L’aggressione all’Ucraina ha dietro di sé dispute e tensioni già esistenti al momento del crollo dell’Urss quando i confini amministrativi federali divennero dei confini politici. Per provare a comprendere i motivi storici ed ideologici che hanno spinto Putin a muovere guerra all’Ucraina, ne parliamo con Andrea Graziosi, professore di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II e tra i massimi esperti mondiali di storia sovietica e post-sovietica, autore di “L’Ucraina e Putin. Tra storia e ideologia” (Laterza 2022).
Articolo pubblicato sul numero Ucraina, un anno dopo
Il 24 febbraio 2022 potrebbe essere ricordata come una delle date spartiacque del nuovo secolo. La guerra voluta dal presidente russo Putin ha fatto ritornare indietro le lancette del tempo, ad un epoca che si credeva, ingenuamente superata, almeno in Europa. Non è facile comprendere le reali motivazioni che hanno spinto Putin a compiere questo gesto.
L’aggressione all’Ucraina ha dietro di sé dispute e tensioni già esistenti al momento del crollo dell’Urss quando i confini amministrativi federali divennero dei confini politici. Dalla Rus’ di Kiev a Lenin, dai crimini di staliniani dell’Holodomor che provocarono 4 milioni di morti, al controverso supporto dei banderovtsy alla Germania nazista, dalla crisi post-crollo dell’Urss allo sguardo ucraino verso Bruxelles, fino alle ultime tragiche vicende del 2014 e del 2022, il rapporto tra il potere di Kyiv e quello di Mosca è sempre stato molto complesso. Per provare a comprendere i motivi storici ed ideologici che hanno spinto Putin a muovere guerra all’Ucraina, ne parliamo con Andrea Graziosi, professore di Storia contemporanea all’Università di Napoli Federico II e tra i massimi esperti mondiali di storia sovietica e post-sovietica, autore di “L’Ucraina e Putin. Tra storia e ideologia” (Laterza 2022), un volume divulgativo e documentatissimo che aiuta a comprendere dati e fatti alla mano, questioni apparentemente inestricabili facendo chiarezza di un bel po’ di luoghi comuni, ci aiuta a comprendere perché con la guerra, Putin mira a ri-costituire un Russkiy mir ‘mondo russo’ che vada al di là della Federazione, contrapponendosi a un Occidente corrotto e decadente, dall’altra l’Ucraina ha da tempo intrapreso un cammino opposto, perseguendo un modello di società aperta e pluralista che vede nell’Unione Europea un modello e un approdo.
Professor Graziosi, si aspettava la guerra in Ucraina?
Si me l’aspettavo. Sono anni che Putin ripeteva e scriveva di volerlo fare, e Putin è un tipo di persona che fa quello che dice.
Nel discorso alla nazione in cui Putin ha di fatto riconosciuto l’indipendenza delle due autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, nell’Ucraina orientale, il presidente russo ha fatto una lunga digressione storica sullo Stato ucraino, in cui ha affermato che il Paese non è mai esistito come entità autonoma ma è sempre stato terra russa, spingendosi a sostenere che l’Ucraina moderna è stata una creazione della Russia bolscevica. L’Ucraina è per Putin «parte inalienabile della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale». Essa è quindi una creatura artificiale, nata dagli errori russi, in particolare di Lenin e di Gorbačëv. Già all’indomani dell’invasione del 2014 Putin, riferendosi alla Crimea, aveva dichiarato che il passaggio della regione all’Ucraina aveva rappresentato un “saccheggio” ai danni della Russia. Putin fa riferimento anche al Donbas e dice che gli ucraini in realtà sono russi. In realtà però gli abitanti di quelle regioni, pur essendo russofoni, non si sentivano affatto russi, ma sovietici il che è un po’ diverso. E quando hanno preso il potere nel 2014 i “filo-russi” per prima cosa hanno rimesso in piedi le statue di Lenin, lo stesso Lenin accusato da Putin.
