Il dibattito accademico tra Gilles Kepel e Olivier Roy.
Si discute molto in Francia sulle ragioni che hanno spinto alcuni giovani musulmani ad imboccare la strada del jihadismo armato. Esistono principalmente due correnti accademiche: quella che fa capo a Gilles Kepel[1], secondo cui è in corso da decenni un processo di «radicalizzazione dell’islam», e quella di Olivier Roy[2], che ritiene che si debba parlare di un’«islamizzazione del radicalismo». Entrambe le argomentazioni presentano dei validissimi spunti di riflessione e contribuiscono a fornire delle spiegazioni esaustive del fenomeno, che sarebbe meno comprensibile se ci affidassimo solo ad una interpretazione monocausale dato che il profilo degli autori degli attentati è molto variabile.
In base ad una stima verosimile, i musulmani francesi ammonterebbero all’8,8% della popolazione, approssimativamente dai 5,5 ai 5,7 milioni di persone[3]. Oggi siamo ormai arrivati alla terza generazione, formata dai figli e dai nipoti della prima generazione, che cominciò a stabilirsi definitivamente in Francia nel corso degli anni Settanta (quelli del “risveglio” internazionale dell’Islam[4]). In occasione della promulgazione della legge 2004-228 du 15 Mars 2004 (che in nome della laïcité proibiva di mostrare simboli che ostentassero l’appartenenza religiosa nelle scuole pubbliche[5]), i giovani musulmani delle banlieues hanno fatto il loro ingresso sulla scena pubblica, denunciando ghettizzazione e marginalità sociale.
Allo stesso tempo, secondo Kepel si è diffusa una versione radicale del neo-salafismo tramite predicatori finanziati dall’Arabia Saudita, la cui penetrazione (nelle sale di preghiera delle periferie, nelle prigioni, e soprattutto sul web) va letta in parallelo all’affermazione del fondamentalismo islamico e del terrorismo jihadista tra gli anni Novanta e Duemila.
Kepel sottolinea le connessioni tra la terza generazione dell’islam francese e la “terza ondata” del jihadismo internazionale, dopo la prima fase nazionalista (corrispondente al trionfo nella guerra in Afghanistan in difesa del dar-al-islam invaso dall’Armata Rossa) e la seconda fase internazionalista (incarnata da Al-Qaeda e dal cambiamento di tattica dal “nemico vicino” a quello “lontano”).
Deterritorializzazione e ferrea volontà di mobilitare i musulmani della umma contro l’imperialismo occidentale, strumentalizzando la causa palestinese prima e poi quella dell’invasione dell’Iraq, sono le cifre stilistiche della seconda ondata, che utilizzò una metodologia più radicale rispetto alla prima. Più che edificare uno Stato Islamico, i qaedisti compivano attentati suicidi volti a seminare il panico tra tutti coloro che non venivano ritenuti musulmani[6], ma così come accadde nei teatri del jihad degli anni Novanta (Cecenia, Bosnia, Algeria) anche questo capitolo si rivelò fallimentare e non ottenne il sostegno popolare dei musulmani europei perfettamente integrati.
Siamo agli albori di quella che Kepel chiamerà «terza fase del jihadismo»[7], che si collega alla terza generazione dell’islam francese nel 2005, con i moti scoppiati a Clichy-sous-Bois. Le proteste non furono causate dall’Islam, bensì dalla richiesta di una maggiore integrazione nella società francese. Tuttavia, il riferimento all’essere musulmani non era assente nell’immaginario dei giovani, che coniugavano le richieste di una maggiore rappresentatività politica con un vocabolario religioso intenso e denunciavano la tendenza all’islamofobia di parte della società francese. Le idee salafite nel frattempo facevano proseliti presso una minoranza dei musulmani francesi, conferendo una legittimazione sacra al risentimento mosso dalla percezione della propria alterità rispetto ai valori della Repubblica, entità astratta e lontana dalle zone grigie delle banlieues [8]. A partire da queste prime tracce, il richiamo alla religione si sarebbe poi acutizzato nelle menti di alcuni giovani grazie anche alla presenza di imprenditori morali desiderosi di valorizzare l’identità comunitaria islamica, i cosiddetti entrepeneurs du halal, che contribuirono a rendere più conservatore il discorso della comunità musulmana.
Al di là della crisi interna del modello assimilazionista[9], sono state poi le connessioni con il contesto geopolitico dei paesi musulmani ad aver radicalizzato parte dell’islam francese.
