Ascesa dei leader e presidenzializzazione dei governi: la corrosione della democrazia nasce dal “cuore” dello Stato


[dropcap]Il populismo[/dropcap] è stato definito come “malattia congenita” caratterizzante le democrazie di ogni tempo.  A ciò l’unica “cura” davvero efficace risulta essere la pratica di una buona strategia di “prevenzione”, tramite cui si sappia apprestare dovuta tutela a quegli elementi costituzionali maggiormente esposti al rischio di esserne attaccati. Non a caso, tale rischio appare direttamente proporzionale al valore democratico che tali elementi in sé rappresentino.


 

 

 


Dal narodnicestvo russo al populism americano, passando per il populisme letterario francese[1] e il problematico “volkisch[2]” germanico, il concetto di populismo si è progressivamente dilatato, adattato alle contingenti situazioni storico-politiche, e utilizzato come una sorta di passe-partout per indicare la percezione di un momento di particolare crisi (sociale, economica, politica…).

Questo ha fatto sì che, progressivamente, la parola si sia allontanata dalla sua stessa base ideologica, (quella, ad esempio del sentimentalismo russo di Dostoevskij), e si sia invece sempre più connotata in senso di “plebiscitarismo”, legato alle difficoltà riscontrate dal complicato assetto delle società urbane, sempre più segmentate e poliedriche (soprattutto a partire dalle esperienze latinoamericane del XX secolo), sul quale prende il sopravvento la demagogia (il fascino del leader). Se allora è inteso dal punto di vista prettamente sociologico, il populismo non ha mai cambiato realmente volto, in quanto sta pur sempre a connotare il senso di smarrimento, unito al forte desiderio di “ritrovo” (o ancora più forte di “conservazione”) dei propri ideali da parte della popolazione, la quale, a sua volta, ha aderito sempre più “in massa” a questo comune sentire.

Se però ci si focalizza esclusivamente sul piano politico-istituzionale, (seppure tale approccio non può sicuramente pretendere di definire correttamente il fenomeno), si scorgeranno quei caratteristici “legami” tra democratizzazione di un territorio e ascesa dei populismi. Con ciò non si vuole certo creare un sistematico (e d’altra parte errato) parallelismo, ma un dato sicuramente certo è questo: in ogni caso in cui, al verificarsi di una transizione di tipo sociologica-economica sia stata data risposta sul piano politico-istituzionale con l’idea di “più democrazia”, “diversa democrazia” o “democrazia più semplice”, il risultato ottenuto è stato, in gran parte dei casi, un cambiamento in peggio della forma di governo.

È importante sottolineare infatti che la nozione di “forma di governo”, di distinzione piuttosto recente rispetto al concetto di “forma di Stato”, mantiene con quest’ultima pur sempre un sostanziale rapporto di “strumentalità”, essendo il c.d. “Stato -apparato” fondamentalmente un mezzo per il perseguimento dei fini e dei valori che l’ordinamento statale si propone nel suo insieme di realizzare.
Tuttavia questo stretto rapporto può in qualche modo corrompersi nel momento in cui l’una prenda il sopravvento sull’altra: le scelte assunte da parte della “forma di governo” (ovvero le modifiche apportate a questa) influiscono a tal punto sulla forma di Stato che ne comportano una  progressiva “destrutturazione”, per non dire una completa “deriva”[3].
Dunque si comprende quanto sia fondamentale che le scelte (così come le “non-scelte”) in merito alla forma di governo all’interno di uno Stato democratico-costituzionale siano quanto più ponderate possibili, e sempre rivolte a preservare la sua fisionomia pluralistica. Tutto ciò, proiettato attraverso quel che si è detto riguardo alla “minaccia” populistico-demagogica che incombe in maniera oramai conclamata sulle democrazie attuali, le cui società  fanno i conti con le criticità di globalizzazione, deterritorializzazione, perdita di identità, comunitarizzazione, conduce al risultato di ridimensionamento di tutti quegli istituti che maggiormente tutelano la stessa democrazia (costituzionale), in particolare il sistema partitico (che porta con sé i temi della formula elettorale, dei metodi di finanziamento, fino alla funzionamento stesso del Parlamento) e il sistema giudiziario. Non è un caso che oggi, sempre più spesso, si sente parlare da una parte del fenomeno di “presidenzializzazione” della politica, e dall’altra di un controverso “populismo giudiziario” che sta prendendo il posto della reale natura dell’azione giudiziaria.