Perché questo riferimento al periodo sovietico?
Perché gli abitanti delle regioni, chiamiamole per semplicità di ragionamento filo-russe, hanno memoria di quando il Donbas era una delle regioni più ricche dell’Unione Sovietica e quindi hanno una specie di nostal’gija po SSSR. La nostalgia per un periodo storico precedente è un fenomeno abbastanza diffuso. Ma se ci pensa anche a Trieste, che è stata una città molto importante durante l’Impero austroungarico, ci sono dei movimenti autonomisti che dopo 100 anni mantengono vivo un mito asburgico e si ricordano di quando Trieste era una delle città portuali più importanti del Mediterraneo.
Nel Donbas capita la stessa cosa, era una regione molto importante durante l’Unione Sovietica, grazie alle sue riserve di carbone divenne uno principali centri dell’industrializzazione prima russa imperiale e poi sovietica. La presenza di carbone, di ferro e di altri materiali aveva portato a fine XIX secolo immigrati da tutto l’impero, russificandone i centri urbani. Dopo il crollo dell’URSS divenne una regione sempre meno importante.
Chi sostiene Putin?
Il sostegno a Putin è molto variegato. Sicuramente gli viene riconosciuto il merito di aver rimesso in piedi lo Stato dopo il decennio di Eltsin, e di questo i russi gli sono stati grati. Gli anni Novanta, che Putin e la narrativa putiniana dipingono come un disastro, sono stati certo molto difficili, ma va ricordato che le condizioni dei russi, ancorché difficili, furono comunque meno pesanti di quelle di altri paesi dell’ex blocco sovietico, come la Polonia e l’Ungheria e di neo repubbliche nate dal disfacimento dell’URSS come Ucraina e Bielorussia. Questo è stato possibile grazie alla possibilità, della Russia a differenza di altri paesi, di riuscire ad esportare materie prime.
Questo peggioramento innegabile era il prodotto del Satana occidentale che voleva umiliare la Russia come dice Putin, o era il prodotto inevitabile del crollo dello Stato?
Partiamo da un dato, l’Ucraina aveva ereditato dall’URSS più di 4.000 testate nucleari (2.700 tattiche e 1.400 strategiche), che nel 1994 aveva accettato di trasferire gradualmente alla Russia sotto pressione di Washington. Chiaramente l’obiettivo americano non era quello di “umiliare la Russia” altrimenti non avrebbe consentito il trasferimento di armamenti nucleari. Per fare un paragone, la Germania negli anni Venti fu davvero umiliata, a Berlino fu imposto un tetto di 100.000 soldati, di cartucce e tutto il resto. Il Trattato di Versailles obbligava la Germania a cedere territori al Belgio (Eupen-Malmödy), alla Cecoslovacchia (il Distretto di Hultschin) e alla Polonia (Poznan, la Prussia occidentale e la Slesia Superiore), Danzica, la cui popolazione contava un gran numero di cittadini di etnia tedesca, veniva dichiarata Città Libera. Il Trattato imponeva anche la demilitarizzazione e occupazione della Renania, nonché la creazione di uno statuto speciale per la regione della Saar, sotto il controllo della Francia. Nel caso della Russia non si può parlare di tutto ciò e nemmeno si può parlare di “umiliazione americana” se solo pensiamo che Washington ha sostenuto Mosca per riottenere indietro l’arsenale atomico mettendo di fatto Ucraina e Kazakistan nelle sue mani. Non a caso il politologo John Mearsheimer scrisse su «Foreign Affairs» che l’accordo firmato il 5 dicembre 1994 in cui Russia, Stati Uniti, Regno Unito e Ucraina garantivano i confini di Kiev in cambio della sua adesione al trattato di non proliferazione e della cessione dell’arsenale nucleare a Mosca, di fatto impediva all’Ucraina di dotarsi di un deterrente importante contro future aggressioni russe. Quindi dare la colpa agli americani del crollo sovietico e di una presunta umiliazione russa è sbagliato. E per negare il fatto che il sistema fosse crollato, hanno inventato il mito che Gorbačëv fosse un agente occidentale, ma non è così. La verità è che la Russia degli anni novanta ha subito il peso del crollo del sistema precedente. È vero che nessuno ha fatto un Piano Marshall per la Russia, ma non vuol dire che sia stata umiliata.