Due personaggi spiccano nella narrazione di Kepel:
- Abu Musab Al-Zarqawi, fondatore della branca qaedista in Iraq cercando di far proseliti tra i sunniti, che rischiavano di essere marginalizzati nel processo di State-building patrocinato dagli Stati Uniti. Il radicamento in un’area territoriale circoscritta riportava l’enfasi sulla lotta contro il “nemico vicino”, cioè gli sciiti e i curdi, mettendo sotto accusa la fazione “globalista” di Al-Qaeda per la fragilità strategica e la debolezza delle sue filiali internazionali poco coordinate tra loro. Il jihadista giordano gettò le basi per la radicalizzazione dell’elemento sunnita iracheno e soprattutto, secondo alcuni, per la nascita dell’ISIS, poiché già dal 2006 il suo gruppo installava uno Stato Islamico in Iraq[10].
- Abu Musab Al-Suri, che nel suo l’Appello alla resistenza islamica mondiale del 2005 promuoveva il «jihadismo di prossimità», ossia un progetto di guerra civile che gli immigrati di ascendenza musulmana avrebbero dovuto condurre in Europa per realizzare il trionfo dell’islam su scala mondiale e sconfiggere l’occidente[11], organizzandosi in reti tentacolari e clandestine e in cellule dormienti di giovani radicalizzati, lupi solitari e militanti professionisti, in modo da creare una struttura più agile, ibrida e meno rintracciabile dai servizi di sicurezza nazionali.
Non esistono prove sull’influenza che avrebbe avuto Al-Suri nell’ispirare gli attentati degli ultimi anni ed anzi, secondo Olivier Roy, i giovani nichilisti che li hanno portati a termine non avrebbero mai letto le sue opere, preferendogli i testi in inglese e in francese che circolano sul web[12]. Tuttavia, la strategia delineata nel 2005 non pare estranea dal modo in cui il sedicente Stato Islamico ha organizzato gli attacchi in Europa, compiuti da terroristi homegrown integrati a malapena nel tessuto dei paesi colpiti . Ad ogni modo, ciò su cui insiste maggiormente Kepel non è tanto la lezione di Al-Suri in sé, quanto il processo di radicalizzazione dei giovani musulmani che sono venuti a contatto con la retorica intollerante dei salafiti, soprattutto in rete, ma anche nelle carceri[13] e in alcune moschee. Il web 2.0 assume un’importanza cruciale in quanto veicolo di diffusione di testi integralisti e spazio idoneo alle relazioni e ai contatti nell’umma transnazionale. I social network come YouTube e Facebook hanno contribuito alla propaganda e alla globalizzazione del jihad, permettendo di moltiplicare gli adepti alla causa del Califfato e di organizzare gli attacchi in modo sotterraneo e di coordinare le tattiche e gli spostamenti tra Europa e Vicino oriente[14].
- 3. La controversia accademica tra Kepel e Roy è scoppiata negli ultimi anni quando il secondo ha messo in evidenza che lo stile di vita dei terroristi francesi non era esattamente la quintessenza di una condotta morigerata e rigidamente rispettosa dei dogmi salafiti, come dimostrano i fratelli Brahim e Salah Abdeslam, coinvolti negli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Questi born again sono radicali per scelta personale e manifestano un’attitudine estremista che preesiste alle idee in materia religiosa. La loro radicalizzazione è politica, prima che religiosa. Essi non passano alla violenza dopo un’attenta riflessione sui testi e manifestano una palese ignoranza dottrinale – il 70% avrebbe una conoscenza di base dell’islam[15] -, oltre a non seguire i precetti quotidiani dell’Islam. Ciò che secondo Roy fa la differenza non è dunque la religione, poco studiata dai radicali, ma la religiosità, vale a dire l’apparato immaginario, estetico, emotivo e discorsivo che deriva dal modo in cui il credente si appropria dei significanti religiosi.
La radicalizzazione sfocia nell’islamismo solo perché è il prodotto attualmente più attraente sul «mercato»[16], dopo il tramonto delle grandi narrazioni politiche, tanto da affascinare anche i sempre più numerosi convertiti – 25% presso i jihadisti francesi[17]. I processi di identificazione nella umma immaginaria, emersi con frequenza nel caso dei foreign fighters e dei terroristi homegrown, sono una chiave ermeneutica adatta anche a spiegare perché la maggior parte di questi radicali non venga da classi popolari disagiate o da famiglie indigenti, come sostiene la vulgata terzomondista di chi come François Burgat identifica i jihadisti come i nuovi “dannati della terra” e dimentica che la maggior parte dei musulmani francesi è integrata e in ascesa sociale[18]. Roy non ignora che vi siano dei riferimenti all’islam palesi nella predicazione vittimista e fanatica degli autori delle stragi e accusa in parte il salafismo di non condannare a sufficienza la violenza e di essere incline alla secessione sociale, in accordo con Kepel. Ma a differenza sua, egli è convinto che il fondamentalismo non sia la sorgente della radicalizzazione e che la matrice comune non conduca necessariamente ad un rapporto di causalità[19].
