La legge19 ottobre 2017 n. 155 ha delegato al Governo la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza, destinata a superare sia la legge fallimentare (R.d. 16 marzo 1942, n. 267) che la legge sulla composizione delle crisi da sovraindebitamento (l. 27 gennaio 2012, n. 3).
A cura di Federico Sardegna
Nonostante l’ampia portata riformatrice correlata ad un’organica e radicale riforma di tutta la normativa della crisi d’impresa, la novella legislativa, ad una prima analisi, non sembra intervenire sull’impianto tradizionale dei reati previsti dal precedente R.d. 267/1942, mancando in essa una esplicita previsione di riforma delle disposizioni penali, sostanziali e processuali, previste dalla legge fallimentare.
A tal proposito la legge delega sancisce il “generale principio” di «continuità delle fattispecie criminose» (cfr. art. 2, comma 1, lett. a), a sua volta ripreso dal successivo D.lgs di attuazione n. 14 del 12 gennaio 2019, che ha introdotto il nuovo “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”
Dall’analisi dei primi tre capi del Titolo IX del nuovo Codice (“Disposizioni Penali”) si evince chiaramente come, nella sostanza, non vi siano state significative innovazioni dal punto di vista della struttura e della descrizione delle condotte incriminate rispetto alle previsioni contenute nella legge fallimentare.
Sotto tale profilo, assume particolare pregnanza l’art. 349 del nuovo Codice della Crisi il quale, in termini inequivocabili, prevede un meccanismo di armonizzazione delle disposizioni penali previste dalla legge fallimentare con le novità introdotte dal nuovo codice della Crisi d’impresa, statuendo espressamente che nelle disposizioni normative vigenti, i termini «fallimento», «procedura fallimentare», «fallito» nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituiti, rispettivamente, con le espressioni «liquidazione giudiziale», «procedura di liquidazione giudiziale» e «debitore assoggettato a liquidazione giudiziale» e loro derivati, con salvezza della continuità delle fattispecie”.
Analizzata dunque nei suoi principi ispiratori la riforma della crisi d’impresa, appare priva di conseguenze rispetto alle originarie previsioni in materia di reati connessi alla crisi o al dissesto economico.
Tali conclusioni sono state condivise dalla Giurisprudenza di Legittimità la quale, in uno dei primi contributi interpretativi al nuovo Codice della Crisi, ha recentemente chiarito che (i) “le nuove norme appaiono in perfetta continuità normativa con le precedenti norme contenute del Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267” (Legge Fallimentare), sicché “non vi è […] alcuna discontinuità del precetto penale (né la risposta sanzionatoria risulta diversa) che subentrerà all’attuale disciplina”, e (ii) alla luce del Codice, “non si ravvisano elementi concreti – e certo non possono esserlo la diversa distribuzione di compiti e poteri del giudice delegato, del curatore, dei creditori e del soggetto interessato e le diverse scansioni processuali – tali da mutare il presupposto, l’“insolvenza dell’impresa”, su cui si fondano le norme penali, che, difatti, sono rimaste immutate, tranne nell’aggiornamento del lessico dei nuovi presupposti di applicabilità”[1].
Tuttavia, procedendo ad un’analisi più ampia ed articolata della riforma, si può notare come la disciplina dei reati prevista dalla legge fallimentare non sia, in realtà, del tutto indifferente all’entrata in vigore del nuovo codice della Crisi.
La novella, infatti, se da un lato non interviene direttamente sulla struttura tradizionale dei c.d. reati fallimentari, lasciandone inalterate le caratteristiche e ponendosi in linea di continuità con le fattispecie già previste, dall’altro – nel tentativo di prevenire il dissesto economico ed incentivare il più possibile l’imprenditore ad attivarsi per l’emersione anticipata dalla crisi d’impresa – introduce una serie di meccanismi premiali posti a tutela dell’imprenditore ma, allo stesso tempo, potenzialmente idonei ad attenuare la risposta punitiva dell’ordinamento per quei reati normalmente connessi alle situazioni di crisi ed in particolare dei reati c.d. di “Bancarotta”.
Tali considerazioni trovano il loro fondamento nel combinato disposto di cui agli artt. 24 e 25 del nuovo Codice della Crisi, in forza dei quali l’imprenditore che “tempestivamente” si attiva per prevenire le conseguenze connesse alla crisi economico- finanziaria, può beneficiare di importanti misure di attenuazione delle sanzioni previste per i reati di bancarotta.
