Pancatalanismo, le elezioni catalane, la crisi politica spagnola e le proteste del caso Hasel: intervista a Steven Forti


Il pancatalanismo si propone di riunire in un futuro molto lontano le popolazioni che parlano la lingua catalana. Per comprendere al meglio questo fenomeno, ne parliamo con Steven Forti professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa e collabora con Limes, MicroMega, Rolling Stone Italia, Revista Contexto y Acción, Rivista il Mulino e Politica&Prosa.


 

Steven Forti è professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa.

Steven Forti è professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa. Le sue ricerche si concentrano sulla storia politica, culturale e sul pensiero politico europeo, con particolare attenzione ai nazionalismi, ai populismi e ai movimenti dell’estrema destra nell’epoca contemporanea. Scrive per Limes, MicroMega, Rolling Stone Italia, Revista Contexto y Acción, Rivista il Mulino e Politica&Prosa.

Cos’è il pancatalanismo?

Come per altri contesti geografici e linguistici, abbiamo avuto il pangermanesimo e il panslavismo, il pancatalanismo si propone di riunire in un futuro molto lontano le popolazioni che parlano la lingua catalana: la Comunità Autonoma Catalana, la Comunità Autonoma Valenciana, alcuni territori della regione dell’Aragona, la Catalogna del Nord (ossia Perpignano in Francia) e addirittura le Isole Baleari, in cui vi è una derivazione della lingua catalana così come nella Valenciana. Si nomina addirittura Alghero, dove c’è una piccolissima popolazione che ancora parla una versione antica del catalano. All’interno del pancatalanismo poi ci sono diverse derivate politiche e ideologiche. Connesso con esso si usa la denominazione di Paesi Catalani, Paisos Catalans in catalano.

Quanto è importante il pancatalanesimo, l’idea di unire tutti i Paesi Catalani, in Catalogna e nel blocco indipendentista catalano?

È abbastanza importante. Probabilmente è più importante adesso che pochi anni fa. Per diverse ragioni. Innanzitutto, perché l’indipendentismo che era minoritario fino a quindici anni fa oggi rappresenta a grandi linee la metà della popolazione catalana o almeno dei votanti alle elezioni regionali. Dall’altro lato, perché alcuni settori all’interno dell’indipendentismo più attenti alla questione hanno un peso maggiore all’interno del blocco indipendentista e nello spettro politico catalano rispetto a pochi anni fa. Penso all’indipendentismo di sinistra, soprattutto alla CUP [Candidatura d’Unitat Popular], formazione politica molto eterogenea e molto composita che è su posizioni anticapitaliste e indipendentiste. Loro sono quelli che usano di più il concetto di Paisos Catalans. Molto meno invece rivendicano il concetto o lo pongono come obiettivo politico i settori centristi e di destra dell’indipendentismo, rappresentati prima dalla vecchia  Convergencia i Uniò e oggi dalla formazione populista guidata dall’ex Presidente della Generalitat Carles Puidgemont Junts per Catalunya. È la sinistra indipendentista la più legata al concetto di pancatalanismo. 

Quali sono le probabilità di un processo indipendentista nella Comunità Autonoma Valenciana e nelle Baleari?

Il pancatalanismo non è praticamente sentito in queste regioni, al di là di piccolissimi gruppi legati all’indipendentismo di sinistra. L’indipendentismo è meno presente a Valencia e nelle Baleari. Nel regionalismo valenciano è sempre esistita una forte tensione tra chi si considera regionalista valenciano e non vuole avere niente a che fare con la Catalogna e chi invece rivendica un legame storico, culturale e potenzialmente politico con il nazionalismo catalano. Il concetto di Paesi Catalani è quasi inesistente al di fuori della Catalogna e men che meno nel sud della Francia, a parte gruppuscoli e movimenti politici molto ridotti. Nella Comunità Valenciana il partito regionalista Compromìs, nato dopo le proteste sociali del 2011-2012 e che governa la regione insieme a molti comuni dal 2015, non è indipendentista. A seconda del contesto e del momento può avere buoni rapporti con formazioni indipendentiste catalane, come Esquerra Republicana de Catalunya, ma non menziona nel suo piano politico i Paesi Catalani se non a livello retorico. Non toccano nemmeno la questione. Tali partiti non si possono neanche considerare partiti nazionalisti. Sono gruppi regionalisti autonomisti che chiedono maggiore autonomia, un migliore finanziamento, che criticano casomai il centralismo madrileno e come il Partido Popular [destra spagnola] ha gestito malamente le cose quando era al governo nei precedenti venti-venticinque anni. Non c’è alcuno spirito, oltre contesti ultra-minoritari, nazionalista o indipendentista.

