Il ritmo: una chiave di lettura innovativa per gli studi critici sul colonialismo
Il ritmo ha qualcosa di magico; ci fa perfino credere che il sublime ci appartenga.
{cfr. Johann Wolfgang Goethe}
Introduzione
Gli imperi coloniali sono durati fino agli anni 60 del ‘900 e hanno avuto conseguenze profonde sul mondo di oggi.[1] Molti studi sono stati fatti sul colonialismo a segnalare che il tema è ancora di profondo interesse. La teoria critica degli studi politici e sociali soprattutto, ha cercato di decostruire[2] le vecchie narrazioni e gli stereotipati discorsi politici per affrontare il tema del colonialismo in modo nuovo e fornendo lungimiranti spunti di riflessione. A questa corrente di pensiero mi ispiro per questo articolo. Partendo dal concetto di “ritmo” tenterò di spiegare perché rapporti tra sfruttatori e sfruttati persistono ancora oggi in Africa. Cecherò inoltre di affrontare l’argomento sotto una luce nuova, diversa. La mia tesi è che un certo tipo di ritmo (proprio dello stato europeo) si è imposto, attraverso lo sfruttamento coloniale, su un altro tipo di ritmo, quello proprio e specifico dell’Africa.
La questione dei minatori africani del Congo impegnati nell’estrazione del coltan rappresenta un caso di studio interessante. L’evidente messa in schiavitù in cui vivono i minatori, le assurde condizioni di lavoro a cui sono obbligati, l’ignoranza rispetto alle vere ragioni che legittimano il loro lavoro quotidiano, evidenziano quanto i vecchi rapporti coloniali non si sono estinti e che anzi le loro antiche logiche, quelle tra sfruttatori e sfruttati, permangono e si sviluppano nel tempo.
La questione coloniale
Generalmente vengono individuate due fasi nel colonialismo europeo. Una prima fase inizia nel Cinquecento con la scoperta dell’America e termina nel 1850 con la fine della tratta atlantica e dello schiavismo. Una seconda fase compresa tra il 1900 e il 1940 si conclude con la conquista dell’indipendenza degli ex possedimenti coloniali. La prima fase di solito viene ad identificarsi con la logica di “guerra e di rapina” basata sulla schiavitù e sul dominio militare violento, la seconda invece viene presentata dai paesi ex colonizzatori come una fase più benevola e “dolce”. Questi paesi insistettero sulla “missione civilizzatrice” del dominio coloniale che aveva come primo obiettivo l’evoluzione intellettuale dei locali condotto attraverso forme di persuasione, sfruttamento e coercizione. Il Congo con la questione delle miniere, oggi presenta un caso nel quale la prima fase del colonialismo (quella fondata sulla schiavitù) e la seconda fase (quella basata sulla missione civilizzatrice) sembrano fondersi in un tutt’uno, continuando ancora oggi a produrre conseguenze devastanti.
L’Africa e l’attuale rapporto con il colonialismo
In Africa è impossibile imporre il concetto di stato. Questa impossibilità, – già ampiamente e precedentemente studiata nel corso degli anni e discussa in molti dibattiti scientifici – in questa riflessione, è affrontata da una prospettiva diversa.
Ammettere che l’imposizione di un certo ritmo, che sia di lavoro, di movimento o di pensiero corrisponda ad una forma di sfruttamento risponde, forse in parte, all’esortazione di Michel Foucault: “Non chiediamoci perché certe persone vogliono dominare. Chiediamoci, invece, come funzionano le cose a livello dei processi, che assoggettano i nostri corpi, governano i nostri gesti, dettano i nostri comportamenti”. {M. Foucault}. L’importanza e la pervasività del ritmo nella vita degli esseri umani è stata rilevata da numerosi studi nelle scienze sociali e umane. Lo studio forse più importante a proposito è stato quello di Lefebvre (2004) la cui attenzione si concentra sullo studio dei ritmi collettivi, come per esempio quelli degli spazi urbani e della città. In “Rythmanalysis” l’autore propone un metodo di analisi dei ritmi degli spazi urbani e degli effetti che questi ritmi producono su chi abita questi spazi. Il ritmo è infatti intrinseco nella vita umana. (Lefebvre, 1992[3]).
La rilevanza del ritmo negli studi sociali
Molti studi sono stati condotti sia sull’interazione ritmica tra esseri umani (Richardson, 2007, Himberg 2009, 2011) sia sulla coordinazione interpersonale basata sul ritmo (Fuch, Jirsa) e sulla mutua sincronizzazione[4]. Sono stati condotti anche studi su particolari fenomeni sociali come il “social bonding”, l’affiliazione (Dissanayake) e intenzionalità (Kirschner)[5]. E’ proprio da questa notevole base scientifica che sostengo che il ritmo è un elemento fondante di ogni organizzazione sociale. Lefebvre infatti sostiene che ogni corpo umano è portatore e produttore di un particolare ritmo (il movimento per esempio). Questi ritmi che si originano a partire dai nostri stessi organi, come il battito del cuore, vengono sempre influenzati da altri ritmi di altri esseri umani quando ci troviamo all’interno di un contesto sociale.