Tenendo conto che si può parlare davvero di “forma di governo” solo se alla base vi sia uno Stato democratico (ovvero liberal-democratico), poiché solo in tale contesto è possibile pensare alle separazione dei poteri e ad un effettivo sistema di checks and balances, (c.d. “pesi e contrappesi”), essa viene a determinarsi nelle sue peculiarità (di tipo presidenziale, semi-presidenziale, parlamentare..) soprattutto in virtù del modo d’essere[4] del potere esecutivo (quindi in base ai modi in cui questi viene nominato/eletto e ai poteri che esercita). A ciò va aggiunto il dato per cui, in tutti i casi, a prescindere dalle sue attribuzioni, è certo che l’Esecutivo faccia parte sicuramente della categoria dei c.d. “pesi” all’interno della struttura costituzionale, a partire dal rilevante ruolo svolto (seppure quasi sempre affiancato dal Parlamento) nella determinazione dell’attività di indirizzo politico.

Mettendo insieme i due aspetti appena sottolineati, si può agevolmente arrivare alla conclusione per cui, più tale “peso” è libero di aumentare, (in virtù dell’indebolimento degli altri componenti), più i “contrappesi” non saranno in grado di sostenere tale sbilanciamento, ed il tutto si rifletterà certamente sulla forma di Stato. Tradotto in termini pratici, riguardo alla progressiva emarginazione del ruolo dei partiti (e nel complesso dell’intero Parlamento), che è attualmente provocata da diversi fattori esterni (quali economico-finanziari e comunitari-internazionali), ed interni (profili endo-governativi, tra cui il difficile rapporto tra l’evoluzione sociale-tecnologica che supera i normali metodi di normazione[5]), ma che in realtà si suole attribuire ad altre cause, quali la loro incapacità,  instabilità e tendenza alla corruzione, crea terreno particolarmente fertile per le tendenze demagogico-populiste, spesso guidate proprio da capi-partito (che nella maggior parte dei casi hanno perso anche tale denominazione) le cui idee però mal si confanno alla stessa forma di governo democratico-pluralistica, (spesso si auto-definiscono persino anti-sistema) pur dichiarandosi favorevoli ad una “migliore/maggiore/diversa” democrazia[6].

La crescita della “supremazia” del leader a partire dall’interno della stessa organizzazione (partitica), favorita in maniera determinante dall’uso dei mass media e dalla progressiva sostituzione dei metodi elettorali interni con pratiche spiccatamente plebiscitarie (notevole è stato l’aumento del ricorso al metodo delle “primarie”), ha innescato un vorticoso processo di “personalizzazione” dei partiti[7], che si riflette, in virtù dell’ampio consenso ricevuto, in “presidenzializzazione”[8] dell’intero sistema politico una volta che la coalizione sia diventata la maggioranza al potere.

Alla competizione tra partiti (dunque la competizione tra idee, programmi, punti fermi, discussioni ecc..) si è sostituita infatti sempre più la pratica dei “faccia a faccia”, degli scontri concentrati esclusivamente sul “personaggio” del capogruppo, (aspirante premier, o presidente a seconda dei casi), dietro ai quali il gruppo stesso rimane quasi sempre nell’ombra, coperto dall’immagine preponderante del suo “eletto”, e ridotto a mero strumento interinale di gestione e di ordinaria amministrazione. Va da sé che sul piano più ampio della “forma di Stato”, questa modalità di funzionamento della “forma di governo” (identitaria e fortemente distante dalla società)[9] mal si concilia con il principio pluralistico e le dinamiche dialettico-oppositive del sistema liberal-democratico: all’esatto contrario, essa porta a basare le scelte su situazioni contingenti e peraltro occasionali (come quelle determinate da fattori congiunturali del sistema economico-finanziario)[10], a preferire politiche protezionistiche e spesso discriminatorie nei confronti dei non-cittadini (in base alla necessità di mantenere alto il tenore dei consensi interni degli elettori), a diffidare sempre più della “bontà” delle funzioni svolte dagli organi di garanzia (in primis, gli organi giurisdizionali).

