Il cessate-il-fuoco tra Israele e Palestina placa momentaneamente le violenze, ma non è destinata a durare. I motivi dello scontro non sono stati risolti e la guerra “serve” tanto ad Israele che ad Hamas per ricompattare il fronte interno.
A farci comprendere che la guerra è destinata a durare poco, è stata la reazione delle parti in causa all’annuncio del cessate-il-fuoco raggiunto lo scorso 21 maggio dopo 11 giorni di scontri che hanno portato alla morte di 232 palestinesi e 13 israeliani.
Sia Israele che Hamas si sono dichiarati vincitori.
Qui Gerusalemme
Le forze armate israeliane continuano a ripetere che quello che è accaduto in questi 11 giorni di guerra è servito a dare “un duro colpo” alle organizzazione che controllano Gaza. Netanyahu che aveva voluto questo scontro anche per ricompattare il paese e distogliere l’attenzione da problemi personali (processo per corruzione), ora si trova in una posizione scomoda. Sul fronte internazionale, Biden ha fatto chiaramente capire all’amico “Bibi” che lui non è Trump e che il rapporto con Israele sarà sulla stessa lunghezza d’onda del suo predecessore dem. Barak Obama. La recente guerra è stata vista più come un problema che come un vera e propria minaccia ad una alleato.
Se il fronte internazionale non sorride a Netanyahu, quello interno ancora meno.
La coppia Yair Lapid e Naftali Bennett stavolta fanno sul serio e potrebbero mandare Bibi tra i banchi dell’opposizione dopo 12 anni di potere.
La coalizione di partiti che cercano di formare un nuovo governo senza il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo partito Likud hanno raggiunto un accordo sull’assegnazione di posizioni di governo di alto livello se la coalizione dovesse effettivamente nascere.
Naftali Bennett: il presidente del partito Yamina sarebbe prima il primo ministro, poi il ministro degli Esteri
Yair Lapid: Il leader di Yesh Atid sarebbe stato prima ministro degli esteri, poi primo ministro.
Mentre va in pubblicazione questo numero, si stanno svolgendo i negoziati per superare le distanze e raggiungere un accordo per il nuovo governo.
Ma i problemi emersi restano, la comunità internazionale e l’opinione pubblica hanno accusato il paese di aver bombardato dei civili, e sul fronte interno per la prima volta gli arabi-israeliani si sono ribellati e hanno manifestato.
Qui Gaza
Khalil al-Hayya, il vice del leader di Hamas ha detto che “La resistenza dichiara vittoria sui nemici”. Bisognerebbe chiederlo alle famiglie dei 232 (circa) morti se effettivamente si è trattato di una vittoria, bisognerebbe chiederlo ad una popolazione stremata che non vede miglioramenti nella loro condizione di vita, bisognerebbe chiederlo agli abitanti del quartiere di Sheik Jarrah la cui situazione non è stata affrontata nell’accordo di cessate-il-fuoco.
Da un punto di vista militare, Hamas ha dimostrato che il suo arsenale militare è certamente migliorato, sia come numero di ordigni e anche come raggio d’azione sviluppato, con gittate massime dell’ordine ormai dei 250 chilometri colpendo città che prima non erano mai state colpite. La “cupola di ferro” israeliana, il sistema Iron Dome è stato in un certo senso saturato dal numero dei razzi lanciati, Hamas in una sola settimana ha lanciato un numero di ordigni pari al 60 % di tutti quelli lanciati nei ben due mesi della crisi del 2014.
Ma perché esibirsi in questa prova di forza che avrebbe (come è accaduto) provocato una reazione violenta e che avrebbe provocato (come è accaduto) molte vittime tra i civili e molti danni compreso al sistema di tunnel e sottopassaggi vitali per Gaza?
Come per Israele, anche per Hamas, vale il concetto del nemico esterno per compattare il fronte interno.
Le elezioni mancano dal 2016, elezioni in programma proprio il 22 maggio 2021, seguite il prossimo 31 luglio dalle prime elezioni presidenziali dal 2005.
Delle nuove consultazioni Mazen/Abbas ha paura per due motivi, ossia la preminenza del movimento Hamas, che domina la Striscia di Gaza, sul suo partito Fatah, più arroccato nei territori palestinesi della Cisgiordania, nonché la candidatura di Marwan Barghouti, il rivale interno a Fatah di Mazen, che pur essendo in carcere in Israele da vent’anni, tanto da essere definito “il Nelson Mandela palestinese”, sta diventando la figura di riferimento di una lista di transfughi di Fatah in polemica col presidente in carica.
Hamas ne ha approfittato di questo scontro per ribadire che solo loro possono rappresentare il popolo palestinese.
Praticamente la tattica di Hamas è speculare a quella di Netanyahu, due faccia della stessa medaglia.
Gli altri attori regionali
Paradossalmente la guerra ha fatto comodo a tutti gli attori regionali.
Iran e Turchia, che da posizioni pur distanti ne approfittano per fare a gara nel proclamare il sostegno alla causa palestinese, rinfacciando ad altri stati musulmani, specialmente quelli della cerchia egemonica imperniata sull’Arabia Saudita, di essere scesi a patti con Israele nel corso del 2020 con i famosi “accordi di Abramo”, che hanno portato finora alla normalizzazione dei rapporti fra Israele e, nell’ordine, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, oltre a crescenti contatti preparatori con l’Oman e la stessa Arabia Saudita.Erdoğan ha definito più volte Israele come uno stato terrorista, ergendosi (da turco) a leader dei difensori dei palestinesi.
Bontà d’animo? No, semplicemente un nuovo tassello della politica estera neottomana portata avanti dal “sultano” nel Mediterraneo e non solo.
Dalla Libia ai dissapori con la Grecia e ora anche in Palestina, Erdoğan fa sentire il suo peso politico.
I problemi alla base del nuovo scontro non sono stati assolutamente risolti, vuoi per l’impossibilità di trovare una soluzione, vuoi soprattutto per la volontà di lasciare le cose come stanno.
Una normalizzazione dei rapporti, un accordo di pace duraturo con una soluzione definitiva priverebbe entrambe le parti, Hamas ed Israele, della sponda necessaria del “nemico” da utilizzare in caso di necessità interna.