Il 14 febbraio si sono tenute le elezioni regionali catalane. La frattura della società catalana è davvero così ampia? Cosa è cambiato dal 2017?

Se consideriamo i risultati elettorali sembrerebbe che poco sia cambiato. I partiti indipendentisti rispecchiano sempre metà dei votanti con una lieve differenza. In realtà però, secondo me, molto è cambiato. Da un lato, l’altissima astensione dovuta anche al Covid ci mostra che in numeri assoluti l’indipendentismo ha perso 600 000 voti. È anche vero che i partiti unionisti ne hanno persi di più ma comunque una parte importante dei votanti indipendentisti ha deciso di non andare a votare e in questo c’entra sicuramente una certa stanchezza per le dinamiche politiche che si protraggono da un decennio. Per alcuni pesa anche la frustrazione per un’indipendenza promessa ma che la maggioranza assoluta della popolazione catalana ha capito non essere un obiettivo realizzabile a breve-medio termine. Quel sogno promesso nel 2013-2015-2017 si è capito che non c’era. L’altra grande differenza dal 2017 è che sia nel blocco indipendentista che in quello non indipendentista hanno vinto le opzioni più favorevoli al dialogo. Se nel 2017 aveva vinto Ciudadanos, apertamente non catalanista, oggi hanno vinto i socialisti, che difendono il dialogo con Madrid. L’attuale governo socialista di Pedro Sanchez rigetta qualsiasi possibilità di indipendenza catalana o di referendum di autodeterminazione ma accetta il dialogo e critica come l’esecutivo di Rajoy aveva gestito le cose nel 2017. Nel blocco indipendentista poi, per la prima volta Esquerra Republicana è risultato il partito più votato superando il suo competitor indipendentista Junts per Catalunya, trasformazione del partito maggioritario catalano CiU. Questo dato è importante anche perché Esquerra si è presentato con un programma più incline al dialogo, rigettando completamente la possibilità di nuove dichiarazioni unilaterali di indipendenza e di ripercorrere il cammino suicida, sia politicamente che per la società, di rotture unilaterali con Madrid. Esquerra non difendeva lo stesso programma nel 2015 o nel 2017. Attenzione però, sia i socialisti che Esquerra praticano il dialogo ma declinano il dialogo in maniera diversa. Esquerra almeno retoricamente difende l’amnistia di coloro che definiscono prigionieri politici, cioè i leader catalani imprigionati dopo il 2017, e difendono un referendum di autodeterminazione concordato con lo Stato su modello scozzese. Su questa via, soprattutto il secondo punto, i socialisti non sono d’accordo perché un referendum di autodeterminazione non è contemplato dalla Costituzione. Non è contemplato da nessuna Costituzione, a parte quelle di Stati scomparsi come la Jugoslavia.

Invece Junts per Catalunya è meno incline al dialogo?

