La “guerra delle sanzioni”. L’Unione Europea e la Federazione Russa nell’era dell’interdipendenza economica globale. Collana: I Saggi di Domus Europa (Il Cerchio ed., Rimini, 2021) a cura di Matteo Fulgenzi, analizza la natura giuridica e le effettive implicazioni delle misure economiche restrittive unilaterali adottate nell’ambito della “guerra delle sanzioni” tra l’Occidente e Mosca.
Questo studio indica il diritto internazionale come fattore-chiave per comprendere, affrontare e superare la crisi geopolitica in atto in Ucraina. La presente ricerca, infatti, analizza la natura giuridica e le effettive implicazioni delle misure economiche restrittive unilaterali adottate nell’ambito della “guerra delle sanzioni” tra l’Occidente e Mosca, identificando infine l’OMC come quadro giuridico e istituzionale per la possibile normalizzazione delle relazioni tra l’UE e la Russia.
Il libro di Matteo Fulgenzi[1] analizza la recente evoluzione della policy dell’Unione Europea nei confronti della Federazione Russa in una prospettiva che va dalla dissoluzione dell’Urss fino all’insorgere della crisi ucraina alla fine del 2013.
La Russia ha da tempo abbandonato i tentativi di espansione territoriale di stampo imperiale, ma non ha rinunciato alla volontà di conservare una propria zona di interesse esclusivo “regionale” e “post imperiale” con i paesi della propria sfera d’influenza, gerarchicamente sottoposti a Mosca. Ed è proprio questo approccio che ha portato alle tensioni con Kiev. La Crisi ucraina, ha rappresentato per l’Unione e gli Usa, l’occasione per sottolineare uno “scontro di civiltà” che ha visto contrapposti i difensori della libertà e della democrazia, filo-occidentali contro il governo corrotto e filo-russo di Viktor Yanukovych. Una visione così semplicistica che prevede una divisione tra ucraini filo-occidentali “buoni” contro ucraini filo-russi “cattivi” può essere fuorviante e si riduce ad un etichetta politicamente condizionata. Dal punto di vista di Mosca, i moti di piazza, le proteste e il Golpe dell’EuroMaidan, erano palesemente eterodiretti dall’Occidente per destabilizzare il paese e quindi di conseguenza Mosca. Secondo la Federazione Russa, EuroMaidan è solo l’ultimo dei tentativi occidentali di colpire gli interessi geopolitici attraverso le c.d. “Rivoluzioni Colorate” che vanno dalla “Rivoluzione delle Rose” in Georgia nel 2003, alla “Rivoluzione dei tulipani” in Kirghizistan nel 2005 alla stessa Ucraina con la Rivoluzione arancione nel 2004 e nel 2005.
La conseguente crisi in Crimea e la guerra nelle regioni orientali ucraine, ha aumentato la tensione tra Federazione Russa ed Unione europea.
Ma nonostante le tensioni, il rapporto tra Mosca e Bruxelles è ancora profondamente interdipendente a livello economico. La risposta internazionale alla crisi ucraina, sono state l’introduzione di una serie di misure restrittive che da un hanno indebolito il rapporto tra Russia e Unione Europea, e dall’altro hanno spinto la Federazione russa verso Oriente attraverso una strategia di riconversione politica ed economica (“Pivot”) verso l’Asia.
Con “La guerra delle sanzioni” Fulgenzi indica il diritto internazionale come fattore-chiave per comprendere, affrontare e superare la crisi geopolitica in atto in Ucraina. La ricerca, infatti, analizza la natura giuridica e le effettive implicazioni delle misure economiche restrittive unilaterali adottate nell’ambito della “guerra delle sanzioni” tra l’occidente e Mosca, identificando infine l’Omc come quadro giuridico e istituzionale per la possibile normalizzazione delle relazioni tra l’Ue e la Russia.
Intervista con l’autore.
Lei ha parlato, in riferimento alle sanzioni internazionali, di un complesso “poliedrico e multidimensionale”. In che senso?
Il “complesso” delle sanzioni internazionali adottate nei confronti della Federazione Russa risulta essere fattivamente poliedrico e multidimensionale (Cafaro 2015, Szczepański 2015). Infatti, si compone di due articolati impianti sanzionatori – imposti, rispettivamente, dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti d’America – nei confronti di determinati settori e soggetti della Federazione Russa, dell’Ucraina e della Crimea, con l’obiettivo di preservare l’unità territoriale e l’indipendenza dello Stato ucraino. Le sanzioni dell’UE e degli USA risultano formalmente giustificate come una “risposta” in autotutela ex art. 51 della Carta dell’ONU, oltre che giuridicamente inscritte nel quadro definito dalle Security Exceptions vigenti nell’ordinamento dell’OMC ex art. XXI GATT. Queste misure, del resto, sono state concepite al fine di inviare un forte segnale di disapprovazione internazionale verso l’uso della forza militare posto in essere dal Cremlino nel proprio intervento nella crisi in atto in Ucraina, con il chiaro obiettivo di imporre inoltre pesanti conseguenze sugli individui e sulle entità della Federazione Russa considerati coinvolti nell’escalation che ha caratterizzato la situazione nell’est del paese e nella penisola della Crimea.
L’estrema complessità dell’impianto sanzionatorio “incrociato” – così come delineato nel suo complesso dai provvedimenti combinati dell’UE, degli USA e degli altri Stati che hanno aderito alla “campagna” sanzionatoria contro Mosca – rappresenta di per sé un pressante disincentivo allo sviluppo di relazioni economico-commerciali stabili con la Russia (anche in settori non direttamente coinvolti dal raggio d’azione delle sanzioni). È in tale direzione, ormai divenuta “psicologica”, che d’altra parte si inserisce anche la recente policy di repentino abbandono della contrattualistica di lungo periodo (i cd. contratti take or pay, quasi tutti oil-link), sposata in ambito UE relativamente alle forniture di gas naturale dalla Russia e incentrata sulla (quanto meno improvvida) scelta di fare affidamento sulle ondivaghe dinamiche dei cd. prezzi “spot” della “borsa del gas”. Una politica, quest’ultima, di certo non estranea allo strenuo tentativo di mettere nuovamente in difficoltà le finanze di Mosca – per di più tacciata, a Bruxelles, di “manipolare” il mercato energetico per i propri obiettivi – ma che diversi analisti, al contrario, identificano proprio tra le principali cause della grave crisi energetica che tuttora imperversa in Europa (Floros 2021) congiuntamente, oltretutto, alle annose ritrosie geopolitiche (e giudiziarie) che continuano a gravare sull’entrata in funzione del gasdotto Nord Stream 2 nel Mar Baltico, forzando il costoso (e sempre incerto) transito del gas russo attraverso l’Ucraina.
Che cosa s’intende per sanzioni “extraterritoriali” e perché vengono considerate di “controversa” legittimità internazionale?
In seguito all’intervento del CAATSA – che ha reso vincolanti le previsioni dell’Ukraine Freedom Support Act, prima legate alle scelte discrezionali dell’amministrazione americana – qualsiasi persona o azienda in qualunque parte del mondo è esposta al rischio di incorrere nelle stringenti sanzioni secondarie degli USA in caso di mancata uniformazione alle disposizioni americane. Ne consegue, inoltre, come ciò possa persino sminuire l’effettività di un’eventuale rimozione, da parte dell’UE, delle proprie misure restrittive nei confronti di Mosca. Tanto più in assenza di disposizioni compensative ad hoc rivolte dall’Unione a “bloccare” – sull’esempio dei precedenti delle sanzioni contro Cuba e Iran (EU Blocking Statute 1996 e 2018) – la pervasività extraterritoriale delle sanzioni d’oltreoceano, gli operatori economici dell’UE si ritroverebbero infatti costretti a scegliere tra la rinnovata abilitazione a interagire con i partner russi e la concreta possibilità di vedere compromessi i propri rapporti con gli interlocutori statunitensi, oltre a rischiare l’estromissione dal “sistema del dollaro” (data l’estrinseca extraterritorialità di quest’ultimo).
