La transizione multipolare causa scintille nei Balcani.
A cura di Leonardo Bossi
Uno dei tanti effetti della guerra in Ucraina sull’opinione pubblica mondiale è l’aver fatto venire definitivamente meno il normalcy bias attraverso il quale le menti occidentali sono rimaste quiescenti per decenni, convinte di stare vivendo la fine della storia. Ecco, quindi, che ogni più piccolo scontro viene interpretato come possibile casus belli. A inizio agosto 2022, le notizie provenienti dal Kosovo, dove i cittadini di etnia serba avevano innalzato barricate scontrandosi con la polizia, avevano fatto suonare campanelli d’allarme per un potenziale nuovo fronte bellico, stavolta nel cuore dell’Europa. Notizie che in altri tempi sarebbero state derubricate a ordinaria amministrazione, o quasi: i recenti scontri non si sono avvicinati all’intensità del biennio 2011-2013, dove il bollettino finale segnava morti e feriti da ambo le parti. L’allarmismo, tuttavia, non è per nulla privo di ragioni.
La sovranità del Kosovo
L’oggetto della protesta era una “Misura di Reciprocità”[1] del governo di Pristina che avrebbe imposto a tutti i cittadini l’uso di targhe omologate dal governo di Pristina, un modo per costringere indirettamente la minoranza serba a ottenere la cittadinanza kosovara, dal momento che per ottenere una targa automobilistica bisogna essere necessariamente in possesso di carta di identità e cittadinanza. Sebbene infatti le autorità albanesi abbiano capitalizzato appieno il supporto statunitense negli anni ’10 del 2000, ottenendo sia la vittoria militare sulla Serbia sia l’indipendenza de facto, giudicano a ragione la battaglia politica per nulla chiusa: il Kosovo non è membro dell’ONU – all’interno del quale solo il 50% dei membri lo riconosce come stato – non ha ancora un vero e proprio esercito e la sua sovranità non è riconosciuta da diversi membri dell’Unione Europea, ma soprattutto anche dai suoi cittadini serbi.
Tutt’altro che mere questioni legali o di poco conto: il riconoscimento della sovranità su un territorio è una delle premesse base per l’esistenza e la prosperità di uno stato. Un pezzo di fondamenta chiave, senza la quale l’intero edificio crolla.
Lo stato kosovaro ha finora sopperito alla mancanza di fondamenta solide con il vitale supporto militare e diplomatico dell’alleanza atlantica e degli Stati Uniti, che lo vedono come perno chiave della loro strategia nei Balcani. Ne è testimonianza Camp Bondsteel, la più grande base NATO in Europa, situata nella cittadina kosovara di Ferizaj.
L’ordine multipolare come minaccia esistenziale
Lo scoppio della guerra in Ucraina, la capacità della Russia di resistere con efficacia al più grande regime sanzionatorio mai posto in essere dai paesi occidentali, le montanti pressioni cinesi su Taiwan, e le frequenti rotture dei paesi arabi con le posizioni occidentali sono state monito per Pristina: i loro protettori non sono più in completo controllo del pianeta, come era il caso nel 1999 e nel 2008. E se per il momento il contingente NATO in Kosovo è più che sufficiente per garantir loro la sicurezza, la sua presenza non è scontata e potrebbe venire meno.
Il tempo, quindi, è sempre più un’incognita e non più un fattore intrinsecamente a vantaggio delle autorità albanesi; occorre quindi premere l’acceleratore e chiudere quanto prima la partita della sovranità, anche a costo di danneggiare un decennio di miglioramento e normalizzazione con l’ex nemica Serbia, dagli accordi di Bruxelles del 2013 alla normalizzazione delle relazioni economiche del settembre 2020, firmata nell’ufficio ovale alla presenza di Donald Trump. Così l’ex ministro degli esteri kosovaro Enver Hoxhaj, intervistato il 20 Luglio da BIRN: “La guerra in Ucraina dimostra che sarebbe stato fondamentale per noi raggiungere un accordo tra il 2013 e il 2017, ma abbiamo lasciato la questione aperta, e gli eventi internazionali stanno creando nuove situazioni, diversi focus e attenzioni”[2]
La comunità serba, potenziale testa di ponte
Il fronte interno è il primo e ovvio scenario dove intervenire per sradicare le minacce alla sovranità. La comunità serba dal 1991 ad oggi è passata dal 10% all’1% della popolazione totale, un forte ridimensionamento ma non annullata in termini di potere politico, quel tanto che basta per non permettere al governo centrale di abbassare la guardia. Gioca a vantaggio dei serbi la compattezza e il patriottismo della comunità, spalmata in modo omogeneo su una manciata di provincie, in particolare nel nord del paese, un brutto grattacapo per Pristina. Scontri e tafferugli con le forze di sicurezza del Kosovo sono da sempre stata ordinaria amministrazione.
