Intervista con Maria Clara Mussa, autrice di ”Exit Tragedy. Pensare che volevamo la pace per l’Afghanistan”.
Il 15 agosto 2021 i talebani conquistavano la capitale Kabul e consolidavano il loro controllo sul territorio nazionale, favoriti dalla decisione statunitense di ritirare le truppe e porre fine alla ventennale missione internazionale.
Un anno dopo, l’Afghanistan è isolato a livello internazionale ed è il teatro di una delle più gravi crisi umanitarie, con un’economia in gravissima recessione. I talebani continuano a commettere molteplici violazioni dei diritti umani contro la popolazione civile e ad imporre misure draconiane su donne e ragazze, azzerando i progressi raggiunti fino a quel momento.
Le tragiche immagini dall’aeroporto di Kabul hanno sconvolto l’opinione pubblica internazionale, eppure le sorti della popolazione afghana sembrano non fare più audience.
Ne abbiamo parlato con la giornalista Maria Clara Mussa che, insieme al fotoreport di guerra Daniel Papagni, è autrice del libro “Exit Trategy. E pensare che volevamo la pace per l’Afghanistan”. Mussa e Papagni hanno trascorso molto tempo in Afghanistan ed hanno vissuto sia al fianco del contingente italiano impegnato nella missione internazionale sia del popolo afghano, condividendo le loro tradizioni e i loro drammi. Mentre l’attenzione globale è rivolta altrove, questo libro è necessario ed esprime l’amore degli autori verso il popolo afghano, attraverso le loro testimonianze e la potenza visiva delle fotografie.
Più di un anno fa i talebani hanno conquistato Kabul e hanno costretto il presidente afghano Ghani a fuggire dal Paese. L’evento ha sconvolto la comunità internazionale che, forse, non si aspettava una simile disfatta. Il ritiro, seppur previsto e pianificato, è stato un disastro. In realtà, già con gli Accordi di Doha del 2020, siglati tra talebani e Stati Uniti, i talebani sono diventati un interlocutore legittimo e riconosciuto dalle potenze internazionali, primi fra tutti gli Stati Uniti. Secondo lei è stata una tragedia preannunciata?
”Exit tragedy, pensare che volevamo la pace per l’Afghanistan”, libro scritto dalla sottoscritta e dal fotoreporter Daniel Papagni, era già in gestazione prima che il Paese fosse abbandonato nell’Agosto 2021.
Il titolo fu creato da noi proprio durante il periodo delle trattative tra USA e Taleban, rifacendoci alle nostre esperienze e ai nostri contatti con la popolazione afghana che già nel 2014 ci implorava di non essere abbandonata. Lo abbiamo riferito in molti passaggi del libro, ricordando (tra i vari personaggi intervistati) le parole della procuratrice del tribunale di Herat, Maria Bashir, molte volte da noi incontrata, che ripeteva ogni volta: “Italiani, non abbandonate il mio Paese”. Abbiamo frequentato per molti anni il popolo afghano, viaggiato e visitato i luoghi più lontani e martoriati del Paese, intervistato personaggi istituzionali afghani, ma anche persone del popolo, gli “anziani” dei villaggi: avevamo previsto la tragedia che ora è in atto. La presa del potere da parte dei taliban è la grande sconfitta del mondo occidentale, provocata dall’abbandono dell’Afghanistan da parte della Nato. I trattati di Doha, la capitale del Qatar che ha ospitato i vari incontri, hanno visto Stati Uniti e Taleban al tavolo dell’accordo, poi sottoscritto il 29 febbraio 2020 dall’Amministrazione Trump. Accordo che però prevedeva che in cambio del ritiro americano i talebani accettassero tre condizioni:
- Dichiarare un cessate il fuoco, sospendendo gli attacchi contro le forze del governo centrale di Kabul;
- Impedire che l’Afghanistan sia usato come base per lanciare attacchi terroristici nel mondo;
- Cominciare a gestire accordi, parlando con il governo afghano.
