Vaccino anti-Covid, rifiuto del lavoratore e licenziamento: una strada turbolenta alla luce del vuoto normativo lasciato dal Legislatore


Con l’arrivo delle prime scorte di vaccinazioni riservate al personale sanitario si è posto da subito il dubbio sulla facoltà o meno dei datori di lavoro di imporre il vaccino ai propri dipendenti e le relative conseguenze giuridiche in caso di accettazione o diniego di questi ultimi.


 

Nel corso degli ultimi 11 mesi abbiamo assistito, vissuto e affrontato l’impatto delle diverse conseguenze che l’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha prodotto sulla salute delle persone e sul più ampio contesto economico e sociale, non ultimo quello relativo alla riorganizzazione dei tempi, degli spazi e delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Con l’arrivo delle prime scorte di vaccinazioni riservate al personale sanitario si è posto da subito il dubbio sulla facoltà o meno dei datori di lavoro di imporre il vaccino ai propri dipendenti e le relative conseguenze giuridiche in caso di accettazione o diniego di questi ultimi. Diverse sono state le opinioni espresse in merito a tale argomento, primi fra tutti quelle del prof. Ichino[1] e del dott. Guariniello[2], i quali hanno sostenuto la possibilità del datore di lavoro non solo di imporre il vaccino ai dipendenti ma di essere giustificati a recedere dal rapporto di lavoro qualora il lavoratore si rifiutasse di sottoporsi al trattamento sanitario anti-Covid.
Di contro, il prof. Falasca ha sostenuto che il datore di lavoro non è nella posizione di imporre l’obbligo della vaccinazione in quanto le risorse e le procedure sono ancora tutte in capo all’autorità sanitaria pubblica[3] mentre il prof. Pellacani pone ragionevoli dubbi in merito all’obbligo di vaccinazione in quei luoghi di lavoro nei quali manca una stretta correlazione fra il rischio di contagio e l’ambiente di lavoro stesso[4].

Purtroppo la risposta non è lineare né semplice in quanto tali ipotesi prestano il fianco a diverse criticità che riguardano le libertà costituzionali, il diritto alla salute, l’obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza sul luogo di lavoro e le indicazioni contenute nello statuto dei lavoratori. Punti di riferimento certi e sicuri sono rinvenibili nell’art. 32 della Costituzione con il quale viene sancito il diritto alla salute e nel Testo Unico di salute e sicurezza sul lavoro di cui al D. Lgs. 81/2008 e in particolare all’art. 42 e all’art. 279.

La prima criticità dell’obbligo gravante sul datore di lavoro di imporre il vaccino ai propri dipendenti si pone rispetto al disposto cui all’art. 32 della Costituzione. Quest’ultimo, al comma 2 prevede che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” mentre al comma 3 dispone che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Fermo restando il principio di cui al comma 3, non bisogna sottovalutare la vaccinazione come strumento utile al fine di prevenire il contagio e i correlati infortuni sul lavoro. Il diritto alla salute del singolo individuo deve essere rispettato ma deve anche ben coniugarsi con l’interesse collettivo e la tutela della salute di terze parti, così come anche richiamato da una recente sentenza della Corte di Cassazione[5]. Anche se al momento il Legislatore non ha previsto un obbligo di vaccinazione specifico, nel nostro ordinamento coesistono due disposizioni, una di natura generica e la seconda di natura specifica, che nella generalità dei casi impongono al datore di lavoro di adottare misure utili alla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori: l’art. 2087 del c.c.  e l’art. 279 comma 2 del D. Lgs. 81/2008[6]. Il primo dispone che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il secondo prevede che il datore di lavoro deve adottare “misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali (…) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”. Oltre a tali due dispositivi, nel caso specifico della trattazione normativa pandemica, è necessario considerare anche i protocolli di sicurezza che sono stati fondamentali ai fini della lotta alla diffusione del contagio[7]. A tal proposito, col D. L. n. 23/2020, è stato previsto che i datori di lavoro avrebbero dovuto adempiere all’obbligo stabilito dall’art. 2087 del c.c. mediante l’applicazione delle linee guida contenute nei protocolli condivisi di regolamentazione delle misure utili a prevenire il contagio.

Ma il rischio del contagio come si qualifica all’interno dell’organizzazione aziendale? Riprendendo il dispositivo di cui all’art. 279, comma 2 del D. Lgs. 81/2008 su citato, la messa a disposizione del vaccino da parte del datore di lavoro non produce, come diretta e naturale conseguenza, l’obbligo da parte del lavoratore di sottoporsi alla vaccinazione. In base alle disposizioni del Testo Unico di sicurezza e salute sul lavoro, a fronte di determinati tipi di prestazioni che espongono i lavoratori a specifici rischi, il datore di lavoro ha l’obbligo di mettere a disposizione i vaccini, anche in base al parere del medico del lavoro competente.