Tuttavia, il fattore certamente più pericoloso di un tale tipo di involuzione è che, pur comportando tali notevoli cambiamenti al “cuore” della struttura costituzionale, il più delle volte  questa si “muove” e agisce senza lasciare tracce (formalmente), né nel testo costituzionale, e neanche sul piano legislativo (essendo la decretazione d’urgenza e la prassi i punti forti dell’azione esecutiva), con ciò contribuendo a rendere ancora più impercettibili le sue dinamiche nocive e ancora più impassibili i cittadini, convinti che si stia così per realizzare la vera democrazia “del popolo” , una democrazia “integrale[11] .


Note

[1] B.Bongiovanni, op.cit. : «Nel frattempo, stimolata dalla precedente comparsa della parola inglese, nel primo decennio nel Novecento compariva in francese la parola populiste, e non solo come corrispettivo del termine di origine americana, ma anche, e soprattutto, al fine di tradurre il russo narodnik, ovverossia, come recitava il Larousse mensuel illustré del 1907, il “membro di un partito che in Russia sostiene tesi di tipo socialista”: un partito che era evidentemente quello socialista rivoluzionario, largamente maggioritario, appunto in Russia, rispetto alla socialdemocrazia, e incontestabilmente collegato con la stagione eroica del populismo. »; e ancora: «Sul terreno letterario, tuttavia, il termine ebbe, quantomeno in Francia, qualche risonanza positiva. Nel 1929 venne infatti steso, da André Thérive e Léon Lemonnier, il Manifeste du roman populiste, che intendeva aprire la letteratura, e la forma-romanzo in modo particolare, all’universo popolare, alle condizioni di vita e di lavoro del popolo delle città e dei paesi, ai sentimenti degli operai, degli artigiani e dei piccoli commercianti, abbandonando nel contempo da una parte lo sterile cerebralismo delle iper-intellettualistiche avanguardie letterarie e dall’altra l’esasperato “psicologismo” del romanzo borghese. »

[2] B.Bongiovanni, op.cit., : «Il termine volkisch, nei contesti a valenza filosofico-politica, in genere non viene tradotto, perché dato il suo carattere insieme composito ed evocativo, è considerato intraducibile. Volgerlo in “populista” sarebbe certo innaturale e fuorviante, ma qualche elemento di affinità potrebbe essere rintracciato. I cosiddetti Volkischen, comunque, per il fatto di richiamarsi direttamente a ciò che è originario, sono stati considerati da Armin Mohler il primo dei cinque raggruppamenti essenziali che concorrono a formare la nebulosa della “rivoluzione conservatrice”. […] L’elemento popolare o populista compreso nel Volkisch precede comunque, in quanto natura e spirito, la realtà meramente artificiale dello Stato, e resta ontologicamente ed eticamente al di sopra di questa: rappresenta infatti il patrimonio primigenio, e non scalfibile, dello “stare assieme” proprio dei Tedeschi ».

[3] Così, anche quando formalmente la struttura costituzionale rimanga intatta, i cambiamenti che incidono sulla forma di governo possono porsi in irrimediabile contrasto con i principi costituzionali: come durante il regime fascista, che mantenne in vigore lo Statuto albertino , ma adottò riforme sostanzialmente contrarie ad un assetto democratico (come l’istituzione nel 1925 del nuovo “Capo di Governo” e nel 1939 la sostituzione della Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni”).

Così anche J.Snyder, From Voting to Violence: Democratization and Nationalist Conflict , Norton 2008, 118 in  commento all’ascesa della politica nazionalista di Hitler :  «Racist authoritarian nationalism triumphed at the end of Weimar Republic not despite the democratization of political life, but because of it».

