Alla ricerca dell’armonia nel Mediterraneo

È possibile pensare ad un accordo sul modello di Helsinki 1975, e dunque all’istituzione di un’organizzazione sul modello dell’OSCE, anche per il grande Medioriente e la regione mediterranea?

 

[dropcap]I[/dropcap]l Medioriente contemporaneo, come ben noto, è attraversato da tensioni e ondate di violenza che irradiano tutta la vasta regione col proprio potenziale distruttivo e destabilizzante fino a coinvolgere il Mediterraneo e altre aree non immediatamente contigue. All’ordine del giorno ci sono le questioni relative all’instabilità degli Stati della regione, flussi migratori, violenza, possibile ritorno al confronto tra Occidente e Russia, sul tema della Siria ad esempio.

E, dunque in un futuro non troppo remoto sarà necessario chiedersi su come riorganizzare il caos mediorientale, partendo da spinte endogene verso la pacificazione dell’area. Guardando ad esperienze storiche consolidate in altre regioni, l’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa ha asservito a questo scopo, stabilendo pratiche e strumenti finalizzati a facilitare dialogo e cooperazione in un’area martoriata dal sanguinoso secondo conflitto mondiale, e dal confronto Est-Ovest del post-dopoguerra.

Durante l’estate del 1975 a Helsinki si raggiunse una tappa fondamentale della pacificazione del continente europeo, nonché fu mosso un primo passo di distensione nelle relazioni tra blocco sovietico ed occidente. Passato alla storia come “Accordi di Helsinki”, l’atto finale siglato il 1° Agosto 1975 chiudeva una serie di summits[1]iniziati con la Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa nel 1973 e, al contempo, dava inizio a quello “sforzo [..] finalizzato a stabilire un quadro globale e inclusivo per la sicurezza e la cooperazione in Europa”[2], che avrebbe portato alla fondazione dell’OSCE nel 1990.

Da quel processo che ebbe inizio a Helsinki, s’intavolò il dialogo che avrebbe poi aiutato a riavvicinare i due blocchi, istituendo un meccanismo di sicurezza comune e cooperazione tra “vecchi nemici” grazie ad iniziative di rafforzamento della fiducia reciproca e della collaborazione. Il decalogo dei principi guida delle relazioni tra gli stati firmatari della dichiarazione finale elencava dieci punti e tre dimensioni d’azione – i cosiddetti three baskets–suddivisi in aspetti legati alla sicurezza nell’ambito politico e militare, aspetti economici ed ambientali della sicurezza e, infine, la terza dimensione della sicurezza legata al rispetto dei diritti umani[3].

Con l’istituzionalizzazione della dichiarazione di Helsinki, l’Organizzazione da essa generata, l’OSCE, ha facilitato la ricerca di soluzioni durature e condivise, guardando oltre la “mera” risoluzione dei conflitti nel breve periodo. Bensì, l’OSCE ha lavorato alla realizzazione di progetti che promuovessero sicurezza, cooperazione favorendo l’accesso a necessità fondamentali quali la garanzia di elezioni libere e trasparenti, uguaglianza di genere, lotta alle discriminazioni, finanche l’accesso a educazione ed acqua potabile.

Guardare in maniera inclusiva ai problemi che affliggono le società moderne come interconnessi e come potenzialmente minanti della sicurezza comune, è stato uno dei concetti vincenti dell’OSCE.

Idealmente, l’esperienza dell’OSCE potrebbe servire come modello paradigmatico per l’istituzione di altre piattaforme di sicurezza regionale, plasmando il concetto di cooperazione sulle peculiarità locali.

Tuttavia, le visioni discordanti in materia, ad esempio, di rispetto delle libertà fondamentali, rivalità interstatali e la mancanza di fiducia tra paesi confinanti hanno reso inverosimile finora anche solo il pensare di poter traslatare nella regione mediterranea e del grande Medioriente il modello OSCE per la pacificazione e messa in sicurezza dell’area.