L’art. 2, lettera s, D.Lgs. 81/08 definisce il “rischio” come la “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione”. Il rischio biologico si configura come generico ed esogeno, qualora esso sia presente nell’ambiente sociale esterno all’organizzazione aziendale ma che potrebbe aggravarsi all’interno di quest’ultima. Di contro, il medesimo rischio è definito specifico ed endogeno qualora esso sia insito nell’organizzazione aziendale e connesso e presente nella lavorazione che viene svolta[8].

Fatta questa distinzione, sarebbe logico dedurre che il rischio di contagio da Covid-19 negli ambienti non sanitari sarebbe di natura generica e non specifica, con il conseguente venir meno dell’obbligo in capo ai datori di lavoro di mettere a disposizione l’eventuale vaccino.

Di contro, se la vaccinazione viene inquadrata come l’unico strumento utile di prevenzione al contagio, sul datore di lavoro graverebbe l’onere di rendere il luogo sicuro anche dai rischi generici esterni all’organizzazione aziendale, così come lo è il Covid-19[9].

Ancora, se si adotta l’interpretazione estensiva operata dalla giurisprudenza la quale definisce il cosiddetto rischio generico aggravato, in base al quale nonostante la mancata correlazione fra agente biologico e lavorazione, se il primo può diffondersi all’interno dell’ambiente di lavoro aggravando il contesto sociale esterno, allora ritorna in capo al datore di lavoro l’obbligo di imporre misure atte a prevenire e tutelare la salute dei lavoratori e nella fattispecie l’obbligo di imporre il vaccino.

Questo stato di cose produce diverse conseguenze possibili sia per il datore di lavoro che per il lavoratore, anche grazie al ruolo che in un contesto del genere gioca il medico del lavoro competente. Quest’ultimo, secondo il Protocollo del 24 aprile 2020, collabora con il datore di lavoro e i responsabili dei lavoratori per la sicurezza al fine di “integrare e proporre tutte le misure di regolamentazione legate al Covid-19” oltre che “suggerire l’adozione di eventuali mezzi diagnostici ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus”.
A differenza del tampone molecolare, la vaccinazione non può essere considerata un mezzo diagnostico[10]. Sulla scorta di questa considerazione, il medico competente il cui compito è di emettere giudizi di idoneità allo svolgimento della mansione a cui è adibito il lavoratore, potrebbe pronunciare giudizi di inidoneità parziale o temporanea per i lavoratori che rifiutano di vaccinarsi, laddove la vaccinazione non venisse inquadrata come l’unico strumento utile di prevenzione al contagio, ma si individuassero forme alternative di organizzazione e protezione.

Dinanzi al giudizio di inidoneità del medico competente, il datore di lavoro sarebbe obbligato a ricollocare il dipendente verso mansioni utili alla prevenzione della diffusione del contagio. E’ bene tener presente che la ricollocazione della risorsa deve essere attuata nel rispetto dell’organizzazione dell’attività aziendale, senza ledere quest’ultima. Pertanto, se si dovesse configurare un impedimento a tale scelte, il datore sarebbe giustificato ad allontanare il dipendente dal posto di lavoro per tutelare la salute di tutti, anche attraverso l’utilizzo di istituti contrattuali come l’aspettativa, al fine del mantenimento in forza del lavoratore stesso, nell’ottica di un rapporto basato sulla correttezza e la buona fede. In ultimo, qualora il medico confermasse una inidoneità permanente del lavoratore, quest’ultima si configurerebbe come un impedimento oggettivo della prosecuzione del rapporto di lavoro, portando al licenziamento del dipendente.

Mancando una norma ad hoc che impone la vaccinazione, il licenziamento potrebbe considerarsi nullo anche con un giudizio di inidoneità da parte del medico competente. Il rifiuto del lavoratore potrebbe essere dettato non solo da convinzioni di tipo ideologiche, ma anche da motivi di salute reali. Nel corso della storia vi sono state diverse sentenze della Corte di Cassazione che hanno tutelato sia il principio dell’art 32 della Costituzione ma che hanno anche sancito la possibilità del datore di lavoro di imporre le vaccinazioni contro il volere dei lavoratori (vedi casi di tubercolosi[11]). E’ pure vero, che nei casi citati, vi era stato comunque un intervento netto, chiaro e trasparente del legislatore che attraverso una legge specifica[12] aveva imposto il trattamento sanitario in parola a determinate categorie di lavoratori esposti ad uno specifico rischio biologico.

Cosa accadrebbe se il motivo del rifiuto fosse soltanto basato su una convinzione personale?