[4] Cfr. A.Spadaro, L’evoluzione della forma di governo italiana: dal parlamentarismo rigido e razionalizzato al parlamentarismo flessibile, con supplenza presidenziale, Quaderni costituzionali, n.1/ 2019, forumcostituzionale.it, 7 : «Per questo, come definizione di “forma di governo” fra le molte possibili, da sempre preferiamo la seguente, che espressamente cerca di tener conto anche di elementi caratterizzanti la forma di Stato: dunque, […] “ il complesso dei ricordati cinque fattori che concorrono a determinare l’assetto del potere esecutivo in rapporto agli altri (definendone il particolare equilibrio nell’ordinamento), assetto che consente di individuare gli organi di indirizzo politico (pesi), distinguendoli da quelli di controllo e garanzia (contrappesi)”».

[5] A.Spadaro, Ibidem, 17, : «è noto che spesso il mondo cambia [..] indipendentemente dalla capacità del diritto internazionale di indirizzarlo e normarlo. Ma anche laddove il diritto appare più hard (e non soft) –ossia sul piano nazionale- esso, a ben vedere, incontra comunque dei “limiti” molto forti. Quasi sempre la società è “più avanti” – o almeno […] “più veloce” –di quanto non lo siano diritto e Stato. In particolare , l’accelerazione sul progresso sociale delle nuove tecnologie […] è impressionante. Accenno solo ad alcuni aspetti che ci fanno capire che siamo ormai nel tempo della post-modernità e che le nuove società, non solo occidentali, tendono ad affrontare le nuove sfide indipendentemente dalle “forme di governo” e , quindi, dagli indirizzi politici nazionali..(segue)».

[6] A.Spadaro, ibidem, 9 : «Il fatto molto preoccupante con cui fare i conti, oggi più di ieri, è che il fenomeno della manipolazione populistica del consenso, che degenera in mero assenso passivo, non è più tipico dei (e prevalente nei) regimi totalitari, ma ormai sembra caratterizzare abbondantemente “anche” le democrazie costituzionali.» Gli esempi di consenso (se ancora così si può chiamare) dato a personalità poste alla testa di gruppi alla ricerca della sola legittimazione popolare sono svariati, se solo passiamo in rassegna le situazioni attuali nelle democrazie più consolidate in Europa (si vedano ad es. le forti influenze del Front National in Francia, della Lega e del Movimento (5 Stelle) in Italia, del Brexit party in Inghilterra, e ancora del Partji voor de Vrijheid (partito per la Libertà) e del BZO (Alleanza per il futuro dell’Austria) rispettivamente per Olanda e Austria), le quali idee spesso sono addirittura sconosciute agli stessi elettori, essendo questi fortemente attirati unicamente dal grande appeal che i leader riescono a guadagnare su di loro. Un fatto che peraltro avvicina gli Stati europei al  modo di “fare politica” tipico della più grande forma di governo presidenziale, gli USA, pur non essendo anche questi immuni dall’ondata populistica : non è un caso che negli Stati Uniti, prima ancora che nel vecchio continente, si sia fatto ricorso al coinvolgimento dei cittadini attraverso gli strumenti offerti dall’alta tecnologia (Open Government, crowdsourcing, polls..), spesso utilizzate a favore di un determinato candidato alla Casa Bianca, com’è successo nel 2012, quando vi è stata la riconferma del Presidente B.Obama, da allora definito “Big Data President”. Gli ampi successi scatenati dalle “nuove democrazie” (web-democracy e simili), contrastano spesso con le stesse “regole del gioco democratico”, in primis con quanto effettivamente risulta dalle elezioni popolari (per rimanere sul territorio Statunitense, basti ricordare che lo stesso B.Obama fu eletto dal 34% degli aventi diritto, il 52% per lui, sul 62% dei votanti; giocando a favore di questo paradossale sistema la presenza dei c.d. grandi elettori, che permettono al candidato di vincere, nonostante il più basso numero di voti popolari: D.Trump, salito alle ultime elezioni nel 2016, ha avuto il 47,3% dei voti, contro il 47,7% dell’avversaria H.Clinton). Ancora, sul punto, A.Spadaro, Ibidem,9 : «Il dramma è che le correnti populistiche pretendono di essere democratiche, ma rifiutano contemporaneamente la democrazia liberale (essendo insofferenti alle “limitazioni” di volontà popolare), la democrazia pluralista, (essendo insofferenti alla mediazione delle formazioni sociali : non a caso è feroce la critica ia partiti) e la democrazia personalista (essendo insofferenti alle garanzie processuali, in nome di facili giustizialismi, per lo più mediatici)».