È bene ricordare che il processo di Helsinki, e successivamente l’OSCE, si siano verificate in un’area notevolmente disomogenea dal punto di vista linguistico e culturale, durante un periodo di forte opposizione ideologica e di visioni totalmente contrastanti della politica e della gestione statale.  Nel 1975 l’esistenza di alcuni paesi neutrali nella regione ha facilitato il dialogo fornendo delle zone cuscinetto e interlocutori per la distensione tra i due blocchi. Ciò nonostante, la situazione storica del 1975 fa riferimento ad una visione bipolare e alquanto statica che non si applica in alcun modo alla realtà contemporanea del quadrante mediorientale e del Mediterraneo, né tantomeno alle minacce asimmetriche alla sicurezza e alla fluidità delle società e identità.

Pensare che la prossimità culturale, linguistica ed etnica della regione mediorientale possa servire una base omogenea per avviare il dialogo tra le parti primariamente, per poi inglobare i vicini geografici e i partners politici internazionali, significherebbe operare una semplificazione delle problematiche che toccano il medioriente e una compressione delle difficoltà che rendono il dialogo intra- e inter regionale una chimera.

A corroborare ciò, basterebbe anche solo citare i dati insoddisfacenti sul livello d’integrazione economica e sulla quasi totale assenza di accordi commerciali a livello inter-regionale. A pesare sulla scarsa integrazione regionale non è solo la difficoltà a diversificare le economie degli stati della regione,  ma anche una grande divergenza in termini di quote di potere e rivalità nazionali. Ad ogni modo, la sicurezza internazionale è oggi attentata alla regione mediorientale altamente instabile, con evidenti difficoltà di controllo dei fenomeni che originano dalla regione e che affliggono in primis, il medioriente stesso, per poi diffondersi, come in una struttura a cerchi concentrici, ai vicini prossimi e fino ad attori dell’arena internazionale, geograficamente lontani nello spazio.

Il Mediterraneo ha recuperato quella centralità nella geopolitica e negli affari internazionali che la storia pareva avergli strappato gradualmente,dalla seconda metà del 900 fino ai giorni nostri con la famosa strategia del “pivot to Asia” abbozzata dall’amministrazione Obama. Finora, come ben noto, la strategia statunitense del dis-engagement dallo scenario mediorientale non è pienamente riuscita, così come quasi tutte le iniziative europee basate sull’intento della costruzione di un rapporto di dialogo costruttivo con la regione mediorientale. La “prepotenza” con cui il Medioriente e Mediterraneo si sono riguadagnati gli onori e oneri della cronaca e della storia, è una realtà contemporanea che ha avuto il suo culmine con l’esplosione delle ondate di protesta che hanno animato le piazze mediorientali dal 2010.

Difficile tuttavia creare, anche con un ardito esercizio d’immaginazione, parallelo tra le primavere arabe e gli eventi che tra il 1980 e 1990 misero fine all’esperienza delle repubbliche socialiste filo-sovietiche in Europa orientale a causa principalmente della natura multipolare dell’attuale sistema internazionale nonché delle già citate frammentazioni e rivalità interne al Medioriente, dove addirittura i confini ed alcune norme del diritto internazionale sono disputate.

Mancano le condizioni di base per intavolare un dibattito costruttivo sul modello della Conferenza di Helsinki, sebbene idealmente la regione presenti buone potenzialità di base. Mancano un’agenda politica e di sicurezza condivisa all’interno della regione mediorientale e altrettanto fallaci sono state le iniziative di engagement con i partners della sponda nord del Mediterraneo; senza citare i numerosi fenomeni che accentuano le fratture del sistema regionale mediterraneo/mediorientale, come ad esempio il tema dell’accoglienza migranti, prezzi del petrolio, senza dimenticare la bestia nera del dibattito sul medioriente contemporaneo, ovvero la mancanza di una posizione condivisa sulle modalità di risoluzione della questione israelo-palestinese.