Non si parlava, comunque, di diritti delle donne e della società civile. Dopo la “fuga” della Nato dal Paese, i taliban hanno ripreso le proprie “attività che li identificano”: negazione dei diritti delle donne, ricerca e uccisione di coloro che ritengono traditori per aver lavorato con la coalizione internazionale, imposizione delle “loro personali leggi islamiche” su tutta la popolazione. E pretendono anche il riconoscimento diplomatico, l’eliminazione dalla lista delle sanzioni dei terroristi, l’accesso alle risorse congelate. Non dobbiamo dimenticare che il loro carattere distintivo e transnazionale è il forte legame con Al-Qaeda. Ed ora l’Afghanistan, a causa loro, è il paradiso del terrorismo. Vorrebbero diventare interlocutori legittimi, ma nessuna nazione ancora li ha riconosciuti: le potenze straniere, come le definisce lei, ancora non hanno dato alcun segno di legittimità ai terroristi islamici che da agosto 2021 imperversano nel Paese. Lo ha anche sottolineato l’ambasciatore della Repubblica islamica dell’Afghanistan in Italia, S.E.Khaled Ahmad Zekriya nel corso delle presentazione del nostro libro nell’aula consiliare del Comune di Marino, alcuni giorni or sono.”.
Da tempo si parla di riforma della NATO, la cui struttura appare obsoleta di fronte agli attuali scenari geopolitici e alle sfide globali. La disfatta in Afghanistan sembra rappresentare l’apice di questa crisi. La coalizione internazionale era presente nel Paese sin dal 2001, con la missione ISAF, istituita con la risoluzione ONU n.1386 ed aveva l’obiettivo primario di assistere il governo afghano nel garantire la sicurezza sul territorio nazionale. Eppure l’esercito afghano è rapidamente collassato di fronte alla violenza dei talebani. Lei, insieme a Daniel Papagni, ha vissuto e documentato da vicino i vent’anni di missione in Afghanistan. Qual è stato, secondo Lei, il motivo del fallimento?
“Il fallimento della missione in Afghanistan durata venti anni, viene identificata con l’abbandono del Paese in maniera precipitosa. In realtà, il progetto di ritirare i contingenti militari, era maturato nel corso degli anni, già se ne parlava nel 2012; poi nella fine del 2014, proprio mentre eravamo ad Herat, terminò in modo ufficiale la missione Isaf (International Security Assistance Force), missione operativa che includeva interventi armati da parte della coalizione. Dal 1° gennaio 2015 incominciò la Missione RS (Resolute Support). Che implicava non attività operative armate, bensì prosecuzione di affiancamento ed addestramento delle forze armate e di sicurezza afghane. Con il mio collega Daniel Papagni abbiamo partecipato, numerose volte, all’addestramento delle forze afghane; eravamo spesso con i soldati della coalizione al fianco del 207° Corpo d’armata afghano i cui soldati erano avviati dai nostri all’uso delle armi, alla ricerca degli ordigni (Ied), alle diverse attività che riguardano le operazioni militari.
Ma erano soldati provenienti da varie zone del Paese. L’Afghanistan è composto da numerose “tribù”: ragazzi con la divisa, che avevano lasciato il villaggio per guadagnare qualche soldo, con diversa lingua, diversa cultura e tradizioni… ci stupivamo di come potessero, in breve tempo, diventare un corpo unico e compatto alla difesa del territorio. E, a dire il vero, anche i loro capi non erano poi tutti così “convinti” difensori del proprio Paese… lo hanno poi dimostrato sciogliendosi subito di fronte alla presa di potere dei Taliban.”.
Secondo l’Osservatorio per le spese militari italiane, la presenza ventennale in Afghanistan è costata 8,7 miliardi di euro 1, di cui una parte destinata alle forze armate afghane. Oltre ai costi economici, bisogna considerare i costi in termini di vite umane: in vent’anni di conflitto, hanno preso parte circa 50.000 soldati, 54 sono morti e 700 circa sono rimasti feriti. Considerato l’epilogo della missione internazionale, appare legittimo che parte dell’opinione pubblica italiana pensi che sia stato un grosso errore andare e rimanere in Afghanistan. È d’accordo con chi dice che il sacrificio dei nostri militari è stato vano?
