ter c.p., d’altro canto l’inserimento nell’ambito delle condotte di cui al secondo comma del requisito del dolo specifico, potrebbe neutralizzare la portata applicativa dell’incriminazione di nuovo conio rispetto a numerose ipotesi che risultano essere comunque socialmente allarmanti e pericolose rispetto al bene giuridico tutelato.
Ulteriore, fondamentale, riferimento afferisce infine la necessità che il reo abbia la consapevolezza del rifiuto alla divulgazione del contenuto a carattere pornografico. Fulcro dell’intera fattispecie è rappresentato proprio da tale elemento normativo. Infatti, come in precedenza sottolineato, l’ordinamento non vieta a persone che abbiano compiuti gli anni diciotto di divulgare proprie immagini o video a carattere pornografico, risultando tale scelta libera espressione della propria sfera sessuale, sempre che siano rispettate le norme di carattere generale del buon costume. Per tale ragione proprio l’elemento della contrarietà dell’interessato alla diffusione di dette immagini risulta essere discrimine tra condotte diffusive penalmente rilevanti ed irrilevanti. In presenza di consenso esplicito alla diffusione alcuna delle condotte descritte all’interno dell’art. 612-ter c.p. risulterà essere penalmente perseguibile.
Quanto da ultimo affermato, dunque, disvela la fondamentale rilevanza che assume l’accertamento della sussistenza ovvero insussistenza del consenso della eventuale vittima del reato di cui all’art. 612-ter c.p..
Questione di particolare rilevanza pratica, dunque, afferisce la necessità di consenso esplicito alla diffusione dell’immagine ovvero sufficienza della sussistenza di consenso c.d. presunto, desumibile cioè dal comportamento della eventuale vittima nonché da altre circostanze contingenti rispetto allo sviluppo della condotta materiale. A tal proposito la ricostruzione che sembra preferibile attribuisce rilevanza giuridica esclusivamente al consenso alla diffusione esplicitamente prestato. Così come più volte affermato dalla stessa giurisprudenza in ipotesi che riguardano il reato di cui all’art. 609-bis c.p.. Più volte si è infatti sottolineato in tema di violenza sessuale che il consenso a tali atti debba essere esplicito e attuale, non potendo in alcun modo presumersi e dovendo inoltre persistere sino alla conclusione dell’intera sequenza di atti. Considerando che la disciplina introdotta dall’art. 612-ter c.p. tutela aspetti parzialmente differenti ma pur sempre strettamente connessi alla sfera di autodeterminazione sessuale dell’interessato, nonché il suo diritto alla riservatezza, deve preferirsi la medesima rigidità in tema di consenso espresso ormai ben nota in considerazione delle innumerevoli pronunce in tema di violenza sessuale.
Aderendo a tale ricostruzione, dunque, nell’ipotesi in cui sia assente il consenso esplicito da parte dell’interessato alla divulgazione o pubblicizzazione delle proprie immagini o video a carattere sessualmente esplicito, la condotta eventualmente posta in essere dal primo o dal secondo distributore risulterà pienamente sussumibile nell’alveo della disciplina di cui all’art. 612-ter c.p..
Il terzo ed il quarto comma dell’art. 612-ter c.p., provvedono inoltre alla positivizzazione di peculiari fattispecie aggravate. Le disposizioni da ultimo menzionate sembrerebbero ad onor del vero, replicare le ipotesi aggravate già note ed inserite dal legislatore nell’ambito della disciplina di cui all’art. 612-bis c.p. in tema di stalking. Risulta pertanto presumibile che il legislatore abbia ripreso tali disposizioni proprio osservando il citato art. 612-bis c.p.