[7] A.Fumarola, Le tre facce della presidenzializzazione della politica. Come premier e Presidenti comunicano con i loro elettori, wordpress.com, 1 gennaio 2011, : «Tale processo ha indebolito sostanzialmente le strutture del vecchio partito di massa, considerato da molti obsoleto, dando vita ad organizzazioni “leggere”, basate sul leader. Questo si è avuto per una serie di motivi. I mass media, negli ultimi anni hanno incentrato la propria attenzione sempre più sulla figura del leader, considerato in grado di influenzare il comportamento elettorale dei cittadini. E ciò è avvenuto in Italia già negli anni Ottanta con il leader del PSI B. Craxi. Inoltre, anche in Europa, è stata introdotto il ricorso a “pratiche plebiscitarie”, come le primarie, con lo scopo, da parte del leader, di scavalcare le oligarchie di partito e porsi in comunicazione diretta con i cittadini. In tal modo il leader si è sentito sempre più forte di una investitura diretta da parte dei cittadini, convinzione che ha permette di “bypassare” le opposizioni interne al partito. T. Blair ha fatto dell’uso di queste pratiche lo strumento per la scalata al vertice del Labour Party e per accrescerne il proprio potere […] Negli USA invece questo processo ha raggiunto l’apice negli anni Sessanta, quando l’introduzione delle direct primaries e del finanziamento diretto ai candidati e non più ai partiti, uniti ad un crescente sentimento antipolitico verso i partiti e le ideologie, ha svincolato definitivamente i leader dalle oligarchie di partito, rendendoli direttamente responsabili verso i cittadini». Ma l’esempio che rimane il più emblematico in merito al rapporto tra personalizzazione (del partito)/presidenzializzazione (della forma di governo) è quanto avvenuto in Francia in seguito al passaggio dalla IV alla V Repubblica (riforma costituzionale del 1958): proprio per superare l’instabilità della prima (la c.d. “repubblica dei partiti”), si introduce dapprima il sistema parlamentare fortemente razionalizzato, dove il capo dello Stato (che “assicura il regolare funzionamento dei poteri pubblici e la continuità dello Stato”, art 5 Cost.) viene eletto in maniera indiretta (sulla base di un sistema di “grandi elettori”, coniato sull’esempio americano). Successivamente, come era prevedibile, l’esecutivo assumerà sempre più potere, fino ad arrivare ad introdurre l’elezione a suffragio universale (nel 1962). È nota in questo quadro la grande influenza esercitata sulla popolazione dal Presidente eletto C. De Gaulle, che fa ampio uso dei mezzi di comunicazione, (soprattutto la televisione), organizzando celebri conferenze stampa (c.d. “grandi messe”) e rivolgendo il suo appello direttamente ai cittadini (in particolare egli riuscì così a superare l’unica mozione di censura approvata dall’Assemblea Generale durante le V Repubblica contro il governo Pompidou, sciogliendo le Camere e chiamando il corpo elettorale ad approvare il progetto di revisione costituzionale (ex art 11 Cost., e non tramite il normale procedimento ordinario ex art. 90 Cost.), poi ad eleggere la nuova Assemblea, nella quale il partito gollista ottenne chiaramente la maggioranza. Di qui in poi il forte legame tra organizzazione partitica e leader candidato alla carica di Presidente sarà un fattore inevitabile e determinante di tutta la vita politica francese: come dimostrato altresì dalla nascita del nuovo Partie Socialiste (PS) nel 1971, come struttura profondamente rinnovata e “personalizzata” sulla figura del suo leader (futuro Presidente), F.Mitterand.