È meno incline al dialogo sicuramente. È un magma di difficile definizione, figlio delle trasformazioni di CiU, guidata prima da Jordi Pujol e poi dal suo delfino Artur Mas che compì la svolta indipendentista di

Convergencia, che è sempre stato un partito nazionalista ma autonomista. Al suo interno si sono unite recentemente figure provenienti da altri ambiti sia ideologici che di appartenenza politica. Io lo definirei un nazional populismo leggero. Ha sicuramente tratti nazional populisti, abbiamo visto anche nell’ultima tornata elettorale candidati come Canadell che hanno utilizzato un certo nazionalismo etnico, che strizzano l’occhio a posizioni di quel tipo o a posizioni apertamente xenofobe. Ma al suo interno ci sono anche figure che provengono da esperienze di sinistra. Puidgemont si è trasformato dopo il 2017 in uno pseudo lider messianico che cerca di tenere viva la fiamma dell’obiettivo indipendentista senza tenere conto delle distribuzioni di forze e cercare di ricucire i ponti. Capisco che non è facile neanche per lui perché o mantiene questa posizione o scompare dalla scena politica. Giocano a essere il partito intransigente tacciando di traditori chi all’interno dell’indipendentismo dimostra di virare verso una via più moderata e pragmatica e alzando la bandiera dell’indipendentismo puro e duro. Tanto che in campagna elettorale hanno tirato nuovamente fuori la carta del “se vinciamo promulgheremo una nuova dichiarazione unilaterale d’indipendenza”. Solo retorica. Propaganda per le proprie basi elettorali e per vincere la lotta elettorale all’interno del blocco indipendentista. È un partito molto liquido, non ancora strutturato sul territorio perché le sue trasformazioni glielo hanno impedito. Potrebbe anche virare di posizione. Credo però che per adesso manterranno questa posizione di rivendicazione pura e dura dell’indipendentismo continuando a fare pressioni su Esquerra per evitare che Esquerra occupi la centralità della politica catalana.

La CUP sarà ancora l’ago della bilancia nella formazione del governo catalano? Che ruolo può giocare En Comù Podem?

La principale differenza rispetto al passato è che ci sono due maggioranze possibili: una indipendentista con Esquerra, Junts per Catalunya e la CUP, o un tripartito di sinistra con Esquerra, il Partito Socialista ed En Comù Podem. La seconda opzione costituirebbe una vera svolta politica perché romperebbe i blocchi identitari. Ma è difficile che avvenga perché sia Esquerra che i socialisti sin dalla campagna elettorale si sono vietati a vicenda. Le distanze sono ancora grandi. Esquerra poi non ha il coraggio di fare questo passo. Non vogliono lasciare a Junts la bandiera dell’indipendentismo che a quel punto li taccerebbe di partito autonomista, un insulto qui. L’ago della bilancia quindi può essere la CUP nel primo caso o En Comù Podem nel secondo. Credo però che andiamo verso un nuovo governo indipendentista con Esquerra, che esprimerebbe per la prima volta il Presidente della Generalitat, Junts e l’appoggio della CUP, resta da capire se fuori o dentro il governo. C’è da dire che anche questo scenario non è così scontato. Junts non è abituato a essere il socio di minoranza di una coalizione. Hanno sempre espresso il Presidente della Generalitat. I due partiti poi [Esquerra e Junts] sono ai ferri corti. Non sono riusciti a trovare un accordo su un Presidente che potesse sostituire Quim Torra che è il motivo delle elezioni anticipate e hanno anche un’agenda politica diversa. Con che programma si presenteranno? Che stabilità avrà questo governo? In un momento critico come questo poi. In questi giorni si parla anche di altri scenari, per me però difficili, come una maggioranza composta da Esquerra, En Comù Podem e la CUP, una maggioranza di sinistra quindi ma che sarebbe debole nei numeri nella Camera catalana. Io non escluderei nemmeno una ripetizione elettorale. Resta da capire come si metteranno d’accordo Esquerra e Junts e cosa vorrà fare Esquerra che è il vero pivot, che ha nelle mani le diverse maggioranze. Avremo delle risposte il 12 marzo quando si costituisce il Parlamento Catalano e si eleggerà il Presidente e l’Ufficio di Presidenza e a quel punto serviranno delle maggioranze.

La Spagna ha vissuto anni di forte instabilità politica. Il cosiddetto “regime del’78” è ancora efficace?

