Dopo la bocciatura il mese scorso alla Camera dei deputati della proposta di legge costituzionale sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica a costituzione invariata, presentata da Fratelli d’Italia, il tema della modifica della forma di governo, è nuovamente tornato ad animare il dibattito politico.
Dopo la bocciatura lo scorso maggio della proposta di legge costituzionale sul Presidenzialismo, presentata a Montecitorio da Fratelli d’Italia, il tema della modifica della forma di governo, è nuovamente tornato ad animare il dibattito politico, facendo riaffiorare tutte le contraddizioni riguardanti l’annosa questione. Effettivamente, anche alla luce delle vicende politiche italiane dell’ultimo decennio, è lecito sostenere come in Italia sia ormai terminata la stagione del bipolarismo imperfetto, inaugurata da Silvio Berlusconi nel 1994. E’ altresì opinione diffusa, suffragata da un intenso dibattitto accademico, che il nostro assetto istituzionale presenti delle anomalie che rendono il sistema un groviglio di poteri inestricabile, nel quale la possibilità di un governo stabile e soprattutto legittimato dal voto popolare ad agire nell’interesse generale, sembra diventata una chimera. Scomparsi i partiti cui i costituenti riconobbero un ruolo fondante nello Stato postbellico, i tempi sembrano essere divenuti maturi, per delle serie riforme e non semplicemente per interventi circoscritti e peraltro dagli esiti incerti quali la riduzione del numero dei parlamentari e l’abbassamento della soglia d’età per l’elettorato attivo e passivo. Se non fosse per l’unica organica riforma compiuta negli ultimi venti anni, quella del Titolo V della Carta, che ha complicato ulteriormente il quadro istituzionale, contribuendo a creare ancora maggior disordine nella macchina statale, nella società e nei conti pubblici, la nostra costituzione non è mai stata toccata nel capitolo più importante, ovvero quello relativo alla forma di governo. L’elezione diretta, nell’ambito di una ristrutturazione e ridefinizione delle competenze delle due camere di cui è composto il Parlamento, sono oramai argomenti dirimenti che non dovrebbero rimanere materia da confinare nello spazio angusto del dibattito accademico. La legislatura in corso ed in dirittura d’arrivo sembra aver solamente prolungato questo stato di indeterminatezza. Nell’ultimo mese abbiamo assistito come non mai a sperticati elogi della natura parlamentare della Repubblica senza che a nessuno sia venuto in mente che l’architettura costituzionale, immaginata e realizzata nel biennio 1946-1948, mostri visibili segnali di inadeguatezza per i tempi in cui viviamo. Lord Halifax sosteneva che le costituzioni sopravvivono solamente se si adattano continuamente alle mutate esigenze cui debbono servire e la nostra carta fondamentale si è effettivamente trasformata in quella nave poco manovrabile e destinata a finire sugli scogli, descritta argutamente da Gianfranco Miglio già trenta anni fa. Per tali ragioni appare improcrastinabile un serio dibattito che conduca ad un nuovo momento costituente nel quale ridefinire la forma di Governo così come i confini dei poteri in cui si articola lo Stato. Analizzare i limiti e porre dei rimedi al parlamentarismo integrale, come lo definì il giurista Tommaso Perassi, rappresenterà dunque uno snodo fondamentale per tentare di arginare il declino del nostro sistema politico. Coloro che si candideranno a guidare l’Italia devono avere ben presente questa necessità. Di certo le condizioni e il peso specifico del Parlamento (probabilmente anche del prossimo) lasciano immaginare che lo spazio per la riscrittura in senso presidenziale della Repubblica, sia davvero esiguo. Purtuttavia l’orientamento dell’opinione pubblica, stando anche ai recenti sondaggi, sembra tracciato. E l’esigenza maggiormente avvertita è quella di uno Stato che sappia affrontare le sfide di un mondo profondamente mutato rispetto a 74 anni fa. E’ avvertita con maggiore urgenza una nuova Italia che assuma una postura salda nel difficile e delicato scacchiere mondiale in cui i grandi spazi, come aveva lucidamente profetizzato Carl Schmitt, determinano gli assetti e soprattutto le relazioni internazionali; del resto la continuità di governo e come detto in precedenza, la sua effettiva legittimazione, sembrano essere quegli elementi in grado di assicurare all’esecutivo la forza necessaria per trascendere l’interesse particolare dei partiti, rappresentando effettivamente le aspirazioni del corpo elettorale da cui dovrebbe trarre l’autorevolezza e la pienezza delle funzioni. All’epoca dell’Assemblea costituente si scelse la forma di governo parlamentare per depotenziare l’azione del governo e aumentare invece l’importanza dei partiti riconoscendoli nella stessa Costituzione (art.49) come attori chiamati a determinare la politica nazionale. Il dettaglio di non poco conto, che sembra però essere sfuggito a chi si ostina a non voler cambiare, è che una Repubblica fondata sui partiti (Marco Pannella avrebbe detto sulla partitocrazia) non ha più le solide basi dell’epoca. Anche la nostra società, profondamente trasformata, sembra pronta per superare il lunghissimo dopoguerra iniziato nel 1945, contribuendo in questo modo al rilancio della revisione della Costituzione senza timori di confronto e soprattutto per sciogliere quei nodi che hanno bloccato per troppo tempo il paese, rendendolo secondo la definizione del costituzionalista Giovanni Guzzetta, una Repubblica transitoria.
Foto copertina: Roma – Particolare della fontana dei Dioscuri di fronte al Palazzo del Quirinale ph Enzo Abramo via Flickr