Questa non è certamente la prima volta che gli Stati Uniti attribuiscono una valenza “extra-territoriale” alle proprie sanzioni, basandosi sul ruolo privilegiato del dollaro come valuta di riserva internazionale e sull’appetibilità del mercato interno americano per le imprese di tutto il mondo. Già nel 1981, il Dipartimento per il Commercio degli USA aveva imposto sanzioni di portata extraterritoriale allo scopo di contrastare la costruzione del gasdotto Trans-Siberiano tra la Comunità Europea e l’allora Unione Sovietica, indirizzando i propri provvedimenti principalmente nei confronti delle aziende europee che intendevano essere coinvolte nella realizzazione dell’opera (Perlow 1983). L’argomento in questione ha trovato spazio anche dinanzi agli organi dell’OMC. Nel caso United States – The Cuban Liberty and Democratic Solidarity Act, la disputa intrapresa dalla CE contro gli effetti extraterritoriali dell’Helms-Burton Act statunitense del 1996 fu tuttavia risolta solo mediante negoziati bilaterali, precludendo pertanto l’esame della misura da parte di un panel del DSB (Gruszczyński e Menkes 2017).
Nell’ambito della dottrina del diritto internazionale, ad ogni modo, si registrano posizioni divergenti sia in merito alla concreta sussistenza di una base giuridica per l’imposizione in via unilaterale di sanzioni internazionali, sia – in particolare – in riferimento alla legittimità (o meno) della loro possibile veste extraterritoriale (Elagab 1988, Bagheria e Akbarpourb 2016). I concetti di “sanzione secondaria” e “misura extraterritoriale”, così come declinati nell’ambito della cd. “dottrina degli effetti” – la quale prevede che la giurisdizione dello Stato si radichi ogniqualvolta un atto produca effetti all’interno del territorio nazionale – possono infatti presentare controversi elementi di incompatibilità nei confronti di alcuni degli assunti cardine del diritto internazionale generale e dell’ordinamento delle Nazioni Unite, come l’uguaglianza sovrana tra gli Stati o i principi di “non ingerenza” e di cooperazione tra le nazioni (nonché – per i risvolti fattuali dell’attuazione di simili provvedimenti – la tutela dei diritti umani).
Per quanto non paiano ancora emergere nella prassi particolari elementi che possano indurre a ricomprendere automaticamente pressioni di carattere diverso da quello militare nell’ambito di una più ampia accezione del concetto di “violenza” internazionale, parte della dottrina suggerisce altresì la possibilità di un’applicazione analogica delle norme internazionali sul divieto dell’uso della forza armata (di cui all’art. 2.4 della Carta dell’ONU) anche alle ipotesi di abuso della forza politica ed economica da parte degli Stati, pur non incontrando (per il momento) il favore della maggioranza degli studiosi del diritto internazionale.
Quali sono le principali misure restrittive ancora in essere nei confronti della Federazione Russa?
A partire dal marzo 2014, l’Unione Europea ha imposto alla Russia pesanti misure restrittive in reazione agli eventi verificatisi in Ucraina, introducendo progressivamente sanzioni di diversa tipologia nei confronti di Mosca. Le sanzioni dell’UE sono adottate attraverso atti del Consiglio e prevedono provvedimenti come l’asset freeze (ossia, il congelamento dei beni) e il travel ban (ovvero, il divieto di viaggio) a carico di determinati soggetti della Federazione Russa, come anche il divieto, per gli operatori dell’UE, di porre in essere alcune tipologie di transazioni finanziarie con il coinvolgimento di determinati attori economici russi.
L’Unione, inoltre, ha introdotto il divieto totale di export e import di materiale bellico (export and import ban on trade in arms) nei confronti della Russia, congiuntamente alla proibizione dell’export verso Mosca di manufatti cd. dual–use nonché di prodotti e servizi tecnologici per il settore energetico, l’estrazione di idrocarburi e l’esplorazione di nuovi giacimenti. Nei mesi seguenti, l’UE ha ampliato il novero delle proprie misure restrittive, includendo nella lista delle sanzioni nuovi individui ed entità. Successivamente, il 23 giugno 2014, l’Unione Europea ha disposto un embargo totale sulle importazioni di beni e servizi provenienti dalla Crimea, limitando inoltre quasi integralmente le esportazioni di prodotti, servizi e capitali di origine comunitaria verso la penisola.
Tuttavia, misure più severe sono state imposte alla Russia da parte dell’UE soltanto in conseguenza dell’incidente occorso il 17 luglio del 2014 al volo di linea MH17 della Malaysia Airlines nei cieli della regione di Donetsk. Il tragico avvenimento, del resto, suscitò anche l’immediata reazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Risoluzione 2166/2014). Solo in seguito a tale evento, l’Unione Europea si è posta a tutti gli effetti nel solco delle azioni fino a quel momento intraprese dagli Stati Uniti e ha iniziato ad attribuire fermamente alla Russia la responsabilità dell’escalation su larga scala rivolta alla destabilizzazione dell’Ucraina.
Il 12 settembre 2014, quindi, il Consiglio ha deciso di procedere a un forte inasprimento delle sanzioni adottate nei confronti della Federazione Russa, introducendo il pacchetto di misure denominato “Tier 3” dal quale sono scaturite stringenti restrizioni in materia di accesso ai mercati finanziari dell’UE per le compagnie russe. L’Unione Europea, a più riprese, ha successivamente rinnovato e ampliato il proprio regime di sanzioni nei confronti della Russia (si pensi alle implicazioni della contesa “navale” tra Kiev e Mosca nello Stretto di Kerch’, nel novembre 2018), giungendo infine a ricollegarne la possibile (parziale) rimozione al rispetto, da parte di Mosca, delle condizioni concordate al termine del secondo round degli Accordi di Minsk (Minsk II Agreement), sottoscritti da Francia, Germania, Russia e Ucraina riunite nel format del cd. “quartetto Normandia”. Ad ogni modo, è importante sottolineare come le esportazioni di gas russo verso l’Unione Europea non siano state direttamente colpite dal regime delle sanzioni varate da Bruxelles, e ciò in considerazione della notevole dipendenza dalle forniture russe di alcune delle maggiori economie dell’UE.
Le prime sanzioni internazionali imposte in reazione alla condotta tenuta dalla Russia in territorio ucraino sono tuttavia giunte da oltreoceano. Il 6 marzo 2014, con l’emanazione dell’Executive Order 13660, il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale in attuazione dell’International Emergency Economic Powers Act. Nei giorni successivi, la Casa Bianca ha esteso le sue misure sanzionatorie adottando l’Executive Order 13661 (16 marzo 2014) e l’Executive Order 13662 (20 marzo 2014), volti a colpire gli asset riconducibili alle persone fisiche e giuridiche della Federazione Russa e della regione “occupata” della Crimea (i.e., aziende statali, burocrati e uomini d’affari inseriti nella SDN) considerate particolarmente coinvolte negli eventi occorsi in Ucraina. Le sanzioni americane, inoltre, hanno previsto l’inibizione della vendita di armi e tecnologie dual-use verso la Russia, unitamente a un investment ban e a un embargo totale riguardante l’esportazione e l’importazione di beni, tecnologie e servizi nei confronti della regione ucraina della Crimea, considerata alla stregua di un territorio militarmente “occupato” dalla Russia attraverso l’uso illegittimo della forza (in maniera del tutto analoga a quanto deciso da parte europea).
I successivi emendamenti apportati alle direttive di attuazione hanno poi ulteriormente inasprito le restrizioni statunitensi in ambito finanziario, coerentemente a quanto disposto dalle analoghe misure adottate da parte dell’UE. Le nuove misure varate da Washington hanno quindi introdotto il divieto di ogni forma di finanziamento di medio-lungo periodo destinato a persone e/o entità russe operanti nel settore finanziario e in quello energetico, con le sole eccezioni previste in riferimento alle transazioni di breve termine ridotte entro i limiti, rispettivamente, di 14 giorni per i servizi finanziari, di 30 giorni per il settore della difesa e di 60 giorni per il settore dell’energia. Le misure sanzionatorie, inoltre, hanno comportato l’interdizione delle esportazioni di beni, tecnologie e servizi in supporto all’esplorazione di nuovi giacimenti e alla produzione di idrocarburi, con la messa al bando di ogni forma di partecipazione in progetti afferenti alla ricerca e all’estrazione di idrocarburi nelle acque profonde oltre i 150 metri e nella regione dell’Artico, nonché alla produzione di petrolio e gas di scisto (shale oil/gas), che implichino il coinvolgimento di soggetti inclusi nell’elenco SSI.
