Al Jaber annuncia la transizione dai combustibili fossili: così si chiude la COP28


Sotto la guida di sultan Al Jaber, si è conclusa a Dubai la COP28. Tra luci e ombre, l’accordo finale è forse il migliore che ci potesse aspettare da questa Conferenza delle Parti: manca il “phase-out”, ma per la prima volta si nominano i combustibili fossili.


A cura di Virgilia De Cicco

Si è conclusa a Dubai la COP delle prime volte. La COP28, che si è svolta nella capitale degli Emirati Arabi Uniti dal 30 novembre al 13 dicembre, pur essendo stata preceduta da ben 27 edizioni si è infatti distinta per una serie di primati. Tra i tanti, non sempre lodevolmente conseguiti, emerge la copiosa presenza dei rappresentanti dell’industria dell’oil&gas. Una presenza che è aumentata vertiginosamente, arrivando a contare ben 2456 lobbisti delle fonti fossili accreditati alla COP28. Quella descritta non è però una situazione del tutto nuova: come denunciato da “Kick big polluters out” (KBPO) – coalizione composta da oltre 450 organizzazioni con lo scopo di impedire ai grandi inquinatori di influenzare le azioni da intraprendere per contrastare i cambiamenti climatici – già lo scorso anno sono stati almeno 636 i lobbisti dei combustibili fossili che hanno avuto accesso ai colloqui sul clima della COP27 in Egitto, e 503 quelli che hanno preso parte alla Conferenza dell’anno precedente a Glasgow.1

Ciò che colpisce della COP28, tuttavia, è che tale numero è cresciuto in modo esponenziale, superato solo dai 3081 delegati del Brasile (che dovrebbe ospitare la COP30) e dagli Emirati Arabi Uniti che, in qualità di padroni di casa della COP28, sono stati rappresentati da 4409 persone. Per dirla in altri termini, dunque, se la loro fosse stata una nazione sarebbe stata la terza più rappresentata alla Conferenza di Dubai, con un numero di delegati superiore perfino a quello delle dieci nazioni più vulnerabili dal punto di vista climatico messe insieme. Queste ultime, come si legge nel report di denuncia di KBPO cominciato a circolare durante la settima giornata di lavori, sono state rappresentate da appena 1509 delegati, dimostrando come «la presenza dell’industria stia superando quella di coloro che sono in prima linea nella crisi».2

Petrolieri e petrostati

Una situazione che per quanto problematica non sembra stupire poi così tanto. Se, infatti, nella partecipazione dei rappresentanti dell’oil&gas alla COP28 c’è chi vi ha ottimisticamente letto un sentirsi minacciati da un processo negoziale che avrebbe come scopo il raggiungimento della graduale eliminazione delle fonti fossili (phase-out in inglese), molto più probabile appare che la loro presenza sia stata giustificata dall’opportunità di promuovere i propri interessi. Una considerazione a cui non si fatica a dare credito anche in virtù dell’attribuzione della presidenza della COP al sultano Al Jaber, amministratore delegato di una delle più grandi aziende petrolifere attive sulla scena internazionale, la Abu Dhabi National Oil Company. Per la prima volta, dunque, un esponente del mondo del fossile è stato posto alla guida di un vertice svolto per promuovere una graduale e possibilmente vincolante eliminazione delle fonti fossili, principale causa dell’attuale crisi climatica. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto degli 1,5 gradi centigradi, così come prescritto dalla massima autorità scientifica in materia di cambiamenti climatici, l’IPCC.3 Una posizione di cui si è fatto portavoce anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, che nell’intervento tenuto durante la COP28 ha dichiarato: «Dobbiamo accelerare una transizione giusta ed equa verso le energie rinnovabili. La scienza è chiara: il limite di 1,5 gradi è possibile solo se alla fine smetteremo di bruciare tutti i combustibili fossili. Non ridurre. Non diminuire. Eliminare gradualmente – con un calendario chiaro allineato a 1,5 gradi».4
Eppure, nonostante la perentorietà delle affermazioni espresse dalla comunità scientifica e condivise dalle Nazioni Unite, proprio Al Jaber si è fatto promotore di una posizione opposta, sostenendo – con affermazioni ai limiti del negazionismo climatico – che non vi sia alcuna evidenza scientifica dietro la richiesta di rinunciare ai combustibili fossili e che assecondare tale istanza riporterebbe l’umanità al tempo delle caverne.5