“Nel libro dedichiamo un intero capitolo alla memoria dei caduti italiani in terra afghana. Ognuno di loro, molti dei quali abbiamo conosciuto personalmente, ha immolato la propria vita nel compimento di quello che avevano sposato come dovere: dovere che assolvevano ogni giorno con determinazione e grande sacrificio. Li abbiamo osservati mentre si addestravano, correvano intorno e praticavano attività sportive per mantenersi “in forma”, sia sotto il sole a 50 gradi, sia sotto la neve che in Afghanistan cade copiosa. Non è stato un sacrificio vano, se pensiamo che erano totalmente dedicati a salvare una popolazione. Era il momento storico di una missione voluta dalla Nato, a cui tutti i Paesi membri dovevano partecipare. Alla luce dell’avvenuto abbandono può venir spontaneo giudicare diversamente: ma è nella formazione globale dell’essere umano partecipare collettivamente alle guerre. Sono le guerre che non dovrebbero esserci!”.
Il riconoscimento internazionale del governo talebano è stato ed è ancora al centro del dibattito, soprattutto perché il riconoscimento significherebbe garantire gli aiuti umanitari. Cosa ne pensa al riguardo? È necessario il riconoscimento da parte della comunità internazionale? “Noi siamo giornalisti, non opinionisti o analisti. Abbiamo sempre riportato i fatti come li vedevamo, come accadevano davanti ai nostri occhi. Non spetterebbe a noi giudicare se sia opportuno o meno riconoscere i taliban come parte della comunità internazionale. Per come abbiamo vissuto i fatti di persona nel corso delle nostre numerose missioni giornalistiche nel Paese, per come abbiamo visto cosa è accaduto a seguito dell’abbandono nell’agosto del 2021, viene spontaneo giudicare impossibile e deleterio riconoscere come legale il governo dei taliban. Per come essi sono e si comportano, non credo che il riconoscimento li tradurrebbe in persone civili come pensiamo debbano essere le persone civili. Non dimentichiamo che l’Afghanistan che sta soffrendo carenza di ogni cosa necessaria, riceve aiuti umanitari; ma gli aiuti non raggiungono la popolazione, se non in modo scarso. I taliban se ne impossessano, cacciano via le persone che si avvicinano per chiedere di poter usufruire degli aiuti che varie nazioni inviano, compresa l’Europa.”.
Un anno dopo la presa di Kabul da parte dei taliban, l’attenzione mediatica sull’Afghanistan è scemata. La catastrofe umanitaria, però, non cessa. Il Paese è sprofondato in una crisi umanitaria, la peggiore al mondo secondo il World Food Program, le cui vittime principali sono le donne e i bambini. Nel vostro libro avete descritto ampiamente questa situazione. Secondo Lei, cosa possiamo fare al riguardo?
“È vero. Carestia, malattie, bambini che muoiono per carenza di nutrizione, mentre ora, l’attenzione globale è rivolta quasi esclusivamente allo scontro USA-RUSSIA in Ucraina. Cosa possiamo fare noi per sensibilizzare e mantenere costante l’empatia verso il popolo afghano? Come possiamo agire per far sì che le donne afghane non siano abbandonate schiave dell’oscurantismo assassino dei taliban? Non dobbiamo tagliarci ciocche di capelli, ma dobbiamo ogni giorno urlare con loro per dare loro la voce che i taliban impediscono loro di avere. L’opinione pubblica è composta da esseri umani con diverse capacità di recepire; ben lo sappiamo noi che operiamo nel settore della comunicazione. Siamo noi, allora, che dobbiamo accollarci il compito, come un dovere costante, di far comprendere la gravità della situazione. Organizzare seminari, workshop, videoconferenze… battere ogni giorno il tasto del richiamo ad ascoltare il grido di aiuto delle donne afghane.
“La mattina c’erano due file: una degli operai e l’altra delle persone che avevano bisogno di cure e assistenza medica fornita dagli Americani. Ricordo un ragazzo, trasportato con la carriola e un padre con in braccio una bimba che aveva in mano un biberon che sembrava contenesse l’acqua della risciacquatura dei piatti; avvolti nei loro turbanti, con le loro coperte, scalzi, le barbe ghiacciate, le donne oscurate dal burqa, infreddoliti, impauriti, ma con lo sguardo forte di chi viveva in quella terra impossibile, tra mille insidie e poche certezze. A tutti gli effetti, la base, gli Italiani e gli imprenditori portavano un raggio di speranza a quella gente…”
(Dal racconto di Daniel Papagni, fotoreporter)
Foto copertina: Copertina del libro “Exit Tragedy. E pensare che volevamo la pace per l’Afghanistan” di Maria Clara Mussa e Daniel Papagni, edito da LoGisma, 2021