In seguito, gli Stati Uniti hanno esteso i propri divieti a tutti i progetti rientranti nel settore energetico, condotti anche da operatori esteri, che prevedano il potenziale coinvolgimento di entità della Federazione Russa o che possano anche solo destare un sostanziale interesse da parte di aziende russe, all’interno o al di fuori del territorio della Russia, procedendo dunque all’introduzione di sanzioni cd. “extraterritoriali”. Nel 2017, il Countering America’s Adversaries through Sanctions Act (CAATSA) ha infatti disposto l’imposizione di uno stringente regime di sanzioni secondarie contro qualsiasi attore economico, anche straniero, che effettui un investimento idoneo a contribuire direttamente e significativamente all’aumento delle capacità della Federazione Russa nel campo della realizzazione di gasdotti o di altre infrastrutture strategiche per l’esportazione di materie prime energetiche. Il CAATSA, inoltre, ha introdotto sanzioni aggiuntive per i settori ferroviario, metallurgico e minerario, alimentando quindi non pochi timori sulle possibilità di ulteriore estensione e, soprattutto, sulle difficili prospettive di rimozione di misure di tale portata. A partire dal 2014, infatti, le misure restrittive statunitensi sono state progressivamente rinnovate e intensificate in diverse occasioni, adducendo perlopiù motivazioni di carattere decisamente ultroneo rispetto alle vicende strettamente afferenti alla crisi ucraina.
È utile infine sottolineare come, nel contesto di questa “guerra delle sanzioni”, si confermino in un ruolo di primo piano le cd. smart sanctions, ossia le sanzioni “intelligenti” adottate, in questo caso, sia dall’UE che dagli USA nei confronti di soggetti della Federazione Russa e dell’Ucraina. Questa tipologia di misure, dette anche sanzioni “mirate”, si articola infatti in una variegata schiera di provvedimenti restrittivi rivolti a colpire “chirurgicamente” determinati individui ed entità (e.g., le misure di asset freeze e visa-ban) o persino estesi “settorialmente” nei riguardi di specifici ambiti strategici dell’economia dello Stato-target (le cd. misure “settoriali”). Tali provvedimenti, d’altronde, si sono storicamente affermati nella fase “sanzionatoria” del diritto internazionale proprio come possibile alternativa alle restrizioni indiscriminate e agli embarghi generalizzati prima solitamente imposti nei confronti degli Stati “trasgressori” (Happold e Eden 2016, White 2016). Pertanto, l’esigenza di ricorrere a un simile genus di misure restrittive è sorta in considerazione della necessità di prevenire il ripetersi delle gravi crisi sistemiche talvolta riscontrate nei paesi sottoposti a regimi di sanzioni internazionali dall’ambito di azione non circoscritto (e.g., le sanzioni ONU all’Iraq).
L’adozione di provvedimenti restrittivi “mirati”, tuttavia, può implicare la compressione di diritti fondamentali dei soggetti colpiti, oltre a poter causare seri (e sostanzialmente irrimediabili) danni alla loro reputazione. Dunque, risulta in tal senso più che giustificato l’intervento riparatorio attuabile, su istanza degli interessati, da parte delle Corti sovranazionali e internazionali preposte alla garanzia delle prerogative individuali riconosciute dal diritto dell’Unione Europea (i.e., la CGUE – si pensi, tra i diversi casi, al filone Azarov) o alla tutela dei diritti umani così come declinati nella CEDU (i.e., la CorEDU). Si pensi ancora, nell’alveo di una declinazione tematica “orizzontale” e “a-geografica” di tale approccio sanzionatorio, al Global Human Rights Sanctions Regime (GHRSR) da ultimo varato dall’UE nel dicembre 2020 e subito attivato nei confronti – tra gli altri destinatari, individuati in Eritrea, Libia, Sud Sudan, Repubblica Popolare Democratica di Corea e Repubblica Popolare Cinese – di diversi soggetti della Federazione Russa ritenuti coinvolti in azioni perpetrate in violazione della disciplina internazionale dei diritti umani (Fulgenzi 2021).
Che impatto hanno, sull’economia dell’Unione Europea, le sanzioni nei confronti della Federazione Russa?
Nel 2014, quando le sanzioni nei confronti di Mosca furono introdotte per la prima volta, la Federazione Russa figurava come il terzo tra i maggiori partner commerciali dell’Unione Europea, interessando l’8,4% del flusso totale degli scambi. La stessa UE, a sua volta, si presentava come la più importante fonte di investimenti esteri diretti (FDI) per la Federazione Russa (originando il 75% del totale degli investimenti indirizzati dall’estero verso la Russia), oltre che come principale interlocutore commerciale di quest’ultima, con una quota del 48% sul totale dei traffici commerciali di Mosca con l’estero.
La Federazione Russa, ancora oggi, fornisce più di un terzo delle importazioni totali di greggio e soddisfa più del 70% del fabbisogno totale di gas naturale dei paesi europei dell’area OCSE. La maggior parte delle esportazioni di materie prime energetiche della Federazione Russa (nel 2016, il 65% delle esportazioni di petrolio greggio e l’81% di quelle di gas naturale) è rivolta al mercato comune dell’Unione Europea, con la quale Mosca ha finora condiviso una profonda integrazione anche in riferimento al settore finanziario. Prima del varo delle sanzioni, con un totale del 9%, la Russia rappresentava inoltre il secondo più grande mercato di sbocco per l’export dei prodotti dell’agricoltura europea, se si considera che nel 2013 – a fronte degli 1,3 miliardi di dollari di produzione agricola dell’UE acquistati dagli Stati Uniti – la Federazione Russa aveva assorbito ben 15,8 miliardi di dollari di esportazioni agricole provenienti dai paesi dell’Unione.
Gli scambi commerciali tra le due economie registrarono una forte crescita fino alla metà del 2008, al giungere delle prime avvisaglie della crisi finanziaria internazionale. A partire dal 2010, i volumi del commercio tra l’UE e la Russia cominciarono a evidenziare una nuova ripresa, per poi raggiungere livelli record nel 2012. L’Unione Europea, già allora prima fonte di FDI per la Russia, si affermava dunque sempre più anche nelle vesti di principale destinazione per gli investimenti esteri russi. Macchinari industriali, mezzi di trasporto leggeri e pesanti, manufatti elettrotecnici, preparati chimici e prodotti farmaceutici dominano storicamente l’export dei paesi europei verso la Federazione Russa, con un valore complessivo che nel 2014 si attestava sui 103 miliardi di dollari. La Russia, dal canto suo, continua a garantire all’UE l’approvvigionamento di materie prime, petrolio (greggio e raffinato) e gas naturale (coprendo, nel 2019, ancora il 47% della domanda di gas a livello comunitario).
Il settore finanziario russo, profondamente integrato con quello europeo, ha quindi ovviamente risentito dell’introduzione del regime delle sanzioni. Tuttavia, nonostante la grave crisi delle reciproche relazioni a livello politico, anche dopo l’imposizione delle sanzioni l’Unione Europea ha conservato il ruolo di principale partner commerciale della Federazione Russa, mentre la Russia è rimasta uno dei maggiori acquirenti di prodotti europei a livello mondiale (ICE 2018). Appare comunque chiaro come la contrapposizione tra l’Unione Europea e la Russia sulla questione ucraina abbia posto in evidenza la sensibilità delle relazioni commerciali – tra alcuni dei principali attori della scena internazionale – all’insorgere di uno scontro geopolitico di simile gravità. Tutto ciò, pertanto, suggerisce chiaramente l’esigenza di individuare i termini per un’auspicabile “depoliticizzazione” (Kukushkina 2015), su solide basi giuridico-internazionalistiche, delle relazioni commerciali tra l’Unione Europea e la Russia, nella consapevolezza della profonda interdipendenza geo-economica che tuttora sussiste tra le Parti contrapposte e di come entrambe, inoltre, si siano ufficialmente impegnate alla piena osservanza delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Alcuni Stati dell’UE sono stati indubbiamente colpiti in maggior misura rispetto ad altri nei volumi delle proprie esportazioni verso Mosca. L’economia dell’Unione Europea, tuttavia, sembra aver comunque dimostrato nel totale una certa resilienza nei confronti dell’effetto depressivo delle sanzioni, evidenziando un effetto “redistributivo” (Giumelli 2017) delle quote di export. Tale riconfigurazione, inoltre, sarebbe giunta ad esito di una ristrutturazione dei legami economici con la Russia che, tra l’altro, avrebbe indubbiamente tenuto conto di diversi fattori, anche ultronei rispetto all’imposizione delle reciproche misure sanzionatorie tra Bruxelles e Mosca. I principali attori dello scenario produttivo europeo, pur dovendo sopportare gravi perdite, hanno infatti prontamente provveduto a rivolgere il proprio export verso altri mercati, registrando un incremento del 5,7% nel totale dell’export dell’UE verso paesi extraeuropei (Christie 2016). Nel contempo, l’Unione Europea ha fornito sostegno finanziario ai settori europei maggiormente colpiti dagli effetti delle sanzioni, come quello agroalimentare, prevedendo anche un notevole sforzo economico rivolto a compensare gli squilibri dovuti al differente ammontare del danno pagato, in termini di export, da parte delle diverse regioni europee in relazione al loro eterogeneo grado di esposizione nei confronti del mercato russo. La caduta del prezzo del petrolio – intervenuta in concomitanza con l’entrata in vigore delle sanzioni – sembrerebbe inoltre essere giunta in soccorso dell’economia europea in una congiuntura così avversa, contribuendo ad abbattere i costi di produzione e ad aumentare il potere d’acquisto delle famiglie sul piano interno.