Particolare attenzione merita tuttavia l’unica modifica apportata rispetto alle fattispecie aggravate di cui all’art. 612-bis c.p.. Quest’ultimo, al terzo comma, prevede infatti espressamente la punibilità in forma aggravata allorquando i fatti ivi previsti siano commessi a danno di minore di anni diciotto. Sebbene tutte le ipotesi aggravate siano state pedissequamente inserite all’interno dell’art. 612-ter c.p., quest’ultima non risulta essere allo stesso modo riprodotta. Il quarto comma dell’art. 612-ter c.p. prevede infatti che la pena è aumentata sino alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica. Sebbene entro tale locuzione potrebbe essere sussunta la figura del minore di anni diciotto sembrerebbe preferibile accordare tutela a quest’ultimo mediante l’applicazione di altra disposizione normativa, a questi espressamente rivolta. Come già sottolineato, infatti, il terzo comma dell’art. 600-ter c.p., così come interpretato dalla Suprema Corte, offrirebbe già tutela rispetto alla posizione del minore leso nel proprio diritto di autodeterminazione a seguito di viralizzazione di immagini a contenuto pornografico in cui sia ritratto. Proprio la ricostruzione di tale fattispecie ai sensi dell’art. 600-ter terzo comma c.p. determinerebbe l’applicabilità di tale ultima fattispecie in luogo della “più generale” disciplina di cui all’art. 612-ter c.p..
A seguito di attento esame delle due disposizioni normative, sembrerebbe necessario propendere per l’applicazione dell’art. 600-ter c.p. in ragione della sua evidente specialità rispetto alla “generale” disposizione di cui all’art. 612-ter c.p.. Elemento indiziante di particolare rilevanza risulta immediatamente rinvenibile proprio nella rubrica della fattispecie di cui all’art. 600-ter c.p.; inoltre procedendo all’esame della sezione in cui questo è inserito, può agevolmente desumersi che sono ivi inserite le disposizioni poste a tutela dell’interesse al libero sviluppo della propria personalità sessuale da parte del minore.
Sulla base di quanto da ultimo evidenziato, dunque, sembrerebbe preferibile concludere per l’applicabilità dell’ipotesi di cui all’art. 600-ter c.p. terzo comma all’ipotesi di minore vittima di diffusione di proprie immagini a carattere sessuale, in luogo della “più generale” ipotesi di nuovo conio di cui all’art. 612-ter c.p..
Deve ritenersi, dunque, che l’intervento normativo posto in essere mediante la c.d. legge codice rosso ha senza dubbio rappresentato un ulteriore passo in avanti rispetto alla tutela della collettività da condotte di particolare allarme sociale che sempre più si diffondono nell’era contemporanea. Tuttavia, se da un lato il legislatore dimostra di aver profuso un importante sforzo in tal senso, sembrerebbero essere state tralasciati ulteriori aspetti connessi al fenomeno del revenge porn altrettanto rilevanti. Esempio di quanto da ultimo affermato potrebbe individuarsi in una più moderna disciplina in tema di responsabilità dell’Internet Service Provider. Come noto, infatti, secondo la normativa attualmente vigente non sembrerebbe possibile rinvenire alcuna fonte di responsabilità degli ISP in riferimento alle condotte di revenge porn stante l’assenza di uno specifico obbligo di controllo sull’afflusso di dati inseriti all’interno della rete informatica. Risulta infatti evidente come la rete informatica sia oggigiorno il principale veicolo di trasmissione di tale tipologia di immagini o video. Stimolare un più capillare intervento normativo non deve tuttavia tradursi in una eguale ed indiscriminata criminalizzazione di qualsivoglia condotta connessa con il fenomeno del revenge porn. Ciò che è auspicabile è un intervento differenziato sul piano sanzionatorio rispetto alle diverse posizioni assunte dai responsabili della “viralizzazione” di contenuti così lesivi per la sfera personale dell’interessato. Dunque, in conclusione, pur considerando nel complesso positivo l’intervento legislativo esaminato, al fine di apprestare tutela piena ed efficace rispetto al bene giuridico tutelato, sembrerebbe utile prospettare un ulteriore procedimento di responsabilizzazione di tutti i soggetti che eventualmente possano a diverso titolo partecipare alla realizzazione dell’evento lesivo.