Ma nella visione putiniana del mondo, l’Occidente ha provato ad accerchiare la Russia con l’allargamento della NATO.
Nel discorso che ha accompagnato il lancio dell’invasione del 24 febbraio, Putin ha sottolineato la giustezza dell’azione preventiva contro una Nato che da anni prova ad accerchiare Mosca. La retorica anti-Nato era stata già lanciata da Putin nel febbraio 2007 con il discorso di Monaco, in cui aveva accusato la Nato di ambiguità e minacce verso la Russia e fatto riferimento alla mancato rispetto delle «promesse del 1990», cioè al presunto accordo tra segretario di Stato americano James Baker e Eduard Ševardnadze nel febbraio 1990 sul fatto che, in cambio di una Germania unita e legata alla NATO, l’Alleanza atlantica «non avanzerà di un pollice verso est». Ma nel 1990 non ci fu nessuna promessa formale, men che meno un testo che impegnasse la Nato a non allargarsi. Erano semplici ragionamenti tra Baker e Ševardnadze che in quel momento era il ministro degli Esteri di uno Stato che sarebbe scomparso l’anno successivo. Inoltre nel 1994 furono firmati i già citati accordi di Budapest, e all’inizio dello stesso anno la Russia di Eltsin era diventata una dei primi membri della Partnership for Peace tesa a costruire fiducia tra paesi Nato e Russia. Ancora nel 1997 Russia e Nato firmano a Parigi gli accordi che stabilivano i primi passi verso la cooperazione in cui veniva dichiarato che «la Nato e la Russia non si considerano avversarie» e Mosca accetta l’ingresso di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca nell’Alleanza. Nel 1998 la Russia entra nel G7 che diventa per l’occasione G8. È chiaro che i bombardamenti Nato nella primavera del 1999 a Belgrado peggiorano considerevolmente i rapporti tra Mosca e la Nato, ma ancora nel 2002 in nome della comune lotta al fondamentalismo islamico, Russia e Nato sono di nuovo dalla stessa parte. L’ingresso di Georgia e Ucraina auspicato da Bush jr. nel 2008 era solo un invito di cortesia, Paesi europei come Germania e Francia, ma anche Italia, non avrebbero mai accettato.
Possiamo parlare di visioni del mondo completamente differenti alla base delle incomprensioni tra Mosca e l’Occidente?
Il problema è proprio questo. Si scontrano due visioni opposte, quella emersa dalle Nazioni Unite e una ancorata ai valori del’800. Da una parte abbiamo la volontà di rispettare quanto emerso dalle dichiarazioni dei diritti dei popoli dove si ritiene che ogni Paese ha il diritto di allearsi con chi vuole. Dall’altra parte una abbiamo una visione del mondo di chi è legato ad una concezione delle relazioni internazionali che si basano sui principi delle sfere d’influenza delle grandi potenze. Oggi la Turchia di Erdoğan, la Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, ragionano come se fossimo nell’800, come se avessero ancora un DNA imperiale, probabilmente perché all’interno dei loro Paesi, per mille motivi, non hanno avuto la possibilità di vivere la rivoluzione intellettuale prodotta dal wilsonismo, dalle Nazioni Unite, dalla decolonizzazione.
A noi in Italia l’idea che, per dire, la Libia che un tempo era “nostra”, non possa allearsi con la Tunisia non ci viene nemmeno in testa. Questo non per dire che la visione russa sia “strana” o anacronistica, è semplicemente diversa. Nessuno può dire se in un futuro la visione russa tornerà a essere quella dominante, in cui una grande potenza ha diritto a Stati cuscinetto.