Più precisamente l’art. 24 citato definisce (sebbene a contrario) il concetto di “iniziativa tempestiva” che costituisce presupposto per l’accesso alle misure premiali previste dall’art 25 prevedendo che: “Ai fini dell’applicazione delle misure premiali di cui all’articolo 25, l’iniziativa del debitore volta a prevenire l’aggravarsi della crisi non è tempestiva se egli propone una domanda di accesso ad una delle procedure regolate dal presente codice oltre il termine di sei mesi, ovvero l’istanza di cui all’articolo 19 oltre il termine di tre mesi, a decorrere da quando si verifica, alternativamente: a) l’esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni; b) l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti; c) il superamento, nell’ultimo bilancio approvato, o comunque per oltre tre mesi, degli indici elaborati ai sensi dell’articolo 13, commi 2 e 3.
Su richiesta del debitore, il presidente del collegio di cui all’articolo 17 attesta l’esistenza dei requisiti di tempestività previsti dal presente articolo”.
La disposizione citata non brilla per chiarezza dal momento che, oltre ad esprimere il concetto di tempestività in termini negativi, non indica neppure il momento iniziale per la decorrenza dei termini oltre i quali l’iniziativa deve definirsi “non tempestiva”.
Tuttavia, ciò che assume rilievo, è la connessione con il successivo art 25 del nuovo codice, il quale, al comma secondo, prevede con riferimento ai principali reati connessi alla crisi d’impresa (tra i quali, a titolo esemplificativo, gli artt. 322 “Bancarotta fraudolenta”, 323 “Bancarotta semplice”, 325 “Ricorso abusivo al credito”, 328 “reati commessi dai soci illimitatamente responsabili nell’ipotesi di liquidazione giudiziale di una società in nome collettivo o in accomandita semplice”, 329 “Fatti di bancarotta fraudolenta”, 330 “Fatti di bancarotta semplice”) che, quando il danno cagionato sia di speciale tenuità, l’imprenditore che si è tempestivamente attivato, secondo i parametri previsti dall’art 24, non è punibile.
Dall’analisi combinata delle disposizioni si desume quindi che la nuova causa di non punibilità prevista dall’art 25 CCI si fonda sulla conoscenza di elementi propri della realtà economico – imprenditoriale (come ad esempio debiti verso i dipendenti, debiti verso i fornitori, emersione, superamento degli indicatori della crisi elaborati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti o dall’impresa stessa nella nota integrativa al bilancio) che normalmente sono nella pressoché esclusiva disponibilità e cognizione dell’imprenditore.
Il rischio è dunque quello di un meccanismo premiale che si presti ad abusi da parte dell’imprenditore, indebolendo, conseguentemente, la risposta sanzionatoria dell’ordinamento.
Tale perplessità sembra trovare ulteriore conferma nel secondo comma dell’art 24 CCI, secondo cui “su richiesta del debitore, il presidente del Collegio di cui all’art. 17 attesta l’esistenza dei requisiti di tempestività”.
In buona sostanza è lo stesso Presidente dell’ ”Organismo di composizione della crisi d’impresa” a cui il debitore si sarà rivolto che fornirà la documentazione comprovante la “tempestività dell’iniziativa” dell’imprenditore, la quale potrà dallo stesso essere prodotta nell’eventuale giudizio penale per provare la non punibilità ai sensi dell’art 25 CCI.
Il rischio concreto è dunque che, a distanza di anni, l’Autorità Giudiziaria chiamata a ad accertare la sussistenza dei reati di bancarotta non sia in grado di provare che la causa di non punibilità dedotta dall’imputato non si è, in realtà, mai verificata o che sia il risultato di un abuso della nuova normativa.
A ciò si aggiunga che, anche laddove l’imprenditore insolvente non fosse in grado di provare la particolare tenuità del fatto, con la sola dimostrazione della tempestiva iniziativa ex art 24, potrà in ogni caso fruire di una consistente riduzione di pena, che potrà arrivare sino alla metà della sanzione comminata.
Anche in questo caso, pertanto, l’imputato potrà giovarsi di una misura premiale che difficilmente potrà essere confutata fondatamente dagli organi giudicanti.
In estrema sintesi, sebbene il nuovo codice della crisi d’impresa sembri prima facie non apportare significative novità alla materia dei reati concorsuali, dall’analisi del combinato disposto di cui agli artt 24 -25 CCI si può invece ipotizzare che con l’entrata in vigore del nuovo corpo normativo, per quanto precedentemente esposto, la repressione dei reati in materia concorsuale sarà sempre più difficoltosa, essendo ipotizzabile che molti dei processi in materia di bancarotta terminerà con sentenze di assoluzione o comunque di riduzione delle relative pene.
Note
[1]Cass. Pen. Sez. 5, n. 4772 del 2020
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