L’accertamento dell’idoneità preventiva del modello 231 alla luce delle recenti novità giurisprudenziali. Il caso Impregilo.
A cura di Claudia Chiauzzi
I modelli di organizzazione, gestione e controllo con l’emanazione del d.lgs. n.231/2001 hanno assunto un ruolo centrale sia sul versante dell’attenuazione sanzionatoria sia su quello inerente al criterio imputativo della responsabilità dell’ente. A causa però della mancata previsione di criteri certi ai fini del giudizio d’idoneità del modello che la società adotta, si è resa necessaria la ricerca di correttivi.
Con sentenza n. 23401 dell’11 novembre 2021, dopo 19 anni dal suo inizio, la Cassazione pone fine al Caso Impregilo. Si tratta di un caso emblematico che, oltre ad offrire diversi spunti nell’alveo della colpa da organizzazione su alcune delle questioni più dibattute del d.lgs. 231/2001, mostra le difficoltà che affronta l’organismo giudiziario nel valutare in concreto l’adeguatezza e l’idoneità di un modello di organizzazione, controllo e gestione.
Sono essenzialmente tre i profili su cui la Corte si è pronunciata:
- L’idoneità preventiva del modello di organizzazione e di gestione adottato dalla Società ai fini della prevenzione dei reati;
- L’autonomia dell’Organismo di Vigilanza (di seguito, anche, ODV) e dei suoi poteri in relazione agli atti e all’attività del Presidente del Consiglio di Amministrazione e dell’Amministratore delegato;
- L’elusione fraudolenta del modello organizzativo.
Entrando nel merito del primo profilo, la Cassazione sottolinea come la responsabilità degli enti per i reati commessi da “soggetti in posizione apicale” sia costruita in maniera peculiare.
L’art. 6 del d.lgs. 231/2001, rubricato “Soggetti in posizione apicale e modelli di organizzazione dell’ente”, difatti, stabilisce che l’ente non sia responsabile nel caso in cui venga provata l’adozione e l’efficace attuazione da parte del dirigente, prima della commissione del fatto, dei modelli di gestione e organizzazione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
L’articolo 7 invece, richiamando l’articolo 5 c. 1 lett. b), si pronuncia sulla responsabilità per i reati commessi da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti che rivestono funzioni di rappresentanza, di direzione o di amministrazione a vantaggio o nell’interesse dell’ente.
Sulla base del dettato soprarichiamato, il principio per il fondamento della responsabilità dell’ente risiede nella “colpa di organizzazione”: è infatti proprio il deficit organizzativo a consentire l’imputazione all’ente dell’illecito penale.
Uno dei punti più importanti riguarda l’onere della prova. L’articolo 6, seguendo l’interpretazione fornita, non prevederebbe alcuna inversione dell’onere probatorio (alcuna probatio diabolica) e sarebbe quindi l’accusa a dover dimostrare l’esistenza dell’illecito penale realizzato.
Da ciò consegue la puntuale individuazione dei canali che collegano teleologicamente l’azione del soggetto all’interesse dell’ente. Quest’ultimo risponderà solo nel caso in cui l’organizzazione non si sia dimostrata adeguata a causa dell’inosservanza delle regole cautelari previste dalle linee dell’articolo 6, non costituendo elemento idoneo per dimostrare l’inadeguatezza del sistema l’esclusiva realizzazione del reato.
Quindi, per determinare la responsabilità amministrativa da reato dell’ente non è sufficiente l’individuazione di un punto di debolezza nel sistema ma occorre anche l’esistenza di un nesso causale tra la problematica e la commissione del reato presupposto.
Si rileva, inoltre, l’impossibilità di punire l’ente per responsabilità oggettiva, ritenendo il reato sussistente nel solo caso in cui il sistema penale di prevenzione creato possa essere aggirato fraudolentemente.
Per valutare correttamente il modello deve essere considerata anche l’imputazione del risultato colposo, necessitando una corrispondenza causale tra la violazione della regola cautelare e la produzione del risultato offensivo. In altre parole, la società risponderà laddove la commissione di un reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente sia stato determinato dall’inosservanza di una regola cautelare che esso stesso abbia volutamente omesso di auto-imputarsi nel modello realizzato.
