Stato d’emergenza e terrorismo: contraddizioni e ipotesi di superamento

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Le democrazie moderne vittime di attentati terroristici assistono a un crescente sgretolamento delle loro fondamenta, in particolare la separazione dei tre poteri, poiché l’uso inflazionato della misura giuridica dello stato d’eccezione sta sempre più esautorando l’ambito legislativo e giudiziario a esclusivo vantaggio dell’esecutivo, assottigliando così inesorabilmente la distanza che divide la democrazia dalla deriva dispotico-dittatoriale.


A cura di Antonio Magariello

“Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”[1]. Con tali parole risuona l’incipit dell’ opus magnum di Rosenzweig e, mutatis mutandis, analogo potrebbe dirsi l’incipit della ‘storia’ dello stato secondo Thomas Hobbes, giacché – prescindendo dalla considerazione di ordine filosofico, dalla quale ora dobbiamo esimerci, se si tratti solo di una circostanza meramente ideale o invece storicamente determinata – la condizione di bellum omnium contra omnes nella quale gli uomini vivevano ‘prima’ del sorgimento dello stato, faceva sì che costoro percepissero la loro vita costantemente in pericolo, ovvero avvertissero sempre ronzante il pungiglione della morte. La creazione dello stato, pertanto, assolve la funzione di garantire sicurezza ai suoi cittadini, chiedendo però in cambio la rinuncia da parte di costoro a una cospicua parte delle loro libertà fondamentali. Cosa accade, tuttavia, quando il macabro fantasma che lo stato era stato chiamato a respingere, si ripresenta sotto nuove spoglie, non più come paura, bensì come terrore della morte? La scelta del termine non è dettata da un retorico onanismo linguistico, bensì riposa sulla differente fisionomia che assume il sentimento di timore, quando gli stati e i suoi cittadini divengano vittime di attacchi terroristici. Il terrorismo è un fenomeno di matrice moderna, poiché esso vive e si nutre della spettacolarizzazione e dalla mondialità che gli conferiscono i mass-media. “Gli attacchi firmati dalle filiali del terrore jihadista esportano guerra e terrorismo come atto comunicativo nell’era dell’iperconnessione digitale e disintermediazione mediatica. […] L’effetto che ne viene prodotto è di moltiplicazione e scomposizione del fronte del conflitto, fino al cuore della vita di ogni giorno”[2].

La vis sconquassatrice degli attentati terroristici, volendo istituire un provvisorio rapporto matematico, cresce proporzionalmente al diminuire del numero degli uomini coinvolti nell’attacco. L’ asimmetria sussistente tra questi ultimi e i paesi occidentali che decidono di colpire, unitamente alla spettacolarità mediatica, rappresentano l’ubi consistam della potenza dell’attacco terroristico. Sovente, quest’ultimo consta di un sparuto manipolo di uomini – cellule isolate oppure foraggiate da più forti paesi terzi ‘occulti’ – versanti in condizioni di patente inferiorità numerica, tecnologica e militare. La risonanza di cui godono gli effetti dei loro attacchi, pertanto, trae la scaturigine dalla messa a nudo della illusoria invulnerabilità del labaro sotto il quale le società capitalistiche si sono raccolte, protervi araldi di una missione impossibile: la rimozione della morte. Accade, invece, che pochi uomini, non sempre ben addestrati, con un ristretto apparato militare si riveli no in grado di penetrare e colpire nel suo tessuto più profondo il mondo perfetto e ultimo dell’autoproclamatasi consummata societas

I moderni stati occidentali, d’altro canto, dispongono – chi in maniera esplicitamente codificata all’interno del proprio ordinamento giuridico, chi invece no – di una misura giuridico-politica atta a combattere i fenomeni terroristici, nota come stato d’eccezione, che può essere poi declinato a seconda dei contesti come stato d’emergenza, d’assedio, ecc., declinazioni che ci si esime dal trattare nel presente articolo. Tramite lo stato d’eccezione vengono temporaneamente sospese alcune libertà fondamentali dei cittadini garantite dalla costituzione, per la medesima ragione per cui il Leviatano di Hobbes, al fine di poter governare, deve esigere dai cittadini una rinuncia alle proprie libertà, ovvero per poter salvaguardare e proteggere la loro sicurezza.