Malgrado ciò, nel 2014 l’export dei paesi dell’UE verso la Federazione Russa crollò del 12,1% con una quasi speculare flessione del 13,5% per le esportazioni russe verso i paesi dell’UE, mentre il valore totale degli scambi commerciali reciproci tra l’Unione Europea e la Russia precipitò da 326 miliardi di euro a 285 miliardi di euro. Ad ogni modo, è importante notare come questa profonda e repentina contrazione dell’ammontare degli scambi non sia stata dovuta esclusivamente alle sanzioni (e alle contro-sanzioni) ma, in buona parte, sia stata determinata anche da altre dinamiche dei mercati globali (comunque di per sé non estranee allo scontro tra Occidente e Russia), come appunto il prezzo del petrolio (Gros e Mustilli 2015). In questo caso, la sensibile flessione del prezzo degli idrocarburi e la conseguente contrazione delle disponibilità finanziare del governo russo (fortemente vincolato agli introiti derivanti dall’export di materie prime energetiche nella definizione del budget statale e degli equilibri della propria bilancia commerciale) hanno infatti condotto l’economia della Federazione Russa in recessione, causando una forte volatilità valutaria per il rublo russo (con un’immediata spinta inflattiva sui prezzi, direttamente correlata alla svalutazione della moneta) e un conseguente peggioramento del clima generale per gli investimenti e per gli scambi commerciali con la Russia.
La stima delle perdite per i paesi dello spazio economico europeo, con l’inclusione della Svizzera, si attesterebbe quindi (in termini di valore aggiunto) tra -34 e -42 miliardi di euro nel breve termine e tra -92 e -113 miliardi di euro nel medio-lungo periodo (Christensen, Fritz e Streicher 2015). Tuttavia, gli effetti macroeconomici conseguenti alle perdite subite dai paesi dell’Unione Europea – a causa dell’imposizione dei reciproci regimi sanzionatori da parte dell’UE e della Russia – sono andati subito ben oltre il “semplice” peggioramento delle relazioni commerciali tra Bruxelles e Mosca. Alla fattuale contrazione dell’export europeo verso la Federazione Russa, infatti, è necessario sommare la significativa diminuzione dei flussi turistici provenienti dalla Russia verso gli Stati dell’Unione Europea, legata anch’essa ad alcune delle implicazioni collaterali del varo delle sanzioni internazionali contro Mosca, come l’elevata svalutazione che ha interessato il rublo russo nonché il marcato peggioramento registrato nella customer perception dei consumatori russi nei confronti della quasi totalità dei beni e dei servizi di origine comunitaria.
È stato stimato come da questa situazione, già nel breve termine, sia scaturita la perdita in Europa di circa un milione di posti di lavoro, dovuta alla riduzione dell’export e dei volumi di fatturato del settore del turismo. L’ammontare totale della contrazione occupazionale derivante dalla flessione economica indotta dalle sanzioni, nel medio-lungo periodo, potrebbe tuttavia registrare la perdita di una cifra compresa tra i 2,2 e i 2,7 milioni di posti di lavoro nello spazio economico dell’Unione Europea e della Svizzera (tra l’1% e l’1,2% del numero totale degli occupati – cifre che oggi potrebbero persino apparire “irrisorie”, almeno in termini assoluti, al cospetto dei danni prodotti all’economia europea dalla diffusione del SARS-CoV-2 nel biennio 2020-2021 ma che, al contrario, non possono che risultare apprezzabili nella prospettiva di un’auspicabile ripresa post-pandemica) e ciò anche a causa della conseguente diminuzione dei consumi interni, con la Germania e gli Stati dell’est europeo che potrebbero infine figurare tra i paesi più colpiti.
… e sull’economia russa?
L’economia russa iniziò a registrare una prima contrazione già a partire dal novembre 2014 (-2% del PIL, unitamente a un ulteriore -5% perso da Mosca in termini di ricchezza prodotta, a causa del più basso prezzo del petrolio). Tale flessione fu prontamente rilevata dalle previsioni del Fondo Monetario Internazionale, nonché stigmatizzata dal pressocché contemporaneo declassamento della Russia nelle stime del cd. “rating-paese” effettuate ad opera delle principali agenzie internazionali di valutazione del merito creditizio, le quali non risparmiarono neppure le maggiori aziende di Stato russe come VTB, GAZPROM e ROSNEFT. Queste ultime, di conseguenza, si ritrovarono obbligate ad accettare il soccorso finanziario offerto dal Cremlino che, a sua volta, fu (presumibilmente) costretto a ricorrere all’utilizzo delle risorse del Fondo pensionistico nazionale per far fronte alla carenza di liquidità dovuta all’effetto delle sanzioni occidentali verso il settore bancario russo, già gravato dalla fuga di capitali e dall’incremento dei costi di transazione connessi alla destabilizzazione del rublo. Proprio il ricorso di Mosca alle risorse del Fondo pensionistico, inoltre, potrebbe aver rappresentato la principale ragione della riforma del Sistema pensionistico russo varata dal governo Medvedev e firmata dal Presidente Vladimir Putin il 3 ottobre 2018, per quanto tale provvedimento sia stato ufficialmente motivato dal Cremlino agli occhi dell’opinione pubblica con argomentazioni di carattere prevalentemente demografico.
Nel giugno del 2015, il Ministero dell’Economia russo affermò di attendersi una contrazione del PIL nella misura del 2,8%, riconoscendo il ruolo depressivo delle sanzioni anche sul clima degli investimenti in Russia. Gli effetti negativi delle sanzioni internazionali per l’economia russa, quindi, si sono dimostrati tutt’altro che trascurabili (Moret et al. 2016). Tra il 2014 e il 2017, le perdite totali per il “biudzhet” (i.e., il budget) della Federazione russa direttamente riconducibili alle misure imposte dall’Occidente avrebbero infatti raggiunto i 55 miliardi di dollari. Tuttavia, va parimenti rilevata una certa resilienza anche da parte del sistema economico russo, quasi speculare rispetto a quella espressa dal tessuto produttivo europeo. Una tendenza, questa, che non ha tardato a sostenere una rapida stabilizzazione del credit outlook della Russia nelle previsioni delle maggiori agenzie di rating (Badkar 2016). Tra il 2014 e il 2015, infatti, la Russia incrementò la produzione di idrocarburi e aumentò l’output dell’industria della difesa, investendo sull’aumento degli ordinativi interni e sfruttando la crescente domanda proveniente soprattutto dall’India e dalla Cina (Mauri 2018).
In riferimento alla richiamata tendenza ribassista evidenziata dal prezzo degli idrocarburi sul mercato mondiale, si può inoltre rilevare come la stessa Federazione Russa abbia attivamente “contribuito” al dumping sul prezzo del petrolio nel periodo tra il 2014 e il 2015, attraverso un notevole incremento della produzione e una forte spinta alla realizzazione di infrastrutture internazionali volte ad agevolare la fornitura di materie prime energetiche verso l’Europa e l’Asia. Una strategia, quest’ultima, chiaramente concepita da Mosca allo scopo di rendere “sconveniente” l’acquisto di shale oil e shale gas di produzione americana, soprattutto per i compratori dell’UE, preservando così la stabilità delle proprie quote di mercato nel continente europeo, anche a costo di minori introiti. Un basso prezzo del barile di “oro nero”, infatti, rende verosimilmente poco appetibile l’estrazione dello shale oil/gas statunitense, dati i suoi costi elevati (non solo in termini economici ma anche di natura ambientale). L’estrazione del petrolio e del gas di scisto americano, tra l’altro, è finanziata a debito. Di conseguenza, la crisi di questo comparto negli USA potrebbe produrre il fallimento a catena delle imprese produttrici nonché quello degli istituti di credito che le avevano finanziate (Bordoff 2020).