Se per ipotesi immaginassimo un’alleanza tra Canada e Russia, non crede che gli Stati Uniti si comporterebbero allo stesso modo?
Probabilmente non la prenderebbero bene, a parte che non può succedere per mille motivi. Ma rispondo alla sua provocazione. È un problema di visione: gli Stati Uniti hanno per esempio provato invadere Cuba con dei mercenari, le hanno imposto l’embargo, ma non hanno mosso guerra a l’Avana. La Russia come spiegavo prima, ha una visione diversa, dove il grande Stato ha maggiori diritti del piccolo Stato. L’Italia del 1939 o la Germania di Hitler, avevano una visione del mondo simile a quella russa attuale. Non c’è dubbio che buona parte del mondo la pensi ancora così. Basta vedere come la Cina ragiona su Taiwan e Hong Kong, sul Tibet. Quindi non è detto che questa idea del Novecento, che tutte le nazioni sono uguali, che attualmente è la base delle relazioni internazionali dal punto di vista giuridico, possa durare all’infinito.
Crede che siamo di fronte ad un contrasto tra Paesi in cui la politica governa l’economia e Paesi dove l’economia governa le scelte politiche?
Non credo. Da un certo punto di vista gli Stati Uniti sono più vicini alla Russia di quanto non siano l’Italia o la Germania. Io penso che, mentre la prima differenza è di tipo sociale e culturale (e qui l’Italia è più vicina agli Stati Uniti), la differenza cui pensare è quella tra paesi vincitori e paesi sconfitti. Perché i paesi in cui pesa poco la politica sono i paesi sconfitti nella Seconda guerra mondiale, perché negli Stati Uniti la politica pesa e come. Da questo punto di vista, come dicevo, sono molto più vicini alla Russia o al Regno Unito. Il caso di mezzo è la Francia, paese di fatto sconfitto ma che ha fatto finta di aver vinto. Quindi per quanto riguarda il primo aspetto c’è una vicinanza socio-culturale per cui la Turchia sta con la Russia o la Cina e l’Italia e la Germania con gli Stati Uniti. Ma la politica ha predominato e domina i paesi usciti vittoriosi dal conflitto. La Germania è il caso più tipico di grande paese che ragionava così, ma che dopo il 1945 ha messo l’economia al primo posto. Pensiamo a Schröder, con la sua mancanza di dignità politica: un ex Cancelliere che passa a Gazprom è un fenomeno da paese sconfitto. Ma vale anche per gli ex-ambasciatori e politici anche italiani che poi fanno carriere nei consigli di amministrazione delle imprese russe, italiane.
Perché con il crollo dell’Unione Sovietica, contrariamente a quanto accaduto in ex-Jugoslavia, a parte poche eccezioni (Abcasia, Armenia-Azerbaijan) non ci sono stati violenti scontri?
Perché la grande maggioranza dell’élite sovietica era contraria alla violenza. Negli anni si era prodotta una modificazione dell’ideologia sovietica per cui anche i golpisti del 91 non usano la violenza. A partire da Chruščëv, da Brežnev la dirigenza sovietica non ama la violenza probabilmente come conseguenza del rifiuto dello stalinismo, dell’esperienza terribile dei 26 milioni di morti della seconda guerra mondiale, per il ricordo delle sofferenze. C’era una ideologia per cui i problemi non si risolvevano con la violenza, anzi questa opzione era considerata incivile. Inoltre, contrariamente ad oggi e contrariamente all’ex Jugoslavia, la maggioranza della élite sovietica non era formata da nazionalisti. A Mosca si credeva certamente che la cultura russa fosse quella unificante, che la lingua russa fosse la lingua veicolare, ma non c’era una élite nazionalista dominante come quella di Milosevic o Tudjman, non si credeva che bisognasse imporre l’identità russa anche con la forza. Questo diversità dell’ideologia russa dal nazionalismo etno-nazionale è ancora presente anche in Putin, se pensiamo ad esempio che il Ministro della Difesa Šojgu è nato a Čadan in Tuva o al Ministro degli Esteri Lavrov che è di origine armena. C’è ancora la concezione e tradizione sovietica della convivenza, anche se si pensa che il nuovo mondo russo centrato su Mosca possa e debba essere costruito con la violenza. Questa concezione è emersa anche durante la primissima fase della guerra, quando a Mosca si ripeteva che gli ucraini erano russi e avrebbero accolto con gioia la loro liberazione.