I legami sociali in Africa si originano per mezzo della socialità stessa e non attraverso le istituzioni o lo stato, come avviene in Europa. La solidarietà si mette in pratica grazie all’appartenenza all’etnia, alla famiglia, al clan, alla tribù. Ciascun aggregato sociale è portatore di un proprio ordinamento territoriale, di una propria concezione spaziale (Pase, 2014) e quindi di un proprio ritmo. Come nelle società medievali, l’Africa è per sua natura una società senza stato in cui è automatica l’autorganizzazione e la moltiplicazione di ordinamenti sociali. E’ impossibile racchiudere questa molteplicità di ordinamenti. E’ ancora più impossibile utilizzare il confine per raggiungere questo scopo. Molteplicità di ordinamenti significa molteplicità di confini, in cui non si verificherà mai la condizione per cui risulterà naturale confinare un certo ordinamento o territorio.
Il ritmo influenza l’esperienza umana nello spazio tempo. Essa viene vista dinamica ed in costante evoluzione. Come sostengono May e Thrift bisogna smettere di considerare un singolo e uniforme tempo sociale che si dilata all’interno di un singolo e uniforme spazio sociale. Dobbiamo invece renderci conto ed essere consapevoli che esistono reti temporali che si sviluppano in diversi spazi. Barbara Adam sostiene che è necessario esplorare le diverse formazioni e concezioni del tempo così come le diverse sequenze del ritmo che esso genera. L’autrice sostiene l’esistenza di un ritmo regolare generale che può essere chiamato “convenzionale” che è in grado di influenzare e condizionare le nostre vite in maniera profonda. Questo è ciò che ho identificato come il ritmo dominante dello stato.
Oggi il ritmo dominante dello stato viene veicolato sempre di più tramite i processi di globalizzazione, come per esempio per mezzo delle politiche neo-liberiste portate avanti dalle istituzioni internazionali quali FMI e Banca Mondiale.
Il ritmo e la globalizzazione
Nonostante la globalizzazione venga spesso intesa come un mix di flussi diversi di persone, beni, informazioni, idee, tecnologie ecc…tutti questi flussi sono uniti insieme dalla stessa logica da cui discende e prende un ritmo dominante. Una vasta gamma di attività vengono influenzate e investite da questo ritmo: il lavoro, il consumo, la socializzazione, anche il tempo libero, il riposo ecc..
Queste imposizioni in Europa hanno favorito ordine, strutture e gerarchie delle vite umane e della società in generale. Siamo stati in grado di interiorizzare e di fare “nostro” il ritmo dello stato senza accorgercene. Infatti una volta assimilati, il ritmo diventa “irriflessivo” ovvero diviene “parte di come sono le cose” e di come noi le concepiamo. Il ritmo della stato a questo punto non è solo più individuale, ma collettivo.
Lo stato è quel particolare catalizzatore di ciò che Raymond William chiama “structure of feeling” ovvero quel modo comune a tutti i membri di una collettività di vedere il mondo e di legittimarne i discorsi. Non solo, ma anche quella comune base di comprensione delle proprie abitudini, usi e tradizioni. Le identità nazionali si rafforzano anche a partire dal ripetersi quotidiano di queste pratiche, routine, abitudini “habitus” (Bordieau, 1986)[6]. Queste hanno il potere di alimentare un senso intuitivo di sincronia a partire dalla ripetizione di gesti ritmici che ci rende tutti consapevoli di agire in un determinato modo all’interno di un certo contesto nazionale. Il colonialismo può quindi essere letto come l’imposizione di un ritmo dominante su un un altro, in questo caso su molteplicità di ritmi diversi Africani.
Le diverse concezioni spaziali e il rapporto col ritmo
Il particolare ritmo africano di cui mi occupo si origina dallo spazio, o meglio dalla concezione dello spazio che esiste in Africa. La concezione dello spazio dello stato moderno è geometrica, organizzata secondo regole della matematica euclidea utile a legittimarne i progetti di potere. Lo strumento ideale per organizzare lo spazio dello stato moderno è il confine. Una linea dritta e rigida che legittima le categorie di inclusione/esclusione di uno specifico territorio. Questo tipo di spazio si chiama “spazio mosaico” l’opposto dello “spazio frontiera” che è invece lo spazio del movimento. Nel deserto Africano infatti il movimento si associa al concetto di “frontiera” e non a quello di confine. In Africa tutti i luoghi e gli spazi vengono riconosciuti nella loro singolarità. (In termini geopolitici spazio qualificato, opposto allo spazio “indifferenziato” dello stato). Laddove invece la concezione spaziale dello stato europeo risulta neutrale rispetto ad indicazioni di valore, nel senso che ogni direzione è uguale alle altre e descrivibile geometricamente rispetto ai punti cardinali, in Africa non è così. Lo spazio “orientato” africano vede l’identificazione di direzioni privilegiate, come la Mecca per esempio. Le particolarità e le qualità di ogni luogo in Africa creano uno spazio dinamico e molteplice a cui si legano, quasi automaticamente, i diversi ritmi africani.