Si configurerebbe un inadempimento contrattuale dettato da un comportamento di insubordinazione e dando adito ad un licenziamento per motivi disciplinari? Oppure, secondo l’art. 21 della Costituzione e l’art. 1 della Legge n. 300/1970 (conosciuta anche come lo Statuto dei Lavoratori), sarebbe una semplice espressione della libertà di pensiero garantita dal nostro sistema democratico? Il licenziamento potrebbe addirittura essere eccepito come nullo poiché applicato solo a quei soggetti che manifestano liberamente le proprie convinzioni. In aggiunta, sempre in mancanza di una norma di legge che obblighi al vaccino, ricade interamente sul datore di lavoro l’onere di dover dimostrare che la vaccinazione degli altri dipendenti si configura come misura indispensabile ai fini della tutela della sicurezza e della salute sua, degli altri colleghi e dell’eventuale utenza esterna, senza la quale non sarebbe possibile prescindere poiché altre misure alternative seppure adeguate non sarebbero sufficienti (si pensi ai dispositivi di sicurezza, le disinfettazioni, le misure di svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile etc). Da un punto di vista anche penale, su di esso graverebbero le responsabilità di eventuali danni alla salute ricollegati al vaccino e subiti dai lavoratori ai quali è stato imposto tale trattamento sanitario.

Non può, infine, mancare un accenno ai potenziali neo assunti delle imprese del nostro tessuto economico, fermo restando che quanto abbiamo detto fin’ora era diretto al personale già in forza presso le strutture organizzative. E’ bene ricordare che l’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori dispone che “è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini anche a mezzo di terzi su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Alla luce di ciò è di nuovo fondamentale il ruolo del medico competente e l’attività di sorveglianza sanitaria prevista all’art. 41 del D. Lgs. n. 81/2008. Il medico competente può essere chiamato ad effettuare la visita medica preventiva per accertare che l’idoneità allo svolgimento della mansione da parte del lavoratore. Se il lavoratore dovesse omettere talune informazioni utili alla prevenzione della diffusione del Covid e alla tutela della sua salute, si ricorda che a risponderne dal punto di vista della responsabilità civile e penale è sempre il datore di lavoro. Pertanto, attraverso la sorveglianza sanitaria, il datore di lavoro che applica tale procedura si tutela a fronte delle eventuali responsabilità appena citate.

Tanti sono i dubbi e ancor di più le incertezze a causa della condotta del legislatore che in nome di una presunta libertà e democraticità non redige un provvedimento ad hoc utile a rassicurare i cittadini in merito alla sicurezza della vaccinazione e a non porre i datori di lavoro in una posizione molto critica, facendo ricadere su tali soggetti già afflitti dalla pandemia una responsabilità senza precedenti. Non si può pensare che debbano essere loro ad imporre ai propri dipendenti il trattamento sanitario anti Covid né si può realmente considerare l’eventualità che una materia così complessa come la tutela della salute sia affidata al benestare delle parti sociali. A tal proposito, è bene tenere a mente che i protocolli anti contagio e i gli accordi aziendali non sono fonte normativa. Nonostante il D. L. 23/202 sia stato convertito in Legge ordinaria, non si ravvisa la possibilità che il protocollo condiviso possa configurarsi come uno strumento alternativo alla fonte normativa né che esso possa colmare il vuoto della mancata emanazione di una legge nazionale ad hoc che imponga il vaccino alla generalità della popolazione né che esso possa dar seguito alla riserva di legge posta dall’art. 2087 del c.c.


Note

[1] cfr. P. Ichino, Vaccino Covid, Ichino: «Il datore di lavoro può chiudere il contratto se un dipendente si rifiuta», in Il Corriere della Sera, 29 dicembre 2020.
[2] cfr. R. Guariniello, Covid-19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it, 28 dicembre 2020.
[3] cfr. G. Falasca, Non si può licenziare il dipendente che rifiuta di vaccinarsi, in www.open.online.it, 25 dicembre 2020.
[4] cfr. G. Pellacani, Vi spiego perché non si può licenziare chi non si vaccina contro Covid-19, in www.startmag.it, 1° gennaio 2021.
[5] cfr. Corte di Cassazione, Sezione IV, sentenza n. 13583/2019.
[6] cfr. Benincasa G., Piglialarmi G., Covid-19 e obbligo giuridico di vaccinazione per il dipendente, Working Paper SALUS, 2021.
[7] cfr. G. Benincasa, M. Tiraboschi, Covid-19: le problematiche di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro tra protocolli condivisi e accordi aziendali, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica, Volume V – Le sfide per le relazioni industriali, ADAPT e-Book, n. 93, 2020, p. 146 e ss.
[8] cfr. Benincasa G., Piglialarmi G., Covid-19 e obbligo giuridico di vaccinazione per il dipendente, Working Paper SALUS, 2021
[9] cfr. Andreozzi N., Vaccino Covid-19, vuoto normativo ed impossibilità di licenziamento, in www.istitutostatoepartecipazione.it, 20 gennaio 2021
[10] cfr. Benincasa G., Piglialarmi G., Covid-19 e obbligo giuridico di vaccinazione per il dipendente, Working Paper SALUS, 2021, p. 17
[11] cfr. Corte di Cassazione, Sezione IV, sentenza n. 1170/1991 e Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza n. 1728/2005.
[12] cfr. Legge  23 dicembre 2000 n. 388


Foto copertina: Immagine web

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