Da un punto di vista dottrinale, Roy sottolinea peraltro il processo che ha condotto alla decontestualizzazione del termine jihad, nato come obbligo collettivo per difendere un territorio minacciato e sottoposto ad una serie di condizioni onde evitare che i singoli individui si autoproclamino jihadisti e provochino scissioni nella comunità musulmana. I ragionamenti dei predicatori radicali (come Qutb, Azzam e Al-Faraj) hanno rivestito il concetto di “sforzo sulla via di Dio” di connotazioni massimaliste che non esistono nel libro sacro, pur non spingendo i jihadisti necessariamente all’atto terroristico. Del resto, gli stessi salafiti quietisti condannano il suicidio poiché anticiperebbe la volontà di Dio: le norme salafite mirano a codificare il comportamento dell’individuo in tutti gli aspetti, compreso l’uso della violenza, e di certo non sono ossessionate dalla ricerca della morte, che per Roy è il leitmotiv degli attentati compiuti in occidente, in cui la dimensione nichilista è centrale.
Valga su tutti la frase di Muhammad Merah, «Amo la morte come voi amate la vita!»[20], conferma di quanto la rivolta e la violenza fini a sé stesse siano i caratteri del terrorista medio, che cerca una valvola di sfogo ed una legittimazione sacra alla sua sociopatia. Di qui la volontà di attaccare i miscredenti in patria oppure di partire per i territori conquistati da Daesh, che non ha generato mostri, ma ha attinto ad un bacino di radicalità preesistente, facendo leva a sua volta su una versione del salafismo eterodossa e millenaristica e sulla presunta legittimità di un Califfato che non è stato riconosciuto dai maggiori esperti della legge islamica[21]. I radicali descritti da Roy appartengono ad una «seconda generazione del jihadismo», formata da giovani nati e cresciuti in occidente, lontani dalla cultura dei paesi di cui sono originari e imbevuti di culto della violenza e di fascino per la morte, a differenza invece della generazione dei primi jihadisti (Bin Laden e i volontari arabi) e della generazione dei loro padri. Vi è dunque una sostanziale differenza interpretativa rispetto alla tripartizione kepeliana, che l’autore giudica infondata in quanto nel 2005 non ci sarebbe stato un mutamento dei contenuti del jihadismo, ma solo delle strategie che diventano più all’avanguardia da un punto di vista tecnologico[22].
Oltre alla distanza percepita nei confronti di ciò che i loro genitori incarnano – la passiva accettazione del modello imposto dai paesi colonizzatori – i jihadisti europei mostrano anche delle caratteristiche innovative rispetto ai “maestri” della prima generazione. Il tratto che demarca questa differenza sarebbe la ricerca ossessiva della morte, dello scontro apocalittico contro i miscredenti per riscattare i torti subiti dalla comunità musulmana, più immaginaria che reale. Quest’attitudine violenta si traduce negli attentati suicidi, che strategicamente hanno scarso valore, ma simbolicamente costituiscono la via per accedere al paradiso, vendicare l’umma e addirittura per salvare dall’empietà i loro genitori[23]. L’ultimo aspetto su cui il politologo francese pone l’accento è l’insieme di riferimenti della cultura giovanile del XXI secolo che forma la cornice ideologica in cui si muovono i radicali francesi, più inclini a seguire le mode dei loro coetanei che ad approfondire le questioni dottrinali del salafismo[24]. Il loro abbigliamento e i gusti musicali sono agli antipodi dell’habitus salafita, così come lo è il turpe passato nella delinquenza da parte di molti di loro.
La socializzazione avviene più nelle palestre, nelle carceri e nelle strade delle banlieues che all’interno delle moschee, rivelando una predisposizione superficiale per le questioni teologiche, nonostante i continui rimandi alla religiosità e ai compagni del Profeta Muhammad.. Come tanti altri fondamentalismi, il salafismo diventa così apparato ideologico tremendamente adatto a quella che Roy ha descritto come l’era della «santa ignoranza», cioè della deculturazione e della deterritorializzazione della religione.