Questioni geopolitiche e logistiche: ecco dove si svolgerà la COP29

La diffusione del video contenente la dichiarazione incriminata, che ha messo in crisi i lavori già al quarto giorno di negoziati, ha spinto molti a chiedere le dimissioni del sultano. Ma non solo Al Jaber non ha lasciato la presidenza della COP28, ma c’è stato un momento in cui si è aperta finanche la possibilità di una sua rielezione per il 2024. Questo è accaduto a causa del veto posto dal presidente Putin nei confronti della candidatura della Bulgaria, Paese in un primo momento designato a ospitare la prossima COP. Stando al meccanismo di rotazione tra aree, che appunto regola la turnazione dei Paesi così da garantire un’equa rappresentanza delle regioni geografiche, dovrebbe essere un Paese dell’Europa orientale ad accogliere la COP29 nel 2024. Più precisamente, per un lungo periodo di tempo si è dato per scontato che quel Paese sarebbe stato Sofia ma, a causa delle posizioni assunte sulla guerra in Ucraina, Putin ne ha sabotato l’elezione. Sostenendo che nessun membro dell’UE sarebbe stato neutrale nei confronti della Russia, Putin si è servito del sistema di voto per consenso per tenere sotto scacco l’Unione Europea, facendole scontare le sanzioni imposte al suo Paese per l’aggressione all’Ucraina.

Quando, come sembrava questo il caso, non si riesce ad arrivare all’unanimità e superare la situazione di stallo, il regolamento prevede che il vertice climatico debba svolgersi a Bonn – città tedesca che ospita l’agenzia delle Nazioni Unite che regola il processo, l’UNFCCC – sotto la guida dell’ultimo presidente in carica: Al Jaber, appunto.

Per la gioia dei detrattori del sultano, tuttavia, quest’eventualità è stata scongiurata dall’elezione dell’Azerbaigian. Una decisione che, però, non ha potuto lasciare indifferenti gli attivisti climatici e chi si batte per la difesa dei diritti umani. I primi, infatti, hanno fatto notare che anche l’Azerbaigian fonda la propria economia sui combustibili fossili. A questo riguardo, infatti, l’International Trade Administration del governo statunitense ha stimato che nel 2022 l’economia dell’Azerbaigian è risultata ancorata alla produzione di petrolio e gas, che non a caso ha rappresentato circa il 47,8% del PIL del Paese e oltre il 92,5% delle entrate derivanti dalle esportazioni.6

Loss and damage e finanza climatica

Esclusa, quindi, la possibilità che Al Jaber torni a presiedere nuovamente una Conferenza sul clima, occorre però dare merito a quelle spiccate abilità politiche che gli hanno consentito di intascare quello che – pur con tutta una serie di limiti – non può non essere considerato un successo: il Fondo loss and damage. Istituito a Sharm el Sheik durante la COP dello scorso anno, è diventato operativo già durante il primo giorno di lavori di COP28 grazie all’inattesa generosità di una serie di Paesi, incluso il nostro.

Sebbene l’assunzione di responsabilità da parte dell’Occidente per il riscaldamento globale e, soprattutto, per i danni da esso provocati abbia sempre rappresentato un tabù, con una dichiarazione inaspettata, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato che l’Italia avrebbe offerto al Fondo un contributo di 100 milioni di euro. Per meglio comprendere il cambio di postura mostrato dal Governo si rende necessario fare un passo indietro e tornare allo scorso 6 ottobre, quando è stato annunciato un accordo tra ADNOC – compagnia petrolifera di cui si è già detto – e le italiane SAIPEM e Maire Tecnimont per lo sviluppo di due giacimenti di gas naturale al largo degli Emirati.7

A questo riguardo, ciò che appare lecito pensare è che, proprio in occasione della stipula dell’accordo, siano state avanzate delle richieste per permettere ad Al Jaber di ripulire la sua figura dalle accuse di chi guardava con sospetto alla sua candidatura a causa dell’inevitabile conflitto di interessi derivante da essere contemporaneamente CEO di ADNOC e presidente di COP28. Ad avvalorare simili considerazioni, il fatto che anche Germania e Francia si sono impegnate a devolvere la stessa cifra al Fondo, che rappresenta, appunto, una delle principali vittorie conseguite dal sultano e che può dirsi raggiunta anche grazie alla necessità – emersa a seguito della guerra in Ucraina – di stroncare le dipendenze dal gas russo. Una necessità che di fatto ha permesso ad ADNOC di porsi come nuovo fondamentale partner energetico per i Paesi sopra menzionati.

