
Con la sentenza n. 9744 del 2020 la Cassazione ha affrontato il tema della recidiva specifica in relazione a condotte di reato aggravate dal metodo mafioso.
La Corte di Cassazione[1] si è di recente occupata del concetto di “reati della stessa indole” ai fini della recidiva aggravata specifica di cui all’art. 99 co. 2 n. 1 c.p; oggetto della pronuncia sono state molteplici condotte di reato, tra cui quelle di usura, antiriciclaggio, ricettazione, detenzione illegale di armi, poste in essere da più imputati ed aggravate dal metodo mafioso di cui all’art. 416bis.1 c.p.[2].
Il principale problema affrontato dalla Corte è stato quello della corretta perimetrazione del concetto di “reati della stessa indole”, fondamentale ai fini della configurabilità della recidiva specifica.
Una definizione del concetto si ricava dall’art. 101 c.p., per cui: «agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che, pure essendo preveduti da disposizioni diverse di questo codice ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni».
Il Legislatore con tale norma ha voluto indicare gli elementi da considerare omogenei e significativi rispetto alla possibilità di “legare” agli effetti della legge penale fattispecie di reato diverse.
La definizione di “reato della stessa indole” è fondamentale in diritto penale in quanto rileva, oltre che nel caso di recidiva specifica, in numerosi ambiti, tra cui quelli della dichiarazione di delinquente abituale ex art. 102 c.p. in numerosi ambiti e della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.
Tuttavia, pur apprezzandosi lo sforzo definitorio che ha ispirato la formulazione dell’art. 101 c.p., resta non puntualmente delimitato il concetto, che è collegato ad elementi che si presentano piuttosto elastici.
In particolare, i riferimenti alla «natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono» ed ai «caratteri comuni» possono portare in concreto a numerosi dubbi, con il conseguente rischio di attribuire all’interprete una inammissibile e velata discrezionalità applicativa.
E’ alla luce di tali incombenze che la Giurisprudenza si è sforzata di individuare categorie di elementi puntuali, capaci di spiegare correttamente e secondo l’id quod plerumque accidit il concetto di cui all’art. 101 c.p.
Anche in questo caso, tuttavia, non è mancata una giurisprudenza altalenante, incapace di delineare una volta per tutte gli indici da tenere in considerazione.
A titolo esemplificativo, se, da un lato, una recente sentenza della Cassazione[3] ha chiarito che plurime fattispecie di reato non possono essere rese omogenee in base alla mera ricorrenza di uno stesso movente che ha animato la commissione dei diversi reati realizzati, dall’altro, in passato è stato considerata dirimente la motivazione che ha spinto a delinquere[4].
Ancora, altre volte è stato utilizzato come elemento unificante la asserita similarità dei beni giuridici protetti dalle rispettive fattispecie delittuose.
In ogni caso, dunque, resta oggi abbastanza ampio – forse troppo – lo spettro di reati considerati di volta in volta e in concreto della “stessa indole”. La sentenza n. 9744 del 2020 si dimostra molto attenta rispetto alla corretta definizione della summenzionata nozione.
Invero, la Corte non si è limitata ad individuare elementi comuni tra le condotte, ma ha anche utilizzato tali elementi cumulativamente. In questo modo, i Giudici di Legittimità hanno ricercato gli elementi comuni tra le condotte aggravate dal metodo mafioso oggetto del giudizio e le precedenti condanne per il delitto di associazione di stampo mafioso.
E’ bene considerare, tra l’altro, che anche la definizione di “metodo mafioso” è stata oggetto di una particolare attenzione da parte della giurisprudenza.
Per garantire il rispetto dei principi di offensività e di materialità, infatti, si ritiene che oltre al carattere intimidatorio della condotta siano necessari “ulteriori evidenze oggettive”[5].
Per comprendere quando una condotta può dirsi concretamente ed oggettivamente idonea a generare nella vittima una coartazione psicologica, sub species di intimidazione mafiosa, la giurisprudenza ha individuato plurimi indicatori.
Prima di tutto, è da escludere che possa rilevare come indice principale la percezione che l’offeso ha dell’aggressione.
Diversamente ragionando, infatti, si rischierebbe di compromettere il fondamentale principio di materialità, in base al quale la volontà criminale del soggetto deve comunque estrinsecarsi all’esterno attraverso una condotta attiva o passiva capace di modificare la realtà sensibile.
Il carattere mafioso può evincersi da una serie di indicatori, che possono riguardare il contenuto della minaccia, le modalità della condotta del soggetto, ovvero il contesto in cui l’intimidazione viene posta in essere. Per quanto riguarda il contenuto della minaccia, si fa perlopiù riferimento agli approdi giurisprudenziali in tema di delitto ex art. 612 c.p. Ben più dirimente è il riferimento alla modalità della condotta del soggetto.
A tale categoria sono state ricondotte molteplici situazioni, che possono riguardare le qualità soggettive del reo (ad esempio, atteggiamento e gestualità, notoria vicinanza ad ambienti criminali e mafiosi), il contesto criminale e mafioso in cui è posta in essere la condotta e la conoscenza certa e notoria della vicinanza dell’agente ad ambienti mafiosi e criminali.