Come diretta conseguenza dei divieti riguardanti l’export di prodotti dual-use verso la Federazione Russa – oltre che della sopravvenuta carenza di fonti di approvvigionamento di capitali, causata dall’introduzione delle sanzioni nei confronti delle principali istituzioni bancarie della Russia e delle grandi aziende controllate da Mosca nel campo della produzione industriale e dell’estrazione di materie prime energetiche – i produttori russi furono costretti tuttavia a fronteggiare anche una drastica riduzione nella fornitura delle più recenti tecnologie, nonché un significativo aumento dei prezzi per i macchinari, i beni strumentali e i semi-lavorati di importazione. Tutto ciò non poté che causare notevoli difficoltà e contingentamenti nell’ambito della produzione industriale russa, contribuendo a determinare un esplosivo rialzo dell’inflazione unitamente agli effetti dell’ulteriore svalutazione del rublo russo, gravato a sua volta dalla fuga di capitali verso l’estero e dalla contrazione del prezzo del petrolio. Le crescenti difficoltà nella definizione dei pagamenti nei confronti dei fornitori esteri – avvertite dagli operatori economici russi sempre a causa delle sanzioni rivolte al settore bancario – comportarono quindi un drammatico incremento dei costi di transazione legati all’importazione di beni, persino di prima necessità, inducendo così il governo della Federazione Russa a reagire alle sanzioni dell’Occidente attraverso l’adozione di specifiche misure. La Russia introdusse le proprie contro-sanzioni nell’agosto del 2014, nella veste di un ampio embargo riguardante alcune tipologie di materie prime, prodotti agricoli e generi alimentari provenienti dai paesi “sanzionanti”.
La reazione russa, tuttavia, non fu soltanto negativa. La risposta di Mosca all’Occidente incluse anche il varo di un esteso programma nazionale di “sostituzione dell’import” (in lingua russa: “importozameshchenie”), mirante al rinnovamento tecnologico del tessuto industriale e produttivo russo, nonché alla ripresa dell’economia. Un’altra conseguenza logica della situazione venutasi in tal modo a creare per la Russia, inoltre, fu la necessità di reperire già nel breve termine nuovi investitori (Thoms e Bauer, 2016) e fornitori – ad esempio, in Cina – al fine di sopperire all’improvvisa penuria di approvvigionamenti, ponendo così le basi per la progressiva integrazione del sistema economico della Federazione Russa con le infrastrutture finanziarie e logistico-produttive dei paesi, per lo più asiatici, non aderenti al regime sanzionatorio (Gabuev 2015). Si rivela dunque facile comprendere come, dopo il varo delle contromisure da parte del Cremlino, questo processo di repentina riconversione verso l’Asia dell’economia russa sia in generale sopraggiunto a ulteriore detrimento delle quote di mercato detenute in Russia dai produttori europei e come, soprattutto nel caso dei prodotti alimentari, il cd. “pivot to Asia” deciso da Mosca abbia particolarmente danneggiato le aziende italiane (ICE 2018).
È interessante, peraltro, rilevare come parte della ripresa dell’economia russa, ufficialmente registrata da istituzioni finanziarie internazionali come la World Bank (+1,6% nel 2018, con outlook all’1,8%), potrebbe essere ricondotta anche all’abile strategia monetaria attuata da parte di Mosca, la quale ha inteso concentrarsi sulla diversificazione dei propri attivi in valuta statunitense attraverso l’aumento delle riserve nazionali in euro, yen e yuan e l’incremento delle riserve auree (Al Sabaileh, Giangregorio e D’angelo 2019). Secondo l’opinione di diversi analisti, tale mossa si sarebbe dimostrata nettamente positiva per l’economia della Russia che, riducendo progressivamente i propri asset in dollari americani, ha di fatto mitigato anche gli effetti delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti.
Con il varo delle sanzioni occidentali contro la Federazione Russa, hanno assunto sicura rilevanza gli sviluppi delle intese commerciali siglate tra l’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) e l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). I prodotti dei paesi del gruppo ASEAN, logicamente, sono fin da subito emersi per Mosca come la principale alternativa disponibile e accessibile al fine di continuare a soddisfare la domanda “repressa” dei consumatori russi per quelle tipologie di beni che i paesi dell’Unione Europea (loro malgrado) non hanno più potuto esportare in Russia. Una mossa inizialmente forzata, quindi, quella della Russia verso l’oriente ma ben presto sublimata dal Cremlino nell’ambito di una vera e propria strategia di riconversione politica ed economica (“pivot”) verso l’Asia, come d’altronde dimostrato dal significativo aumento degli scambi commerciali tra la Federazione Russa e il Vietnam seguito alla firma dell’Accordo di libero scambio tra Hanoi e l’EAEU concluso nel 2016, oltretutto in aperta concorrenza con le politiche poste in atto dall’Unione Europea nell’ambito della stessa area geografica.
La firma – il 17 maggio 2017 – dell’Agreement on economic and trade cooperation tra la Cina e l’EAEU – entrato in vigore nell’ottobre 2019 – rappresenta inoltre un passo avanti particolarmente significativo nel contesto dei processi di integrazione economica regionale dell’area eurasiatica, inserendo a pieno titolo i paesi e le strutture istituzionali dell’EAEU anche nel quadro strategico dell’iniziativa globale cinese conosciuta come “One Belt – One Road” (OBOR) o “Belt and Road Initiative” (BRI). In tal modo, la Russia ha colto il potenziale intrinseco al dialogo intergovernativo delineato nell’ambito della BRI anche in chiave di contro-bilanciamento nei confronti delle azioni di “containment” condotte dall’UE e dagli USA. Nel novero di tali iniziative, del resto, si possono annoverare lo sviluppo di sistemi telematici interbancari alternativi allo standard statunitense Swift, attualmente dominante su scala mondiale, insieme all’istituzione di strumenti finanziari swap di conversione diretta tra le rispettive valute (rublo russo–yuan renmimbi) e all’introduzione di meccanismi di pagamento sostitutivi del “sistema del dollaro”, basati sull’internazionalizzazione della moneta cinese digitale (Carlomagno, Falasca e Fulgenzi 2019, Amighini 2021).
È utile sottolineare, infine, come le dichiarazioni dei leader russi lascino intravedere la sussistenza di una matrice “protezionistica” in riferimento alle contro-sanzioni introdotte dalla Federazione Russa in risposta alle restrizioni occidentali. In più occasioni, infatti, i maggiori esponenti politici del governo russo hanno riconosciuto l’introduzione delle contromisure da parte della Russia come un’opportunità di “risveglio” e sviluppo per il paese, nel quadro di un più ampio programma di sostituzione delle importazioni e di ristrutturazione dell’economia russa cui il regime sanzionatorio internazionale ha quindi sicuramente contribuito a dare impulso, in chiave spiccatamente protezionistica nonché nazionalistica (nel contesto di un generale effetto di cd. «rally around the flag»). Ad ogni modo, il Presidente russo Putin ha confermato l’apertura del Cremlino nei confronti della possibilità di avviare un dialogo più costruttivo con l’Occidente e ha comunque assicurato la disponibilità, da parte di Mosca, a procedere alla rimozione delle proprie “contromisure” adottate nei confronti dell’UE nel caso sopraggiunga l’effettiva revoca delle restrizioni “politicamente distorsive” imposte alla Russia dall’Unione Europea.
Parliamo di “diritto all’autodeterminazione”. Kosovo e Crimea: è possibile tracciare un parallelismo tra le due vicende?
Il diritto all’autodeterminazione degli abitanti della Crimea è stato più volte invocato da parte del Presidente Putin – e da altri esponenti di spicco del governo russo – come un’imprescindibile prerogativa riconosciuta al popolo crimeano dalle norme consuetudinarie internazionali senza con ciò delineare, tuttavia, un collegamento diretto tra tale diritto fondamentale dei cittadini della Crimea e il ricorso all’uso della forza militare ad opera della Federazione Russa, con l’intervento dei «little green men» del Cremlino, ossia di gruppi operativi di soldati russi, senza insegne e consegne ufficiali, dislocati in sostegno delle aspirazioni indipendentiste della penisola (Bílková 2015). L’obiettivo primario dell’intervento militare “umanitario” della Russia in Crimea – così come autorizzato dal Consiglio federale di Mosca – rimaneva appunto quello di prevenire le minacce indirizzate alla vita, alla sicurezza e ai diritti umani dei cittadini russi presenti sul territorio dell’Ucraina fino alla definitiva “stabilizzazione” della tumultuosa situazione sociale e politica nella regione, risultando pertanto sussumibile nell’alveo della cd. “responsibility to protect” (Ronzitti 1986 e 2012).