Fonti e Note
[1] Gilles Kepel è un politologo, orientalista e accademico francese, specializzato negli studi sul Medio Oriente contemporaneo e sulle comunità musulmane in Occidente.
[2] Olivier Roy è un orientalista e politologo francese. È professore all’Istituto Universitario Europeo e titolare della Cattedra Mediterranea al Robert Schuman Centre for Advanced Studies dal settembre 2009. In anni passati è stato direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (CNRS) francese e professore sia alla School for Advanced Studies in the Social Sciences (EHESS) sia all’Institut d’Etudes Politiques de Paris (IEP).
[3] {PEW RESEARCH CENTER, Europe’s Muslim Population will continue to grow – but how much depends on migration, 4 Demember 2017. La legge Informatique et Liberté del 6 Gennaio 1978 proibisce di trattenere e raccogliere dati di carattere personale che facciano emergere, in via diretta o indiretta, le origini razziali o etniche, le opinioni politiche filosofiche e religiose. Fornire delle cifre ufficiali è quindi un’impresa ardua e solo degli istituti privati possono tentare di condurre inchieste}.
[4] {Kepel G., Terreur dans l’Hexagon. Genèse du djihad français, Paris, Gallimard, 2015, pp. 44-50. Sul risveglio religioso si veda sempre Kepel. G, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma, 2000, e Graziano M., Guerra santa e santa alleanza: religioni e disordine internazionale nel XXI secolo, Il Mulino, Bologna, 2014.}.
[5] {Estesa poi a tutti i luoghi pubblici con la legge 2010-1192 du 11 Octobre 2010}.
[6] {Burgat F., L’islamisme à l’heure d’Al Qaeda, Paris, La Découverte, 2005}.
[7] {Kepel G., Terreur dans l’Hexagon. Genèse du djihad français, op.cit., p.51}.
[8] {Adraoui M., Du Golfe aux Banlieues. Le salafisme mondialisé, Paris, PUF, 2013, p.136}.
[9] {Tribalat M., Assimilation: la fin du modèle français. Pourquoi l’islam change la donne, Paris, L’Artilleur, 2017}.
[10] {Atwan A. B., Islamic State. The Digital Caliphate, London, Saqi Books, 2015, pp. 40-46}.
[11] {Kepel G., Terreur dans l’Hexagon. Genèse du djihad français, op.cit., p.52}.
[12] {Roy O., Le djihad et la mort, Paris, Seuil, 2016 p.82}.
[13] {Come il carcere di Fleury – Mérogis, che ha visto tra i suoi prigionieri Chérif Kouachi e Amedy Coulibaly, autori della strage di Charlie Hebdo}.
[14]{Kepel si sofferma a lungo sulla cosiddetta jihadosfera, ad esempio sulla storia di Omar Omsen, principale reclutatore dei jihadisti francesi partiti per la Siria, che nei suoi video mischiava tecniche all’avanguardia capaci di attirare l’attenzione dei giovani e sottofondi musicali in cui si recitavano gli hadith del profeta, in G. Kepel, Terreur dans l’Hexagon. Genèse du djihad français, op.cit., pp.139-151. Sulle strategie di propaganda online dei jihadisti e in particolare di Daesh si veda A. B. Atwan, op.cit., pp.9-26}.
[15]{Roy O., Le djihad et la mort, p.75}.
[16] {Roy O., Holy Ignorance.When Religion and Culture Part Away, Oxford, Oxford University Press, 2013, p.159-160, 176}.
[17] {Roy O., Le djihad et la mort, op.cit., p.20}.
[18] {Ivi p.64. Di fatto, ci sono più musulmani nell’esercito francese (di cui costituiscono il 10%) che nelle filiere jihadiste}.
[19] {Ivi, p.110}.
[20] {Ivi pp. 12-13, 79}.
[21]{Corrao F., Islam, religione e politica, Luiss University Press, Roma, 2015, p. 174}.
[22] {Roy O., Le djihad et la mort, op.cit., pp. 43-44. Si vedano anche le accuse a Kepel di voler riscrivere la storia tramite degli elementi di continuità ricercati a tutti i costi tra gli eventi dei paesi islamici dagli anni Novanta in poi e le ripercussioni sull’islam francese, p. 62}.
[23] {Ivi., pp. 92-94}.
[24] {Ivi pp.52-55}.
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Copertina: Al-Madina Institute