[8] È innegabile sottolineare quanto negli ultimi decenni la figura del premier (sia nella veste di Presidente dell’Esecutivo, sia in quella di Capo dello Stato, a seconda della forma di governo), sia cresciuta quanto alla sua importanza (politica), e alla sua popolarità: a partire da figure passate alla storia (da quelle dei Presidenti americani F.D.Roosvelt, vero iniziatore del “Presidential government” o di R.Reagan; a quella di M.Tatcher, la “Lady di Ferro inglese”, che ha determinato in tutta Europa il passaggio alle politiche dinamiche e funzionali  del “policy making” , promosse prevalentemente dall’Esecutivo). Da allora le rilevanti difficoltà incidenti sulla c.d. “governabilità” (quali internazionalizzazione, devolution, federalismo..), hanno spinto anche le forme di governo più orientate tipicamente al “parlamentarismo” a porre maggiore attenzione sul ruolo degli Esecutivi : ciò si è potuto verificare il Germania (dove il Cancelliere gode di poteri molto ampi, tra cui quello di essere un vero e proprio “negoziatore” tra le istanze nazionali e quelle dei Lander), e in Italia (seppur con meno evidenza, dato che almeno in teoria, il Presidente del Consiglio non dispone delle stesse attribuzioni di un premier inglese o del Cancelliere tedesco). Sulle recenti evoluzioni in questo senso della vicenda italiana, V. A. Spadaro, Ibidem, Parte II, l’Evoluzione della Forma di Governo, 20 ss.

[9] L.Ferrajoli, op.cit., 520 : «Scomparsi i partiti quali luoghi della formazione della volontà popolare, il ruolo dei cittadini si è ridotto a quello di spettatori passivi chiamati a scegliere con il voto, come i consumatori sul mercato, i partiti in competizione verso i quali, se non il loro consenso, va il loro minore dissenso. Ovviamente questa mutazione è stata favorita dalla degenerazione degli attuali partiti, trasformatisi in organizzazioni oligarchiche tendenzialmente autocratiche e abissalmente distanti dalla società. È tuttavia accaduto che l’avversione a questi partiti ha finito per indirizzarsi contro i partiti in quanto tali, e quindi per associare, in un comune disprezzo, anche il modello costituzionale dei partiti quali luoghi nei quali i cittadini dovrebbero poter concorrere a determinare la politica dei loro rappresentanti». Anche H.Kelsen, Essenza e valore della democrazia, (1929), tr.it. G.Melloni, in Id. , la Democrazia, Il Mulino, Bologna 1981, cap II, 55-57, si esprime così: «L’ostilità nei confronti dei partiti è in ultima analisi un’ostilità nei confronti della democrazia, equivalendo alla negazione del solo strumento tramite il quale può essere organizzata la rappresentanza politica e, prima ancora, la partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica». E, per completezza, A.Spadaro, Costituzionalismo vs Populismo, op.cit, 12 : «Bisogna dunque riconoscere che in qualche modo –per ragioni strutturali e intrinseche al mercato politico– un certo tasso di “corruzione” è fisiologico al sistema democratico, che sancisce lo scambio dei voti dei governati con provvedimenti, essenzialmente legislativi, dei governanti. Ne consegue non solo-come tutti sappiamo-che la major pars non è sempre la melior pars, ma che la stessa formazione della melior pars non passa necessariamente da un processo democratico; anzi raramente essa è frutto di un processo democratico. Il che non significa che il processo democratico non sia indispensabile. Semplicemente la forma democratica di legittimazione delle scelte è- si badi- solo “una” di quelle possibili ».