Nel confutare le argomentazioni dell’Occidente rivolte a delegittimare, sul piano giuridico internazionale, la secessione della Crimea nonché la sua successiva annessione da parte della Federazione Russa – e nel respingere le accuse di ingerenza e aggressione nei confronti dell’Ucraina che, in crescendo, cominciavano a essere mosse al Cremlino da parte di Kiev, dall’Unione Europea e dagli USA – il Presidente russo ha a più riprese rievocato l’Advisory Opinion della Corte Internazionale di Giustizia “Accordance with International Law of the unilateral Declaration of Independence in respect of Kosovo” del 22 luglio 2010, circa l’assenza, nell’ambito del diritto internazionale, di un divieto con riguardo alle dichiarazioni unilaterali di indipendenza, quandanche proclamate in violazione delle norme costituzionali dello Stato che patisce il distacco territoriale.
Secondo la posizione perorata dalla Russia, nella corretta interpretazione della vicenda assumerebbe fondamentale rilevanza il contesto generale degli eventi nell’ambito dei quali la Repubblica di Crimea ha primariamente conseguito la propria indipendenza dallo Stato ucraino, per poi solo successivamente autodeterminarsi, ad esito del referendum del 16 marzo 2014, in qualità di nuovo soggetto federale della Federazione Russa. La Crimea, infatti, era stata già in precedenza territorio russo e la sua popolazione, perlopiù ancora russa o russofona, desiderava effettivamente ricongiungersi alla madrepatria. Le istituzioni amministrative locali della penisola, inoltre, erano già presiedute da rappresentanti politici espressione di tale orientamento di maggioranza tra la popolazione. Tra l’altro, le forze armate russe non avevano affatto la necessità di invadere un territorio dove erano già da tempo legittimamente presenti (ai sensi dell’Agreement siglato tra Mosca e Kiev nel 1997 e successivamente rinnovato nel 2010) e di cui, di fatto, detenevano il controllo militare forti del supporto delle istituzioni e del popolo.
Autorevole dottrina, tuttavia, sostiene che il comportamento della Federazione Russa abbia costituito un’inosservanza del divieto cogente dell’uso della forza internazionale di cui all’art. 2.4 della Carta delle Nazioni Unite e abbia, quindi, rappresentato una “aggressione” nei confronti della sovranità dell’Ucraina, in base alla definizione fornita nel 1974 dalla Risoluzione 3314 (XXIX) dell’Assembla Generale dell’ONU. La Russia, tramite la contrapposizione della propria forza militare, avrebbe infatti comunque impedito il legittimo ricorso all’uso della forza interna da parte del governo di Kiev, in risposta alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza adottata dalle autoproclamate autorità della Crimea e al conseguente svolgimento del referendum sull’annessione della penisola alla Federazione Russa, contrario alla Costituzione dell’Ucraina. Agli occhi dell’Occidente, inoltre, la condotta tenuta dalla Federazione Russa in merito agli avvenimenti in Crimea costituirebbe anche una violazione dell’Atto finale della Conferenza di Helsinki del 1975 sulla sicurezza e la cooperazione in Europa.
Nondimeno, l’antitetica argomentazione sostenuta da parte russa si focalizza proprio sull’interpretazione propugnata dal Cremlino in merito agli “antefatti” degli accadimenti che hanno condotto all’annessione della Crimea. Secondo Mosca, infatti, in conseguenza del “colpo di Stato anticostituzionale” (in lingua russa: “antikonstitutsionniy gosudarstvenniy perevorot” – Putin 2014) attuato dalle forze anti-russe e ultra-nazionaliste ucraine sostenute dall’Occidente (Kritskiy 2019), gli stessi abitanti della Crimea sarebbero stati indotti a temere che il nuovo assetto di potere, instauratosi a Kiev dopo la deposizione coatta dell’ex-Presidente Yanukovych, potesse verosimilmente porre in essere una compressione (anche violenta) dei diritti umani fondamentali della minoranza etno-linguistica russa, storicamente radicata nel territorio della penisola. Ancora una volta, nelle ragioni espresse da Mosca, viene quindi in rilievo il fondamentale riferimento al principio di Equal rights and self-determination of peoples, così come inteso nell’approccio giuridico-internazionalistico russo e, d’altronde, richiamato solennemente dallo stesso testo del summenzionato Atto finale della Conferenza di Helsinki.
Nel caso della Crimea, dunque, la Russia parrebbe rievocare e riadattare le formulazioni elaborate dalla Corte Internazionale di Giustizia in merito alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo riproponendo, in aggiunta, la stessa qualificazione giuridica fornita dalla Commissione internazionale indipendente sul Kosovo in relazione all’intervento militare della NATO nei Balcani. Tale intervento, infatti, era stato definito «illegal but legitimate» poiché ritenuto necessario e improcrastinabile da parte degli Stati dell’Alleanza Atlantica, sebbene attuato senza la previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Una definizione, quest’ultima, addotta oltretutto dalla Russia quale lampante esempio dei (presunti) “double standards” applicati dall’Occidente nella trattazione dei temi del diritto e delle relazioni internazionali, in particolare nei confronti degli Stati “non allineati”. In tale prospettiva, risulterebbero comunque comprensibili le ritrosie manifestate dall’Occidente nell’accogliere un diretto parallelismo tra le vicende del Kosovo e quelle della Crimea, anche in virtù degli innegabili rischi connessi alla possibile acquisizione del valore giuridico di “precedente” da parte di queste ultime (Patrick 2014).
Di non poco conto, ad ogni modo, risulta la circostanza che il Kosovo abbia proclamato la propria indipendenza senza far seguire a ciò l’incorporazione formale in uno Stato straniero. Un’eventualità, quest’ultima, che sarebbe comunque apparsa di difficile concretizzazione, in considerazione della natura composita della coalizione a guida NATO che aveva unito le forze contro Belgrado e nel limite in cui sia l’amministrazione internazionale da parte dell’ONU sia l’ampia dislocazione di basi militari straniere sul territorio kosovaro possano nei fatti differenziarsi da una vera e propria annessione. La Dichiarazione di indipendenza di Pristina, inoltre, è sopraggiunta ad esito di un sanguinoso conflitto, deflagrato al culmine di anni di discriminazioni e persecuzioni perpetrate dai serbi nei confronti della popolazione di etnia albanese, nonché in seguito a quasi 10 anni di protettorato da parte delle Nazioni Unite.
Orbene, quella appena descritta rappresenta proprio la situazione di grave crisi umanitaria che la Russia dichiara fermamente di aver inteso in ogni modo scongiurare tramite il suo intervento armato a tutela dei cittadini russofoni della Crimea, seriamente minacciati dalla avvenuta presa del potere a Kiev da parte di fazioni ucraine ultra-nazionaliste e anti-russe (Putin 2014) verosimilmente poco inclini alla tolleranza nei confronti della popolazione di lingua russa residente nella penisola (Calzini 2014, Fabbri 2014). Nell’ottica di Mosca, come già evidenziato, il ricorso all’uso della forza “esterna” da parte della Russia – non avendo peraltro prodotto alcuno scontro armato – sarebbe infatti consistito esclusivamente nella materiale interposizione dei militari russi (del resto già presenti nella penisola) tra gli abitanti della Crimea e le divisioni armate dell’Ucraina guidate dai “golpisti”, al fine di impedire che le seconde avessero la possibilità di reprimere (probabilmente nel sangue) i diritti fondamentali e il desiderio di autodeterminazione dei primi in esercizio della forza “interna” dello Stato ucraino (questa sì, ritenuta legittima ai sensi del diritto internazionale).
Nell’ambito del diritto internazionale, la consuetudine contempla naturalmente l’ipotesi della secessione come separazione di una determinata porzione di territorio da quello complessivo appartenente a uno Stato. Da tale distacco, inoltre, possono scaturire la nascita di una nuova entità statuale o l’incorporazione della stessa parte di territorio che procede alla secessione nel territorio di un altro Stato. Tuttavia, si ritiene che una valida secessione debba richiedere il pieno consenso – in qualunque modo internazionalmente lecito possa essere ottenuto – da parte del governo dello Stato che patisce il distacco. Ad ogni modo, anche nel caso in cui si tenda a porre in rilievo esclusivamente la concreta “effettività” del pieno controllo territoriale “indipendente” in tal modo acquisito dalle forze separatiste, tale condizione dovrebbe necessariamente realizzarsi senza l’ingerenza “esterna” e/o l’intervento militare da parte di uno Stato straniero in supporto della secessione.