Tuttavia, come ricorrentemente è avvenuto e continua ad avvenire, l’uso di questo istituto giuridico ha dato luogo piuttosto a un suo abuso, risultando un rimedio più dannoso del male che era invocato a estirpare. Ad abundantiam Giorgio Agamben, in Stato d’eccezione, ha evidenziato attraverso una ricostruzione onto-filogenetica le degenerazioni alle quali ha dato vita l’abuso dello stato d’eccezione. Basti menzionare il dodicennio nazista quale ininterrotto stato d’eccezione oppure il famigerato Patriot Act quale exmplum princeps dell’autoritarismo in cui possono incorrere gli stati, mentre millantano urbi et orbi una ignominiosa e irrealistica “global war on terror”. Le reazioni che sovente i governi hanno intrapreso per contrastare il terrorismo trovano il loro comun denominatore nell’ instaurazione di un clima di sospetto nei confronti della fede religiosa degli attentatori, ritenuta la causa degli attentati – curioso caso di bilaterale instrumentum regni, poiché i jihadisti travestono di ieratica religiosità la congerie di ragioni ‘politiche’ in nome delle quali combattono, mentre i governi individuano nella religione dei terroristi il nemico autentico da debellare. Le modalità con le quali i governi hanno tentato di fronteggiare i fenomeni terroristici di cui sono stati vittime hanno non soltanto mancato non poche volte l’autentico nerbo, ma soprattutto, tramite l’attuazione di opere di spionaggio e controllo nei confronti di innocenti cittadini appartenenti al medesimo credo degli attentatori, hanno ingenerato processi di dura ghettizzazione e di maccartistica discriminazione, sortenti l’indesiderato effetto di instillare nei bersagli risentimento e disprezzo nei confronti dei governi stessi, giocando in tal maniera al gioco dei jihadisti, il cui scopo primario è anzitutto lacerare dall’interno le compagini politico-sociali degli stati nemici. Parallelamente a quanto suddetto, l’abuso dello stato d’emergenza ha provocato anche la rapida e crescente ‘erosione’ del potere parlamentare, poiché l’esecutivo, in virtù dell’intensificazione dei poteri conferitigli dall’ eccezionalità del momento, dovendo operare scelte urgenti, non può tergiversare, ‘perdendo tempo’ in attesa delle tempistiche procedurali dell’iter parlamentare, il che, come sottolinea opportunamente Agamben, spiega, tanto per dirne una, il proliferare dei decreti-legge. Si evince, dunque, quale grave pericolo sia insito nell’inadeguato uso dell’stato d’eccezione: l’esistenza stessa della democrazia, la quale, certamente non vive – e mai ha vissuto – in un’età dell’oro, ma rappresenta per noi l’ultimo baluardo capace di difenderci da derive dispotico-dittatoriali. Diversi governi, infatti, tendono a prorogare sine die la durata della circostanza eccezionale, commettendo un duplice errore: il primo, di natura logica, risiede nel fatto che una misura è eccezionale, se circoscritta in un orizzonte temporale di breve durata; il secondo, di natura pratica, poiché, ove vi sia una proroga indefinita dell’eccezione, non tanto quest’ultima diverrebbe la regola, ma svanirebbe la distinzione tra i due,  trapassando in un magma anomico e ‘an-archico’, visto che la democrazia si regge sulla separazione dei potere. Inoltre, laddove l’esecutivo inglobasse e legislativo (tramite la proliferazione di decreti-legge) e giudiziario, ci troveremmo in un’autentica dittatura monocratica. Non si può, però, nemmeno idealisticamente credere che vi sia una soluzione unica e invariabile fornibile a tutti i governi per fronteggiare l’eventualità di attacchi terroristici, giacché, trattandosi di fenomeni storicamente e geograficamente determinati, richiedono di volta in volta soluzioni specifiche e valide per quelle precise circostanze. Ciò che, invece, si può tracciare sono delle direttive generali, di ordine metodologico, per scongiurare il pericolo di autoritarismo insito nello stato d’eccezione, “soglia di indeterminazione tra democrazia e assolutismo”[3].

Il giurista François Saint-Bonnet esorta, a tal proposito, anzitutto ad accettare che il terrorismo non è un fenomeno contingente o accidentale, ma è divenuto ricorsivo nella modernità, perciò continuare a trattarlo come fenomeno occasionale o eccezionale è anacronistico e controproducente, perché fa sì che adoperiamo misure eccezionali per un fenomeno che eccezionale più non è! In forza di ciò, risulta necessario restituire immediatamente la centralità che il parlamento sembra aver perso in molte delle democrazie moderne, riducendosi a mero approvatore di decisioni prese dal governo. Parlamento e governo paiono così essere due termini di un’antinomia insuperabile, che per ragioni pratiche d’urgenza sottrae potere al primo per assegnarlo al secondo. Invece, bisogna ripensare la funzione cruciale del parlamento, luogo del dibattito, della mediazione – del tempo! – perché, ipotizzando il caso del verificarsi di un attentato terroristico, il governo, dopo le iniziali misure eccezionali, dovrà necessariamente confrontarsi con il suo contraltare, il quale costituisce l’unica garanzia affinché le libertà fondamentali dei cittadini non vengano soppresse in nome della Ragion di Stato.


Note

[1] {Rosenzweig F., La stella della redenzione, trad. it. di G. Bonola, Marietti, 1985, p. 3}.

[2] {Calculli M. e Strazzari F., Terrore sovrano, Il Mulino, 2017, p. 9}.

[3] Agamben G., Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, 2003, p. 11


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