Note
[1] cfr. Gian Marco Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di internet. L’art. 612-ter e l’incriminazione della pornografia non consensuale, in Riv. Italiana di Dir. e Proc. Pen., fasc. 4 dicembre 2019ý
[2] ícfr. legge Merlin 20 febbraio 1958 n.75, che nell’abrogare la previgente disciplina in tema di prostituzione provvedeva a dichiarare illecita ogni forma di ingerenza ovvero di sfruttamento della prostituzione altrui; pertanto ad essere criminalizzata non era l’attività di prostituzione in sé considerata. La stessa legge Merlin, tuttavia, non considerava quale autonoma fattispecie la prostituzione minorile; solo con la legge 3 agosto 1998, n. 269 venivano introdotte fattispecie ad hoc volte a criminalizzare ogni forma di prostituzione minorile, determinando, così l’illiceità di qualsiasi condotta ad essa connessa al fine di predisporre tutela rafforzata nei confronti dei minori
[3]ícfr. tale rilievo con quanto in precedenza affermato circa la liberalizzazione dell’attività di produzione di materiale pornografico. Anche per quanto concerne l’attività di prostituzione deve sempre tenersi presente quanto detto rispetto alla contrarietà di detta attività alle regole di pudore e del buon costume
[4]ícfr. Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, stipulata a Lanzarote il 25 ottobre 2007ý
[5]ícfr. Cassazione Sez. Un., 31 maggio 2018, n. 51815 e Cassazione penale Sez. III, 21 novembre 2019 dep. 12 febbraio 2020, n. 5522; la prima delle citate pronunce ha precisato la mancanza di necessità di pericolo di diffusione del contenuto pedopornografico ai fini della configurabilità dell’ipotesi di reato di cui all’art. 600-ter c.p.; la seconda, superando il precedente costante indirizzo giurisprudenziale, ha invece chiarito che anche il c.d. “selfie” rientra nell’ambito di punibilità dell’art. 600-ter comma IV c.p.ý
[6]Si precisa, tuttavia, che prima dell’entrata in vigore dell’art. 612-ter c.p. oggetto della presente trattazione, la giurisprudenza tendeva a ricondurre dette condotte nell’ambito di altre fattispecie incriminartici, la cui efficacia risultava del tutto inidonea alla tutela dei rilevanti interessi in rilievo
[7]cfr. Gian Marco Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di internet. L’art. 612-ter c.p. e l’incriminazione della pornografia non consensuale, in Riv. Italiana Dir. e Proc. Pen., fasc. 4, dicembre 2019
[8]Il dettato normativo è infatti esplicito nel ritenere punibile esclusivamente la pubblicazione ovvero la cessione a terzi del materiale pornografico, a differenza di altre fattispecie incriminatrici che invece puniscono la semplice rivelazione
[9]cfr. con il contenuto dell’art. 615-bis c.p. che, a differenza dell’art. 612-ter c.p., espressamente punisce chi “rivela” le immagini oggetto di tale fattispecie di reato; come altrettanto sostenuto nel contributo dottrinario citato in nota 7
[10]cfr. ex multis Cass. sez. III, 4 ottobre 2006, n. 33464 che, pur pronunciandosi in materia di atti sessuali ai fini dell’esame della fattispecie di cui all’art. 609-bis c.p., esprime la nozione secondo cui ogni atto che stimoli la concupiscenza sessuale dell’autore del fatto illecito può considerarsi alla stregua di atto sessuale. Sembra dunque opportuno anche nell’ipotesi attualmente in esame seguire il medesimo criterio interpretativo
[11] cfr. Gian Marco Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di internet. L’art. 612-ter e l’incriminazione della pornografia non consensuale, in Riv. Italiana di Dir. e Proc. Pen., fasc. 4, dicembre 2019
[12] a tal proposito può infatti precisarsi che paesi come Germania (nel 2017), Spagna (nel 2015), Stati Uniti ed innumerevoli altri Stati, avevano provveduto in tempi ben più remoti all’adozione di siffatta tipologia di fattispecie incriminatrici
[13] cfr. Gian Marco Caletti, Libertà e riservatezza sessuale all’epoca di iinternet. L’art. 612-ter e l’incriminazione della pornografia non consensuale, in Riv. Italiana di Dir. e Proc. Pen., fasc. 4, dicembre 2019
[14] cfr. ex multis Cass. Pen. Sez. III, 3 aprile 2013, n. 15334
[15] cfr. Cass. Penale sez. III, 17 dicembre 2013, dep. 3 febbraio 2014, n. 5107, secondo cui l’unica ipotesi di responsabilità dell’ISP per omessa rimozione di file illecitamente pubblicati online è ipotizzabile nel caso in cui al provider sia imposta la rimozione del file, stante l’acclarata illiceità del contenuto, valutata dall’Autorità Giurisdizionale all’interno di un proprio provvedimento ovvero dall’Autorità Amministrativa
Foto copertina: Immagine web. Interris
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