Si pensi, al riguardo, alle due repubbliche caucasiche separatiste dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, de facto già costituitesi in “Stati” indipendenti sin dal 1992 ad esito di sanguinosi scontri con la Georgia, cui fece seguito il dispiegamento regionale di forze di peacekeeping con la partecipazione di un contingente militare russo. In conseguenza della ripresa degli eventi bellici che, nel 2008, videro infine prevalere l’esercito regolare russo – intervenuto in supporto delle forze indipendentiste dell’Ossezia del Sud contro il tentativo, da parte di Tbilisi, di ripristinare con la forza il proprio controllo territoriale sulla regione – la Federazione Russa ha riconosciuto formalmente l’indipendenza di entrambe le repubbliche il 26 agosto dello stesso anno, stipulando con esse accordi economici e militari.
Nel caso della Crimea, l’amministrazione locale nominata dal governo centrale ucraino è stata invece di fatto estromessa dalle forze rivoluzionarie filo-russe grazie al sostegno fornito dagli operativi inviati da Mosca. Questo, inoltre, avveniva in un momento di importante transizione politica interna, durante il quale il governo di Kiev si stava ricostituendo dopo gli eventi seguiti alla rivoluzione dell’EuroMaidan. In tali circostanze, quindi, si reputa che la Crimea non avrebbe potuto validamente separarsi dall’Ucraina e procedere all’incorporazione del proprio territorio in quello della Federazione Russa in quanto, oltre a coinvolgere le autorità centrali ucraine, avrebbe dovuto attendere che le stesse fossero pienamente ripristinate nell’esercizio delle proprie prerogative sovrane prima di proclamare la propria indipendenza e indire il referendum che sanciva il suo passaggio alla Russia.
L’Occidente, dunque, contesta alla Federazione Russa anche il mancato rispetto del principio di “non ingerenza” attraverso l’indebito esercizio di un condizionamento “esterno” sulle scelte politiche “interne” dell’Ucraina. Mosca, ricorrendo all’uso della forza, avrebbe persino interferito con la stessa autodeterminazione “domestica” del popolo della penisola nell’ambito delle legittime strutture amministrative e rappresentative garantite alla Repubblica autonoma della Crimea dallo Stato ucraino. Nel testo della Risoluzione UNGA “Friendly Relations”, infatti, il principio che vieta ogni intervento di carattere esterno nella domestic jurisdiction di qualsiasi nazione (art. 2.7 della Carta) viene tradotto nell’obbligo vigente per ogni Stato di esimersi dal porre in essere qualunque condotta che sia rivolta a esercitare un condizionamento, nel proprio esclusivo interesse, sulle scelte e sulle azioni di politica interna o internazionale di un altro paese. Tale divieto, inoltre, non si estende solo alla minaccia o all’impiego, diretto e indiretto, della forza militare ma riguarda anche l’adozione di misure coercitive unilaterali, ad esempio di carattere economico (Sciso 2014). In merito, rileva richiamare anche quanto affermato dalla Corte Internazionale di Giustizia in riferimento al caso in cui uno Stato fornisca il proprio supporto esterno ad attività armate sovversive condotte all’interno di un altro Stato: «These forms of action are […] wrongful in the light of both the principle of non-use of force, and that of non-intervention». (CIG, Military and Paramilitary Activities, Merits, 27 giugno 1986, § 205).
Al contrario, Mosca ritiene che la secessione della Crimea dall’Ucraina sia stato un atto legittimo da inquadrare nell’ambito di applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli (Saglimbeni 2015), con quest’ultimo inteso in quella particolare accezione che lo declina come il diritto di un gruppo di persone storicamente ed etnicamente definito, nonché fortemente radicato nell’ambito di una ben determinata parte del territorio di uno Stato, di procedere alla cd. “remedial secession” qualora tale gruppo si veda sistematicamente minacciato e/o reso oggetto di pratiche oppressive e discriminatorie da parte degli organi dello Stato centrale (Tancredi 2010 e 2014). Per il Cremlino, di conseguenza, la liceità del sostegno esterno profuso dalla Russia al fine di supportare la legittima autodeterminazione del popolo della Crimea risiederebbe proprio in tali argomentazioni.
Tuttavia, alla luce della dottrina internazionalistica maggioritaria in Occidente, nella vicenda della Crimea non sarebbero tanto i presupposti teorici della “secessione-rimedio” (quale forma di autodeterminazione “esterna”) ad apparire carenti sul piano giuridico quanto, in particolare, la disponibilità di riscontri fattuali che possano concretamente provare che le minacce e/o l’oppressione dello Stato ucraino nei confronti della popolazione russofona della penisola si fossero spinte a tale livello da prefigurare la legittimità del ricorso al principio di autodeterminazione al fine di sopperire alle gravi violazioni dell’autodeterminazione “interna” e dei diritti umani fondamentali subite dal popolo della penisola. Ad ogni modo, riprendendo le già menzionate parole del Presidente russo Putin, potrebbe quanto meno non apparire del tutto infondato constatare che: «[…] According to this logic, we have to make sure every conflict leads to human losses».
Risulta comunque alquanto forzoso ormai disconoscere che, allo stato attuale, Kiev – per di più inibita dalle proprie “ritrosie” politiche interne (non certo scevre da influenze “esterne”) verso l’ufficializzazione costituzionale del regime di autonomia amministrativa, linguistica e culturale per le province del Donbass pattuito a Minsk nel febbraio 2015 – non eserciti di fatto alcuna prerogativa sovrana tanto sulla Crimea quanto su buona parte delle proprie (ormai de facto ex-)regioni orientali da quasi due lustri.
Inoltre, seppure coscienti delle violazioni formalmente imputabili alla Russia sulla base del diritto internazionale “post-bellico” (quanto meno nella sua declinazione occidentale), come si può continuare a ignorare – fors’anche per un’ardita forma di strumentale e pragmatica convenienza politica – la vera natura ideologica ultra-nazionalista (quando non esplicitamente nazional-socialista) di alcune delle fazioni politiche ascese al potere in Ucraina sfruttando quegli stessi “pacifici” disordini insurrezionali (la cd. “Euromaidan”) che di certo non furono osteggiati dall’Occidente (Pierri 2014, Caruso 2014, Calzini 2014, Fabbri 2014, Castellano 2015), nonché trascurare con indolenza – magari interessata – quanto sarebbe verosimilmente potuto accadere nelle regioni etnicamente “russe” dell’Ucraina se la storia avesse preso un corso differente, malauguratamente analogo a quanto già tristemente sperimentato in altri tempi e luoghi?
In ogni caso, appare altresì rilevante richiamare il celebre parere con il quale la Corte Internazionale di Giustizia ha introdotto un elemento di flessibilità nella pratica del “non-riconoscimento” (Milano 2014). Le considerazioni della CIG concernenti la necessità di non deprivare di «any advantages derived from international co-operation» (CIG, Namibia (S.W. Africa), Advisory opinion, 21 giugno 1971, § 125) le popolazioni loro malgrado coinvolte nelle implicazioni di dispute territoriali – allora elaborate in merito alla situazione della Namibia – ben si prestano infatti a essere adattate anche all’attuale status della Crimea.
Crede che, in Occidente, la narrazione sulla crisi ucraina sia stata corretta o ritiene invece che ci sia stato un racconto parziale?
Considerare la prospettiva russa in riferimento agli sviluppi della Politica Europea di Vicinato (ENP) – avviata dall’UE con il coinvolgimento dei paesi un tempo parte dell’URSS – risulta fondamentale allo scopo di mitigare una certa auto-referenzialità interpretativa nella valutazione delle modalità in cui l’Unione Europea conduce la propria azione esterna in relazione allo spazio post-sovietico (Giusti 2017). La Russia, d’altronde, ha sempre giocato un ruolo di particolare rilevanza nelle aree est-europee e sud-caucasiche adesso coinvolte nell’ENP e, di conseguenza, non può che dimostrarsi determinata a mantenere su di esse ancora una forte influenza (Dundovich 2016). Pertanto, la reazione russa a queste importanti trasformazioni geopolitiche potrebbe essere opportunamente descritta attraverso un approccio realista neoclassico, considerando che il crescente ricorso a una politica estera dinamica, complessa e mutevole, al servizio di istanze “domestiche”, sembra sovvertire il principio neorealista secondo il quale solo il sistema delle relazioni internazionali influisce sulla condotta esterna degli Stati (Giusti 2012 e 2013).