Con queste premesse, risulta utopistico pensare alla possibilità di utilizzare una struttura decisionale in Medioriente  sul modello dell’ OSCE, dove le  decisioni come quelle di definire le regole di ingaggio, mandato e / o istituire missioni sul terreno sono di natura vincolante e necessitano di unanimità di intenti degli stati membri. Proprio in relazione a questo punto e alla volontà politica in capo agli stati di costituire un’entità basata sulla cooperazione, resistono le maggiori perplessità in merito alla possibilità di estendere all’area mediterranea mediorientale le strutture esistenti dell’OSCE.

Bisogna dapprima prendere coscienza delle condizioni, o dei limiti, immutabili posti dalla geografia e accettare I nostri vicini, mentre l’UE dovrebbe iniziare a guardare oltre la prossimità geografica delle sponde del Mediterraneo inglobando in una strategia sul lungo termine e ad ampio raggio anche i vicini dei nostri vicini, come ebbe a dire l’Alto Rappresentante per l’azione esterna e difesa comune dell’UE, Federica Mogherini, nel 2014 durante la sua audizione al Parlamento Europeo come discorso di “insediamento”. È ben noto che i rapporti di buon vicinato, a qualsiasi livello, siano tanto difficili da costruire quanto da mantenere.

In conclusione, alla luce delle rivalità regionali, delle discrepanze di visioni geopolitiche e delle nuove linee di frattura interne al Medioriente, c’è da chiedersi come iniziare un dialogo che coinvolga anche l’UE e gli attori che hanno un peso politico in Medioriente. C’è altresì da chiedersi quale ruolo destinare in questo ipotetico tavolo di dialogo ad attori che sono fisicamente nella regione ma che per particolarità etno-linguistico-religiose tendono a sfuggire all’etichettatura di Medioriente che sempre più sovente tende ad appiattirsi sui confini degli stati arabofoni e musulmani dell’area. Ovvero, a un’eventuale conferenza di Helsinki per il Mediterraneo e il Medioriente, quale ruolo spetterebbe a stati considerati come nemici da alcuni e alleati fidati per altri, Iran, Turchia, Russia per citarne alcuni. È bene non trascurare l’annosa questione della presenza dello stato ebraico nella regione, il cui ruolo come interlocutore potrebbe rivelarsi fondamentale per la risoluzione dell’occupazione dei territori palestinesi. Lo stabilimento di un nuovo ordine mondiale passa per la stabilizzazione della regione mediorientale,che si lega a doppio filo con le problematiche che riempiono l’agenda politica dei leaders europei e mondiali in generale. Dalle migrazioni alla violenza legata al terrorismo di matrice islamico, le sfide che affliggono le due sponde del mediterraneo sono anche caratterizzate, e in un certo senso accentuate, da forti differenze economiche e culturali, ingerenze esterne e mancanza di fiducia tra gli stati della regione, e ad un livello d’analisi più ampio del sistema internazionale contemporaneo.

Immagine in copertina: Nel Mezzo del Mezzo, Albergo delle Povere, Palermo 2015, AFR foto Fabio Sgroi – Fonte: Artribune 

[1] I Capi di Stato presenti ai lavori dei summits di Helsinki e Ginevra, svoltisi tra il 1973 e 1975, rappresentavano i 35 paesi membri della NATO, del Patto di Varsavia, gli Stati neutrali e non allineati.

Lamberto Zannier, Risvegliare lo spirito di Helsinki 40 anni dall’Atto finale di Helsinki, OSCE Magazine

[2]“Helsinki ha dato inizio a un processo di dialogo per la pace, perseguito con pazienza e continuità, che è divenuto la prerogativa dell’OSCE”, ibidem

[3] Come elencati nell’Atto finale della di Helsinki nel 1975, i principi guida erano i seguenti: eguaglianza sovrana e rispetto dei diritti inerenti alla sovranità; non ricorso alla minaccia o all’uso della forza; inviolabilità delle frontiere; integrità territoriale degli stati; risoluzione pacifica delle controversie; non intervento negli affari interni; rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli; cooperazione fra gli stati; adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale). Fonte: OSCE Magazine