Caucaso e Balcani possono essere i nuovi focolai di guerra?
Il Caucaso e i Balcani sono molto più simili della Russia e Ucraina. Lì ci sono dei nazionalismi di tipo etnico che sono molto radicati. Io spero che i Balcani alla fine, se non crolla l’Unione Europea sotto la pressione della crisi attuale, si pacificheranno. Perché l’interesse a stare con l’Europa è molto forte. Altro discorso è il Caucaso, a mio avviso una situazione molto più complicata e a rischio, anche perché la sconfitta russa evidente, molto più grave di quanto ritenessi possibile, sta provocando la crisi dell’egemonia russa nel Caucaso e nell’Asia centrale. Gli –Stan guardano a Pechino e non più solo a Mosca, perché la ritengono più affidabile. Il Caucaso è stabile solo se c’è una potenza in grado di stabilizzare la regione.
Ma se va via la Russia…i conti tra armeni e azerbaigiani si stanno già facendo.
Come andrà a finire?
Difficile dirlo. Due mesi fa le avrei detto che la cosa sarebbe stata giocata sul campo, che le guerre finiscono militarmente quando capisci quelli che sono i limiti, dove si può arrivare, e si trova se non la pace (che nasce di regola da una vittoria e da una sconfitta) almeno un cessate il fuoco che dura venti-trenta anni. Poi arriveranno dei nuovi leader e se ne ridiscuterà. Che l’Europa stava per trovare un confine ad est e che la Russia fosse fuori purtroppo è stato presto evidente ed è un grande danno. Il problema è che la sconfitta russa allo stato attuale è tale che questa soluzione che Putin ha provato a fare dichiarando l’annessione dei territori (annetto e trattiamo), oggi non è possibile. Questa sconfitta evidente, che rischia di mettere in pericolo il potere di Putin, va “raddrizzata”, e allora si ricorre anche all’invio di missili sui civili, azione che ti rende ancora meno voluto dalla popolazione. Sono quindi molto più preoccupato di prima. Voglio però sottolineare che non credo sia una guerra per procura, credo che Putin abbia sbagliato i suoi calcoli, che si è alienato le simpatie europea bruciando anni di relazioni, che si è alienato ucraini che ora chiamano i russi “orchi”. Ha fatto una cosa catastrofica per la Russia.
C’è da dire anche che Putin, per fortuna nostra, è stato “sfortunato”. Immaginate se anziché Biden, che rappresenta un’America che forse non esiste più, ci fosse stata Kamala Harris, le cose sarebbero forse andate diversamente.
Come valuta i tentativi americani di smarcarsi da alcune azioni ucraine?
Il messaggio americano è sosteniamo l’Ucraina ma non attacchiamo la Russia, si può andare fino ad un certo punto, ma oltre no. Allora in quest’ottica si legge lo smarcamento americano da situazioni come l’uccisione della figlia dell’ideologo Dugin o l’attacco al ponte di Kerch in Crimea.
Crolla prima Putin o finisce prima la guerra?
Putin non credo crolli. Ora il livello di sconfitta è tale che è difficile fare previsioni. Anche sul campo la situazione è di stallo, e temo che si possa volere un’altra recrudescenza del conflitto prima di arrivare a intravedere almeno un armistizio.