Il regime del ‘78 come concetto, come sintagma, viene fuori con la crisi economica, con i movimenti degli indignados e le sue derivate politiche. Soprattutto Podemos ha parlato del sistema politico nato negli anni ‘70 come regime del ’78. Anche l’indipendentismo lo ha fatto. Il concetto di regime del ’78 arriva in un momento in cui il sistema politico spagnolo è in profonda crisi, una crisi multilivello e che in buona misura lo è ancora. Sono più crisi: una socioeconomica, figlia della crisi economica del 2008-2010 e delle politiche di austerità; una crisi politica perché ci si accorgeva che il bipartitismo non otteneva più i consensi che aveva ottenuto trenta anni prima; una territoriale con la crisi catalana e una istituzionale con l’abdicazione nel 2014 di re Juan Carlos. In quel contesto lì il sistema che si basa sulla Costituzione del ‘78 è entrato in crisi. Adesso il sistema è meno in crisi che sette anni fa, ciò però non vuole dire che goda di buona salute. Come ogni sistema politico ha bisogno di riforme. La Spagna oggi affronta una profonda crisi d’identità sulla gestione territoriale. D’altro canto, non è una cosa che riguarda solo la Spagna. Non è un sistema federale ma è decentrata. Un forte decentramento amministrativo. Io credo che ci vorrebbe una riforma di questo sistema per aggiornarlo. Non credo però che oggi ci sia una correlazione di forze sufficiente per proporre un cambio di sistema. Anche perché mi sembra non ci sia una proposta alternativa solida, ben disegnata e sviluppata. Non vedo alternative. Ovviamente però la questione di fondo è che per fare le riforme ci vuole il consenso e per avere il consenso ci vuole la capacità di arrivare a compromessi, di sviluppare dialogo e in Spagna ciò sembra molto difficile. Ci vorrebbe lo sforzo di entrambi i partiti. È vero anche che nel corso degli anni si è mitizzato la Transizione. Si parla spesso dello spirito della Transizione, lo spirito del consenso tra comunisti ed ex-franchisti che si sono seduti e hanno redatto la Costituzione. Manca quello spirito. La Spagna dovrebbe riuscire a saper dialogare.

Da quando la Spagna ha perso l’Impero nel 1898 ci sono volute due dittature in un secolo per tenerla unita. Lo smembramento interno è inevitabile?

Niente nella Storia deve essere dato per scontato. Tuttavia, all’interno di una cornice come quella dell’Unione Europea la secessione di parti di uno Stato sono impensabili oggi, al di là del colore della causa, e hanno anche poco senso se adottiamo una visione geopolitica. La Spagna ha profonde tensioni. Una certa narrativa tende a semplificare tutto parlando soltanto della questione basca e catalana, io credo che tutto si ricolleghi a un aggiornamento dello Stato delle Autonomie. Ciò è visibile nel fatto che sono sorti partiti regionalisti in zone che non hanno mai avuto nessun tipo di nazionalismo. Penso alla provincia di Teruel in Aragona. Penso a Compromìs. Penso al miglioramento elettorale del Blocco Nazionalista Galiziano. Questo si ricollega a una questione che va al di là dei soli nazionalismi. La Spagna mantiene al suo interno tre Comunità in cui una lingua regionale viene parlata da milioni di persone. È una particolarità. Dall’altra parte, come ha spiegato Sergio del Molino in Espana vacìa [in italiano edito come La Spagna vuota] si assiste a una perdita di popolazione in vari territori, specialmente nell’interno, legata a diversi fenomeni quali la globalizzazione ma anche al peso che Madrid e altre città hanno cominciato a giocare. Questa perdita di popolazione pesa sulla tenuta sociale di un paese. Ciò si salda con la difficoltà del sistema politico spagnolo di riconoscersi quale plurinazionale. La Spagna è uno Stato plurinazionale. Esistono più identità nazionalità, riconosciute nella Costituzione del ’78 che infatti parla di nazionalità. Poi possiamo discutere sulla distinzione tra nazione e nazionalità. Il problema è la forte reticenza di vari attori statali e di parte delle istituzioni ad accettare questa plurinazionalità e ad accettare una riforma. Per concludere, il problema delle varie anime regionaliste spagnole è più ampio e riguarda la tenuta sociale di un paese in periodo di globalizzazione, la difficoltà di parte dello Stato a riconoscersi de facto plurinazionale. Infine, non ci sono correlazioni di forza che possono far temere a breve o medio termine una divisione, una balcanizzazione del paese. Questa è più la retorica che la destra spagnola utilizza per attaccare i nazionalismi cosiddetti periferici. 