Dopo la dissoluzione dell’URSS, infatti, la Russia ha cercato più volte di reintegrare e mantenere gli Stati ex-sovietici nella propria sfera di influenza (Giannotti 2016), certamente con il proposito di compensare il “vuoto” che la perdita dello status di potenza mondiale aveva causato nella sua dimensione “interna” ma, soprattutto, al fine di riaffermare il proprio controllo sulle dinamiche politico-economiche (e militari) della regione post-sovietica, considerata ancora come spazio “vitale” per la propria economia e per la propria sicurezza nazionale. Dunque, è in questa prospettiva che il percorso di integrazione (politica ed) economica costituito, dal 2015, dall’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) deve essere preso in considerazione.
La Russia ha ormai dismesso le velleità espansionistiche dei tempi dell’Impero ma non ha, per questo, rinunciato alla volontà di conservare una propria zona di interesse esclusivo “regionale” e “post-imperiale” (Giusti 2014) che possa continuare a essere politicamente, economicamente e culturalmente integrata alla Federazione Russa – oltre che gerarchicamente subordinata a Mosca – sullo sfondo delle intricate dinamiche di un ordine internazionale in via di ridefinizione. Del resto, è proprio questo il motivo dell’elevato grado di “attenzione” della politica russa nei confronti dei propri “vicini” e, in particolare, dell’Ucraina. Gli attriti che hanno recentemente caratterizzato i rapporti della Russia con altri attori di primo piano dello scenario internazionale derivano proprio dalla contrapposizione dei rispettivi interessi in questo spazio geografico collocato ai confini orientali del continente europeo (Kissinger 2014), dove il “retaggio” e i piani di Mosca arrivano pertanto a scontrarsi con le nuove istanze promosse dall’Unione Europea e dagli USA.
In tale contesto, invece, la crisi in Ucraina è stata pressoché univocamente presentata dall’UE e dagli USA come un vero e proprio scontro epico di civiltà che, in una prima fase, ha visto contrapposti i “difensori” della libertà e della democrazia “filo-occidentali” contro il governo corrotto e tiranno facente capo al Presidente “filo-russo” Viktor Yanukovych, per poi culminare, in un secondo momento, nella tragica “invasione” della Crimea e del Donbass ad opera dell’oppressore russo. Per Mosca, a sua volta, i moti di piazza e il conseguente coup d’État dell’Euromaidan, palesemente eterodiretti dall’Occidente e coordinati da noti gruppi politici radicali di ultra-nazionalisti anti-russi, non hanno rappresentato altro che l’ultima delle cd. rivoluzioni “colorate” finalizzate a colpire gli interessi geopolitici della Russia, da inserire nel filone di quelle già succedutesi in Georgia (rivoluzione delle “rose”, 2003), nella stessa Ucraina (rivoluzione “arancione”, dicembre 2004 e gennaio 2005) e in Kirghizistan (rivoluzione dei “tulipani”, 2005).
Ad ogni modo, il fatto che l’amministrazione del Presidente Yanukovych fosse realmente corrotta non sembra dare adito a molti dubbi, senza che ciò la possa tuttavia sensibilmente differenziare dai governi di altri esponenti politici in precedenza avvicendatisi nei palazzi del potere di Kiev (Bermejo García 2015). La realtà dei fatti, quindi, si rivela come sempre assai più articolata rispetto alla narrazione “interessata” che di essa si consuma ad opera dei contrapposti mainstream informativi. Dunque, risulta ora più che mai necessario rifuggire da facili e aprioristiche dicotomie basate su giudizi di valore politicamente condizionati (come quella – assurda – che pretende di distinguere tra ucraini nazionalisti ma filo-occidentali “buoni” e ucraini russofoni “cattivi”), al fine di non indulgere vanamente in una visione forzatamente dogmatica e solo parziale della verità, nel quadro complessivo di una nuova Guerra Fredda che si rivela invece essere di tutt’altra portata e origine.
Dal punto di vista geopolitico, quanto è utile mantenere un livello di tensione alto nei rapporti tra Unione Europea e Federazione Russa?
La “normale” cooperazione economica e commerciale tra l’Unione Europea e la Russia è, oggi, più che mai ostacolata dal conflitto di valori e dalla competizione in atto tra i percorsi alternativi di integrazione politico-economica regionale promossi nell’area post-sovietica rispettivamente da Bruxelles e da Mosca. Tuttavia – nonostante il serio deterioramento delle reciproche relazioni, scaturito dagli eventi susseguitisi in Crimea e nelle regioni orientali dell’Ucraina a partire dal 2014 – l’Unione Europea e la Federazione Russa rivelano ancora adesso una profonda interdipendenza strutturale a livello economico (Giusti 2014, Verda 2014) e ciò non può che costituire il presupposto per l’auspicabile ripristino di un dialogo costruttivo tra le due compagini al momento divise dalle rispettive (opposte) vedute sulla questione ucraina.
Nel quadro giuridico di legittimità rappresentato dal diritto internazionale, la lex specialis della normativa dell’OMC – rivolta a perseguire la stabilità e la prevedibilità delle relazioni commerciali tra i Membri attraverso la garanzia della “certezza” del diritto – emerge pertanto come un imprescindibile strumento utile al superamento di una condizione di impasse dalle trame altrimenti difficilmente districabili (tanto più nell’impossibilità dell’intervento di una risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per ovvie ragione legate al diritto di veto dei Membri Permanenti). Una contingenza, quella in parola, tutt’altro che scevra dal rischio di poter determinare inauspicabili implicazioni anche in riferimento alla concezione della “giuridicità” stessa del diritto internazionale, nell’eventualità in un cui questa annosa “guerra delle sanzioni” continuasse a essere trascinata (come ancora adesso) verso un’inerziale risoluzione esclusivamente extra legem.
Il quadro ordinamentale dell’OMC non può dunque che imporsi come viatico preferenziale (se non obbligatorio) per un sostenibile accantonamento della crisi, e ciò anche nel caso in cui i riferimenti giuridici e giurisdizionali da esso offerti dovessero essere chiamati a esplicare una funzione “soltanto” minoris generis, ossia prestarsi a fornire una solida base argomentativa e un legittimo consesso formale di mediazione allo scopo di garantire comunque la necessaria coerenza “giuridica” a un accomodamento dei dissidi tra le Parti ancorché maturato a livello sostanzialmente “politico”, nel contesto di un compromesso ormai ad ogni modo ineludibile tra «unlawful effectivités» e «international law» (Christakis 2015).
Probabilmente – una volta superata la stagnante “paralisi” prodotta dal protrarsi dei reciproci regimi di sanzioni e normalizzate le relazioni a livello diplomatico ed economico – l’Unione Europea e la Federazione Russa continuerebbero ugualmente a mostrare una persistente incompatibilità di identità e di valori, pur nel riconoscimento “pratico” dell’immancabile necessità di attuare una cooperazione “selettiva” su questioni di effettivo interesse condiviso (Joao 2017). D’altra parte, uno scenario alternativo all’auspicato riavvicinamento potrebbe tuttavia riservare anche un inasprimento del confronto già in atto, con conseguenze imprevedibili e comunque indesiderabili. Le sanzioni con cui i partner occidentali hanno inteso esprimere il proprio sostegno all’Ucraina nella crisi della Crimea e del Donbass, infatti, non hanno dimostrato l’attesa efficacia nell’evitare la fattuale cristallizzazione del nuovo assetto geopolitico dell’area geografica del Mar Nero. Di conseguenza, l’attuale configurazione territoriale della regione si presenta ormai de facto immodificabile a meno di un cataclisma di dimensioni mondiali: un’eventualità, quest’ultima, certamente non allettante per la Russia e, tanto meno, per l’Unione Europea e i suoi alleati.
Note
[1] Matteo Fulgenzi, classe ’82, è dottorando di ricerca in “Innovazione e gestione delle risorse pubbliche” (XXXIV ciclo, curriculum “Governo e relazioni internazionali”) e Cultore della Materia presso la Cattedra di Diritto Internazionale dell’Università degli Studi del Molise. Laureato con Lode in Giurisprudenza presso l’Università del Salento e in Management Internazionale presso l’ICN Business School – Grande École de Management di Nancy (Francia) e l’Università MGIMO di Mosca per le Relazioni Internazionali (Federazione Russa), ha ricoperto per anni il ruolo di Export-manager nell’organigramma di prestigiose aziende del Made in Italy.
Foto copertina: Copertina libro