[10] A tal proposito si ripropone (oggi più che mai) l’annosa querelle tra tecnica e politica. Una questione che nasce in concomitanza con l’avvento dello Stato Moderno (XVII-XVIII secolo) , allorchè la creazione di un apparato burocratico stabile ed esperto nei vari settori affianca la figura classica del “politico”, per proseguire poi nel XIX e XX secolo, quando lo “Stato amministrativo” raggiungerà l’apice del successo, aiutato dalle suggestioni sempre più potenti che la “tecnica” provoca sull’essere umano, fino a divenire (come dirà Schmitt) una vera e propria “fede religiosa”. Nell’età dell’alta tecnologia, la dialettica si fa così accesa che essa pone direttamente il problema di quanto la tecnica stia ormai inesorabilmente modificando il modo di gestire e organizzare la vita politica. Sul punto, si esprime A.Sciortino, Il governo tra tecnica e politica: le funzioni, Atti del seminario annuale dell’associazione “Gruppo di Pisa”, Como 20 novembre 2015, in Il Governo tra tecnica e politica, (a cura di) G.Grasso, Editoriale Scientifica, 2016, 17 ss, con un giudizio riguardante in particolare il caso italiano, ma che si può agevolmente applicare anche al resto dei Paesi membri dell’UE : «Il rapporto tra tecnica e politica nell’esercizio della funzione normativa da parte del governo può essere analizzato da varie angolature, da quella relativa alla scelta del tipo di atto a quella concernente la qualità “sostanziale” e i contenuti dell’atto stesso, a quella relativa alla tecnica redazionale dell’atto normativo. Tutti e tre i profili aprono scenari teorici di grande complessità […]Sotto il primo profilo la scelta del tipo di atto normativo […] è fortemente condizionante e, declinata attraverso il rapporto tra tecnica e politica, ci rimette dei dati preoccupanti. Mi riferisco in primo luogo a tutte quelle misure adottate dal Governo italiano di contenimento della spesa introdotte nei notissimi decreti-legge Salva-Italia, Cresci-Italia per esemplificare, o ai decreti del Presidente del Consiglio a contenuto non regolamentare che incidono su fonti primarie, postergando ad esempio l’efficacia di diverse disposizioni di incremento di entrata e di contenimento della spesa, o a tutti quei decreti–legge che, anticipando parti della manovra finanziaria, vengono trasfusi in maxi-emendamenti, su cui viene poi posta la questione di fiducia al momento della conversione in legge. Ciò ha portato a modelli deliberativi sostitutivi del dibattito parlamentare, tutti motivati dall’urgenza di contrastare gli effetti della crisi economica, ma che rischiano di far pagare un prezzo troppo alto alla democrazia rappresentativa. Ciò risulta particolarmente allarmante nel processo decisionale legato alla finanza pubblica che sconta già il peso della rigida tempistica imposto dagli strumenti di governance economica europea sospingendo il Parlamento (ma in generale i Parlamenti nazionali degli Stati membri) in un alveo in cui il suo ruolo diviene davvero marginale, per lo più ratificatorio di decisioni prese in altra sede». Gli esempi più significativi di quanto oramai i governi nazionali (dunque gli “Stati” in generale) siano influenzati  profondamente dalle “ragioni della tecnica” sono tratti dal campo economico-finanziario, in particolare se si guarda sempre al compatto sistema economico-monetario organizzato dai Paesi UE (che coinvolge inevitabilmente le politiche economiche interne, da sempre settore appartenente alla “sovranità” nazionale): l’intreccio tra politica di bilancio promossa dall’Eurozona (di cui sono parte 19  dei 28 Stati membri) e politiche interne dei singoli Stati ha spesso costretto questi ultimi ad apportare modifiche consistenti al testo costituzionale (l’esempio è tratto dal caso italiano, dove, per introdurre il vincolo dell’equilibrio di bilancio stabilito in sede europea, si è proceduto alla revisione del testo costituzionale, con l.1/2012 (modificativa degli artt. 81, 97, 117 e 119); ma allo stesso risultato si è dovuto pervenire nelle Costituzioni di Germania, Spagna e altri paesi dell’Europa centro-orientale). L’apparente “tecnicità” delle decisioni assunte in sede europea nasconde (e spesso sviluppa) in realtà risvolti politici dagli effetti ben più profondi di quanto si possa pensare (v., per citare uno dei casi, la questione tra Germania e BCE in seguito all’approvazione del “programma OMT” da parte di questa, chiusasi a suo favore con la sent. Corte di giustizia dell’UE,  (Grande sezione) del 16 giugno 2015. Su questo e altri fondamentali punti del tema  si rimanda ad A.Sciortino, Ibidem, La politica di bilancio tra governance economica europea ed esercizio della funzione di indirizzo politico, 19 ss). Come pure, è doveroso accennare alla crescita esponenziale dei c.d. “governi tecnici”, che negli ultimi decenni (soprattutto in virtù delle recenti crisi economiche) hanno “invaso” gli assetti costituzionali di molti Paesi europei: per uno sguardo dal punto di vista comparativo v. pure il contributo di F.Duranti, I governi tecnici in Europa, in Ibidem, 219 ss, che a sua volta riporta il duro commento di G.Zagrebelsky, (Moscacieca, Laterza, Roma-Bari, 2015, XIV), : «la politica di fonte alla necessità, è cieca; si è trasformata in convulsa agitazione di tecnici della sopravvivenza; non stupisce affatto che i governi politici siano da tempo soppiantati da governi tecnici, sia pure sotto mascherate politiche» il quale autore sostiene, al contrario, che : «i governi interamente non partitici o “di affari” non occorrono, in realtà, molto frequentemente».