Nei giorni scorsi a Barcellona ci sono stati varie proteste per l’arresto del rapper Pablo Hasel, accusato di ingiurie alla Corona. La libertà d’espressione è davvero in pericolo in Spagna? Le proteste degli ultimi giorni contengono una matrice indipendentista? Avranno ripercussioni sulla formazione del governo catalano, con la CUP critica nei confronti della Generalitat e dei Mosos d’Esquadra?

Infatti, Esquerra chiedeva di dividere le trattative per la formazione del governo dalla critica alle misure e alle attuazioni della polizia catalana. Le critiche della CUP potrebbero influire. Credo che molto dipenderà da quanto dureranno le proteste. Se scemeranno si parlerà di altro. Se continuassero potrebbero avere un’importanza notevole sul posizionamento della CUP. E la CUP è fondamentale. La matrice indipendentista non credo sia diretta ma c’è molto di essa all’interno delle proteste. Io credo che le ragioni che hanno portato le persone in piazza siano essenzialmente tre: la condanna e l’arresto di Pablo Hasel connesso alla cosiddetta ley mordaza, la legge bavaglio, e alla difesa della libertà di espressione; la conseguenza di quest’ultimo anno di stand-by della vita sociale che soprattutto nella popolazione giovane e attiva nei movimenti sociali si è fatta molto sentire. La condanna di Hasel è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Hanno fatto sentire la propria frustrazione per il Covid. Questo secondo me pesa molto. In terzo e ultimo luogo, pesano le esperienze pregresse legate al movimento indipendentista e mi riferisco alle proteste del 2019 dopo le condanne dei leder indipendentisti quando Barcellona fu, passami il termine, messa a ferro e fuoco. Il profilo di chi è in strada in questi giorni assomiglia molto a chi era in strada un anno e mezzo fa, cioè giovani adolescenti e universitari, tra i 15 e 25 anni, e sicuramente molte delle persone sono le stesse. Non si parla esplicitamente della Repubblica Catalana o della libertà dei prigionieri politici ma molti di questi giovani hanno vissuto solamente come obiettivo politico nei loro anni di formazione il sogno della Repubblica Catalana. Un sogno, piaccia o meno, crollato. Allora, se tu prometti tanto e crei aspettative nelle persone ci saranno persone che dovranno gestire la propria frustrazione in ciò che hanno creduto. Credo ci sia anche questo elemento, che non è l’unico, nelle proteste a Barcellona. Ovviamente di fondo c’è un’altra questione: il 40% di disoccupazione nei giovani tra i 18 e 25 anni. Anche questo pesa, c’è una frustrazione più o meno cosciente verso gli sbocchi professionali attuali. Io unirei tutti questi elementi per spiegare ciò che sta succedendo. Sulla domanda che mi facevi sulla libertà di espressione io credo che la Spagna sia uno Stato democratico. Non manca la libertà di espressione ma esiste un Codice penale che punisce severamente questioni che potremmo definire di libertà d’espressione e le taccia facilmente di terrorismo. Qui ci sono due problemi. La minaccia che è stata per la Spagna democratica il terrorismo basco di ETA e la promulgazione di una legislazione antiterrorista, possiamo discutere se troppo severa o meno, con una ragione reale. La seconda ragione è la riforma del Codice penale promulgata dal PP negli anni di Rajoy con la ley mordaza che ha indurito la questioni riguardanti la libertà d’espressione. Io credo che queste cose debbano essere migliorate e credo che ci sia la volontà dell’attuale governo di farlo. La volontà di Podemos e del Partito Socialista di riformare il Codice penale non è mancata ma la Spagna ha vissuto anni recenti abbastanza complicati, prima di instabilità politica e poi di pandemia.


Foto copertina: Immagine web

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