Belgrado al bivio
Grande sconfitto dell’ordine internazionale liberale, che oggi vede la propria comunità nazionale separata in più di tre stati perlopiù ostili, la Serbia è riuscita a contrattare un mero rinvio della messa in vigore della “Misura di Reciprocità”, il che ha permesso lo smantellamento delle barricate e un momentaneo ritorno alla normalità. Cosa può accadere a settembre non è facile da prevedere. In caso di uso della forza da parte kosovara la Serbia sarà costretta a rispondere, in caso contrario il Paese esploderebbe e il presidente Vucic sarebbe considerato responsabile per aver abbandonato i propri compatrioti. Il tempismo della crisi sorride a Pristina: il temporaneo isolamento di Belgrado dal fratello maggiore russo a causa delle sanzioni occidentali sul traffico aereo impedisce eventuali approvvigionamenti di armi e materiale bellico. Inoltre, se le istituzioni europee si sono dimostrate più accomodanti verso gli interessi serbi rispetto agli Stati Uniti, in caso di un serio scontro tra i due paesi è indubbio il loro supporto a Pristina, che pregiudicherebbe ogni futuro accesso della Serbia alla comunità.
Le zampate del soft power russo in Europa
È l’8 Agosto che le autorità europee sono state messe in allarme da una prospettiva molto più seria dei tafferugli in Kosovo della settimana prima: Alexander Botsan-Kharchenko, Ambasciatore straordinario e plenipotenziario russo a Belgrado ha dichiarato a SM news la possibilità di aprire una base militare russa nel paese balcanico[3].
Mossa di fatto ai limiti dell’impossibile per motivi logistici, considerando che solo un mese fa Sergei Lavrov è stato costretto ad annullare la sua visita in Serbia a causa della chiusura dello spazio aereo da parte dei paesi NATO limitrofi. La mancata smentita da parte delle autorità serbe dimostra tuttavia l’eventuale volontà di Belgrado di rompere con l’Europa, le cui promesse di integrazione ed accesso alla comunità erano ritenute dai più ottimisti come l’ingrediente perfetto per far ingoiare la pillola dell’indipendenza del Kosovo all’opinione pubblica del paese slavo. Insieme alla caduta del governo antirusso di Petkov in Bulgaria e alle manifestazioni anti-UE in Moldavia, le dichiarazioni di Kharchenko dimostrano un possibile risveglio del soft power di Mosca, a lungo considerata – a ragione – incapace di far valere i propri interessi senza l’ausilio della forza bruta. Era appena il 2020 quando Mosca fu a un passo dal subire una seconda Maidan in Bielorussia, ora ha la prospettiva di aprire una base militare nel cuore dell’Europa.
Note
[1] “Reciprocità” perché la Serbia non riconosce il Kosovo come stato indipendente e di conseguenza nemmeno i documenti da esso emessi, incluse targhe automobilistiche. https://euronews.al/en/kosovo/2021/09/20/what-is-the-principle-of-reciprocity-in-kosovos-license-plate-dispute-with- serbia/
[2] https://balkaninsight.com/2022/07/20/ukraine-war-makes-kosovo-serbia-deal-more-urgent-enver-hoxhaj/
[3] https://news.ru/europe/v-serbii-soobshili-o-poyavlenii-rossijskoj-voennoj-bazy/
Foto copertina: Soldati Nato al confine tra Kosovo e Serbia (afp)