I minatori congolesi
Nelle miniere del coltan, i lavoratori africani sono costretti a sostenere un ritmo imposto che non gli appartiene. Si tratta del ritmo del capitalismo, il quale ha una forte tendenza pervasiva (Lefebvre). Questa non è stata alimentata soltanto dall’avvento della globalizzazione perché già tanti anni fa, numerosi elementi dimostrarono come le prime colonie già da subito vennero impostate tutte a vantaggio delle madrepatrie. Le popolazioni colonizzate pagavano pesanti imposte per sostenere il tenore di vita di coloro che erano venuti per dominarle.[7]
I minatori del Congo oggi sono costretti a tempi e ritmi di lavoro estenuanti, iper velocizzati, drogati dalla ricerca di profitto, in sostanza ingabbiati nel ritmo dominante capitalista dello stato. Ciò che guida e incalza questa crescita sono i processi di accumulazione. Il mondo delle miniere del coltan lavora per aumentare i consumi e il tenore di vita degli stati europei. L’obbligo di estrarre un preciso ammontare di coltan risponde a necessità di accumulazione.
Infatti più si estrae, più si accumula, più si produce e più si consuma per soddisfare e sostenere le produzioni degli ultimi modelli di cellulari.
Conclusione
Imporre il ritmo statale nelle miniere del Congo significa renderle produttive.
Il ritmo economico produce il profitto. Deleuze e Guattarsi (1987) parlano di “refrain” ovvero una riproduzione che nel tempo produce familiarità, territorializzazione [8]che si impone sul caos. La produttività nella ripetizione è esemplificata dall’acquisizione di “expertise” di modo che la pratica diventi automatica e più facile. Il perdurare di questi automatismi acquisiti è di fondamentale importanza per lo stato e per i suoi progetti di sfruttamento, ma è precario. Infatti il ritmo non è esente da fragilità. Come sostiene Alheit (1994) la distruzione della regolarità ritmica può portare a conseguenze catastrofiche per un qualsiasi tipo di progetto originario e inaugurare l’inizio di una nuova fase.
Il perdurare di questa imposizione ritmica legittima anche il perdurare delle antiche logiche coloniali. Questo significa che ancora in Africa ci sono luoghi, come nelle miniere del coltan, in cui l’essere umano non è in grado di sviluppare le proprie potenzialità, in cui non si progredisce, ma anzi si torna indietro. L’individuo ridotto in schiavitù è obbligato a piegarsi a questa imposizione. La sua stessa identità e la sua crescita come essere umano, dipende dalla ricerca di un profitto imposto da qualcuno. A mio parere quindi uno studio critico sul colonialismo non può non prendere in considerazione nella propria analisi anche elementi apparentemente invisibili come il “ritmo” ma abili nel generare pesanti conseguenze sul comportamento umano sia a livello micro che a livello macro.
Note
[1] T. Piketty, Capitale e Ideologia, La Nave di Teseo, Milano, 2020 pag. 295
[2] Si veda “decostruzione” di J. Derrida. Il concetto di origina da quello di “destruktion” utilizzato da Heidegger che lo utilizzò per indicare l’operazione di destrutturazione (e non di distruzione) della metafisica. Voleva scovare quegli elementi essenziali della Verità rimasti sepolti e occultati dalle “incrostrazioni” della metafisica. Il termine “destruktion” non era quello Derrida desiderava esprimere. Venne creata allora la parola “decostruzione”, con la quale si esprime l’atto del cercare oltre le cose così come si presentano, oltre la loro superficie, per rischiarare le complicazioni che si celano dietro alla prima facciata della realtà. Ogni evento storico, teorico, sociale, culturale, al di là della sua immediatezza, è fatto di complessità che restano occultate. Derrida scrive a tal proposito:”[…] Bisognava disfare, scomporre, desedimentare delle strutture (di ogni tipo:linguistiche, fonetiche, logocentriche). […] Ma disfare, scomporre, desedimentare delle strutture, non era un’operazione negativa. Più che distruggere, si trattava di capire come si fosse costruito un certo “insieme”, e per farlo bisognava ricostruire. ” https://glindifferenti.it/derrida-la-svolta-epocale-della-decostruzione/315/
[3] Lefebvre, H, Éléments de rythmanalyse, Paris, Syllepse, 1992.
[4] C. Bassetti, E. Bottazzi, The power of rhythm: from dance rehearsals to adult-new born interaction, 5th Ethnography and Qualitative Research Conference, University of Bergamo, Italy, 2014
[5] ibidem.
[6] ibidem.
[7] T. Piketty, Capitale e Ideologia, La Nave di Teseo, Milano, 2020 pag. 317
[8] Soja fu il primo geografo ad aver affrontato il concetto di “territorialità” . Egli la associò agli studi di etologia, definendola come “un fenomeno comportamentale associato all’organizzazione dello spazio in sfere di influenza o in territori chiaramente demarcati che sono distintivi e almeno parzialmente esclusivi per gli occupanti o per chi li ha definiti”.
Foto copertina: Autore Stefano Stranges, minatori nelle miniere di coltan in Congo.