Viceversa, non sembra dirimente considerare la «sensazione che ha la vittima circa l’appartenenza al clan mafioso del soggetto agente», come sostenuto da una parte della giurisprudenza[6].
Tali elementi fungono, quindi, da indici privilegiati nell’indagine circa la metodologia mafiosa della condotta.
D’altronde, la ratio dell’art. 416B bis.1 c.p. è quella di intercettare e punire la carica intimidatoria ulteriore propria della connotazione mafiosa, che inevitabilmente finisce per coartare ancor più violentemente la volontà della vittima.
E’ proprio facendo riferimento a tali indici che la Cassazione n. 9744/2020 si è confrontata con la ricostruzione della aggravante del metodo mafioso.
Nello specifico, attraverso il riferimento a molteplici indicatori, la sentenza ripercorre le modalità con cui gli agenti hanno in concreto estrinsecato il carattere mafioso della condotta.
Un primo elemento oggetto di valutazione è stato quello della «la forza incriminatrice derivante dai loro trascorsi criminali e dalla loro storica appartenenza alla camorra”».
Ancora, una particolare attenzione è prestata agli «specifici atti di violenza e di intimidazione che ne costituiscono plastica estrinsecazione». Alla luce del loro passato criminale, poi, gli imputati sono stati considerati capaci di «esercitare un sottile metus sulle loro vittime, ingenerando timore e rispetto per la loro semplice presenza».
La fama di uno dei soggetti, addirittura, è stata ritenuta tale da ingenerare nella vittima intimidazione «col semplice invito a prendere un caffè».
Infine, si sottolineano la minaccia da parte di uno degli imputati di utilizzare un’arma, oltre che la formulazione di «minacce di morte talmente imperiose da annientare la capacità di reazione verbale».
La attenta ricostruzione fattuale posta in essere dai giudici è sintomatica della volontà di evitare una inammissibile connotazione presuntiva della aggravante del metodo mafioso.
La Corte, dunque, dopo aver accertato l’esistenza del connotato mafioso delle condotte ha ritenuto corretta l’applicazione della recidiva specifica ex art. 99 co. 2 n. 1 c.p. fatta dai giudici di merito.
La circostanza aggravante ad effetto speciale della recidiva specifica è stata, quindi, considerata esistente per via delle precedenti condanne per associazione mafiosa dei soggetti.
Dalla sentenza si evince che è con riferimento alla «concreta natura dei fatti ed ai motivi che li hanno determinati» che si è sostenuta l’applicabilità della recidiva specifica, stante il rapporto di “stessa indole” tra le condotte di reato (tra le altre, usura, riciclaggio, autoriciclaggio, detenzione illegale di armi) aggravate dal metodo mafioso contestate e il delitto di associazione di tipo mafioso per cui tali soggetti erano stati in passato condannati.
In conclusione, la Cassazione con la sentenza n. 9744/2020 sembra pienamente consapevole delle difficoltà interpretative del concetto di “reati della stessa indole”.
In questo senso, i giudici di legittimità sembrano aver prestato notevole attenzione alla individuazione dei molteplici e non equivoci elementi in comune tra i reati precedentemente compiuti dagli imputati e quelli oggetto del giudizio.
Tuttavia, è auspicabile un ulteriore salto di qualità nella elaborazione giurisprudenziale dei concetti esaminati. In questo senso, devono essere salutate con favore quelle sentenze che non si accontentano della ricorrenza di un solo elemento unificatore, ma cercano di evincere dal contesto complessivo elementi omogenei di collegamento credibili e puntualmente accertati.
E’ in questi termini che si gioca la partita del rispetto dei principi di offensività e di materialità, valori fondamentali dello Stato di diritto e presidi irrinunciabili per evitare inammissibili presunzioni ed automatismi.
Note
[1]Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 11 marzo 2020, n. 9744;
[2]In precedenza, la circostanza aggravante del metodo mafioso era prevista ex art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991, n. 203;
[3]Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza del 5 settembre 2017, n. 40281;
[4]Corte di Cassazione, Sez. VI, sentenza 23 dicembre 2014, n. 53590 ha considerato della stessa indole i reati di spaccio di stupefacenti e quello di furto in abitazione, in quanto in entrambe le ipotesi rilevano “omologhi motivi di indebito lucro”;
[5] Corte di Cassazione, Sez. VI, sentenza 1 marzo 2017, n. 14249;
[6] Corte di Cassazione, Sez. II, sentenza 10 febbraio 2016, n. 10467, che ha dato espressamente rilievo alla “pur confusa percezione dello spessore criminale dell’agente”;
Foto copertina:Un momento della manifestazione degli avvocati della camera penale davanti il Tribunale di Roma di piazzale Clodio, sede della città giudiziaria, contro il disegno di legge che prevede la videoconferenza e la sospensione della prescrizione, Roma, 10 aprile 2017. ANSA/ANGELO CARCONI
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