Ma al di là dei retroscena che hanno favorito l’operatività del Fondo e per evitare che lo stesso sia ricordato per essere poco più che una vittoria autocelebrativa ottenuta da Al Jaber, occorre chiarire molti aspetti relativi al suo funzionamento. In particolare, per testarne l’efficacia, bisognerà guardare al comportamento futuro degli Stati finanziatori. Le donazioni, infatti, sono volontarie e non prevedono obblighi di centellinare i finanziamenti nel corso del tempo. Allo stato attuale sono stati raccolti più di 400 milioni, ma per quanto questa sia una cifra considerevole, non è neanche lontanamente sufficiente a coprire perdite e danni né a mettere i Paesi vulnerabili in condizione di affrontare gli effetti peggiori dei cambiamenti climatici. Per poterci riuscire, infatti, occorre ragionare e muoversi su una scala di miliardi di dollari, non di milioni. Secondo le stime di Climate Policy Initiative, per esempio, per riuscire a contenere l’aumento della temperatura media globale entro gli 1,5 gradi, in media occorrerebbero 10mila miliardi di dollari all’anno dal 2025 al 2050, considerando tanto i finanziamenti pubblici quanto quelli privati.8

Scenari futuri

Quindi, senza voler sminuire l’importanza del traguardo raggiunto durante la COP28, occorre mantenere una soglia di attenzione particolarmente alta per evitare che il Fondo, prosciugato dai finanziamenti iniziali, si trasformi in uno strumento vuoto o, peggio, in una moneta di scambio di cui i grandi Paesi finanziatori – e spesso emettitori – possano servirsi per continuare a bruciare i combustibili fossili. D’altra parte, proprio l’impiego prolungato di questi ultimi rappresenta la più grande minaccia per i Paesi vulnerabili alla crisi climatica, che a differenza degli altri Stati partecipano alle Conferenze sul clima per negoziare termini e condizioni della loro stessa sopravvivenza.

Questo spiega perché la bozza di testo circolata nella giornata che avrebbe dovuto segnare la fine dei lavori è stata fortemente criticata e poi riscritta durante la notte tra martedì 12 e mercoledì 13 dicembre. Infatti, non contenendo riferimenti ai combustibili fossili, la bozza è stata considerata gravemente insufficiente, suscitando l’indignazione del gruppo di Paesi che compongono la “Coalizione della grande ambizione” (High Ambition Coalition, in inglese). Sotto la guida di Tina Stege, inviata per il clima delle Isole Marshall, la Coalizione riunisce i Paesi europei e le nazioni insulari del Pacifico e dei Caraibi, che hanno lavorato insieme – e cercato di coinvolgere altri Paesi – per ottenere il phase-out dei combustibili fossili.

Sebbene il testo finale dell’accordo non contenga l’espressione tanto desiderata, sostituita dalla più morbida “transitioning away”, rappresenta comunque un compromesso che invita gli Stati ad: «allontanarsi gradualmente dall’uso dei combustibili fossili per la produzione di energia, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050, in linea con la scienza».9

La COP28, dunque, si chiude con un accordo che in molti non hanno esitato a definire “storico”: è la prima volta, infatti, che in un testo della Conferenza delle Parti è incluso il termine combustibili fossili. E sebbene la sola presenza di questa dicitura non si traduca certamente in una assoluta garanzia sulla fine dell’era delle fonti fossili – nel testo ci sono ancora troppe scappatoie su tecnologie costose e non sufficientemente sviluppate come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, che chi promuove gli interessi dei combustibili fossili cercherà di utilizzare per mantenere in vita il proprio business – quello raggiunto è un risultato che non si credeva immaginabile.

Un risultato che non segna la fine di un processo quanto, più verosimilmente, l’inizio di una sua nuova fase. Quella più difficile e contraddittoria, ma anche più importante perché da essa dipende il futuro di ciascuno di noi. Un futuro di cui si potrà godere solo se i piani di decarbonizzazione che le Parti firmatarie dovranno impegnarsi ad attuare risulteranno sufficientemente ambiziosi.



Foto copertina: flickr.com Sultan Al Jaber, presidente della COP28