[11] La definizione è spesso utilizzata per indicare un nuovo modo di fare democrazia, che dovrebbe colmare il c.d. “gap” tra cittadini ed istituzioni, facendo dialogare direttamente i primi con le seconde attraverso il rafforzamento degli strumenti di democrazia diretta: dalla replica del min. R.Fraccaro,(ministro per i rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta) La disciplina del referendum propositivo farà dialogare cittadini e istituzioni, Il Sole 24 Ore  7 agosto 2018, si legge infatti « Il programma di riforme istituzionali del Governo punta a colmare il distacco tra decisioni pubbliche e volontà popolare in un quadro che non solo rispetti ma arricchisca il pluralismo istituzionale. Per questo la disciplina del referendum propositivo dovrà prevedere un iter capace di far dialogare i cittadini con le istituzioni parlamentari [..]Quanto alle riforme costituzionali che riguardano il Parlamento, la proposta prevede una riduzione del numero di deputati e senatori con lo scopo di aumentare l’efficienza parlamentare[…] La stessa proposta di referendum propositivo e l’abolizione del quorum con riguardo a quello abrogativo hanno lo scopo di far funzionare meglio le istituzioni rappresentative la mia audizione alle Camere e le linee programmatiche richiamate dimostrano che nella nostra impostazione democrazia diretta e democrazia rappresentativa si rafforzano vicendevolmente per innescare un circuito virtuoso. Noi vogliamo attuare la democrazia integrale, nella quale popolo e istituzioni possano entrambi partecipare alla formazione dei meccanismi decisionali come avviene nei sistemi più avanzati. Solo suddividendo i poteri e le responsabilità tra Parlamento e cittadini si potranno evitare le derive della tecnocrazia e dell’ingovernabilità all’insegna della partecipazione attiva». Tuttavia ci sarebbe da riportare la definizione di democrazia integrale data da N.Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984, 41 : «La democrazia integrale è un continuum fra gli estremi della democrazia diretta e della democrazia rappresentativa, che non sono pertanto alternative, ma entrambe necessarie a seconda delle diverse esigenze e situazioni », sostenendo inoltre che gli strumenti (originari) della democrazia diretta (assemblea dei cittadini e referendum), sono e devono rimanere “straordinari”, (in quanto la prima è propria di piccole società, il secondo può essere utilizzato in circostanze eccezionali). Criticare la democrazia rappresentativa (da una parte) e “normalizzare” la democrazia diretta (dall’altra), porterebbe all’(insensata) attuazione dell’ideale di “cittadino totale” sostenuto da Rousseau, corrispettivo di uno “Stato totale”: una situazione che, nell’era della modernità, non può che essere ritenuta illiberale. Ancora, sul punto, S.Prisco, Forme di governo e fattore politico. Conclusioni dal passato e introduzione al futuro, Astrid Rassegna, 10/2018, 10 : «Che i partiti siano elemento dogmatico essenziale della classificazione delle forme di governo [..] o semplicemente (ma in ogni caso non irrilevantemente) fattori di condizionamento del quadro […], è questione che dipende dalle trasformazioni della politica , delle sue regole convenzionali e della democrazia [..] Essa sembra cioè attestarsi stabilmente lungo la –sino ai tempi recenti inusitata- frontiera in cui il sistema politico si riarticola anche attraverso la possibilità dell’interpello telematico in tempo reale dei militanti e più largamente dei cittadini: una chimera che illude qualcuno […] che sia insomma possibile chiudere la frattura che Rousseau rilevava ai suoi tempi […] tra piena sovranità del cittadino nel dì delle elezioni e suo servaggio per tutto il resto del tempo».


Copertina:Ideologia e corruzione. Fondazione Feltrinelli


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