Il giudice è chiamato ad una valutazione sul modello in concreto che non sia limitata alla verifica dell’idoneità dello stesso nel prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Il modello organizzativo non deve essere testato, quindi, in relazione alle regole cautelari che risultano violate e che comportano il rischio di reiterazione dei reati della stessa specie. Affinché la valutazione sia adeguata ci si dovrà dunque collocare al momento in cui il reato è stato commesso, verificandone la prevedibilità ed evitabilità secondo il sistema valutativo-epistemico della prognosi postuma.
Altro punto importante è quello inerente al parametro su cui calibrare il giudizio di adeguatezza del modello organizzativo. Esso non è esclusivamente quello delle linee-guida elaborate dagli enti rappresentativi di categoria, ma risiede nel regolamento interno di cui si dota la società, il quale deve essere considerato conforme e adeguato rispetto alle specificità della stessa. L’ adeguatezza del sistema va valutata collocandosi nel momento in cui il reato è stato commesso, ovvero al momento in cui tali prescrizioni furono elaborate.
In merito al secondo profilo la Corte, partendo dalla premessa logico giuridica presente all’interno dell’articolo 6, fornisce un’interpretazione concreta ed efficacie afferente all’autonomia dell’ODV. La questione ricadeva proprio su cosa si intendesse per autonomi poteri di controllo, in quanto l’organismo è comunque posto alle dirette dipendenze degli organi di vertice della società.
Seguendo l’interpretazione della Corte il Legislatore avrebbe scelto di tenere distinta la responsabilità dell’ente da quella dei suoi vertici, riconducendo alla prima solo le condotte causalmente ricollegabili ad una “colpa di organizzazione”.
La colpa di organizzazione, quindi, costituisce anche il metro dell’ingerenza consentita all’organismo di vigilanza sugli atti apicali traducendosi nel contenuto necessario del modello affinché lo stesso possa reputarsi idoneo.
L’ODV ha, infatti, il compito di individuare e segnalare le criticità del modello e della sua attuazione senza avere alcuna responsabilità di gestione. In ragione di questo, un modello organizzativo che prevedesse l’obbligatorietà di un preventivo controllo su qualsiasi atto dell’organo rappresentativo e degli amministratori dell’ente non sarebbe conciliabile, in quanto trasformerebbe l’ODV in un supervisore dell’attività degli organi direttivi e di indirizzo della società.
Riguardo invece all’ultimo profilo inerente all’eventuale elusione fraudolenta del modello ad opera degli organi di vertice, la Corte analizza il concetto di “elusione” previsto al c. 1 lett. c) dell’art. 6, il quale implicherebbe necessariamente una condotta munita di connotazione decettiva, consistente nel sottrarsi con malizia ad un obbligo o nell’aggiramento di un vincolo rappresentato dalle prescrizioni del modello. L’elusione deve essere identificata in una condotta ingannevole, falsificatrice, obliqua e subdola, tale da eludere con l’inganno il diligente rispetto delle regole da parte dell’ente.
L’esonero dell’ente dalla responsabilità da reato può trovare, secondo tale interpretazione, una ragione giustificativa solo laddove la condotta dell’organo apicale rappresenti una dissociazione dall’ente e dalla politica d’impresa. In tale circostanza il reato costituirebbe il prodotto di una scelta personale ed autonoma della persona fisica realizzata non per inefficienze organizzative ma conseguita attraverso una condotta ingannevole. Siffatta efficacia decettiva deve dispiegarsi verso gli organi e l’apparato di controllo dello stesso. La responsabilità va quindi valutata in riferimento alle prescrizioni del modello organizzativo e non in base al precetto penale.
Concludendo, il caso Impregilo è un leading case tratteggiato da caratteri garantistici tesi a rendere praticabile una norma (l’art. 6) che a lungo è stata al centro di dibattiti inerenti all’interpretazione: (i) del paradigma imputativo del fatto-reato degli apicali; (ii) dell’autonomia dell’Organismo di Vigilanza; (iii) della valutazione dell’idoneità del modello organizzativo e della sua estensione; (iv) del ruolo della colpa di organizzazione e sulla responsabilità colposa; (iv) del metro su cui calibrare il giudizio di adeguatezza.
Tale caso mostra la criticità e la necessità di intervenire con una riforma che renda più chiaro ed efficace il lavoro dell’organo giudicante e degli operatori economici, che attualmente brancolano nell’incertezza e si affidano ad una giurisprudenza travestita da legislatore.
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