Dall’Ambasciata dell’Afghanistan a Roma, Opinio Juris riporta una giornata intensa, ispirata ai temi del libro Exit Tragedy di Maria Clara Mussa e Daniel Pagani. Iniziativa che ha coinvolto alcuni comuni italiani, l’adozione della bandiera afghana per sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema sentitissimo. L’iniziativa lanciata dall’associazione Tramandars ha riscosso un importante successo.
A cura di Barbara Minicozzi e Valentina Chabert
L’Afghanistan è più vicino di quanto crediamo
Roma. 8 marzo 2022, Ambasciata dell’Afghanistan a Roma. Un incontro intenso in un ambiente multiculturale, in un momento estremamente delicato: la giornata internazionale della donna, una ricorrenza vietata alle donne afghane. Nella terra “degli aquiloni”, con lo sfondo dell’inno afghano e di quello italiano, uniti armoniosamente, il pensiero va alle donne afghane che necessitano dell’aiuto della compagine internazionale. Iniziativa che ha coinvolto alcuni comuni italiani, l’adozione della bandiera afghana per sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema sentitissimo. L’iniziativa lanciata dall’associazione Tramandars ha riscosso un importante successo.
Il dolore visto nei volti delle donne afghane sotto il burqa è indescrivibile. Non possono esprimersi nella società. La musica e l’inno afghano ora sono proibiti nel paese.
“La donna ha un ruolo fondamentale in quei paesi lontani, una donna forte rende l’uomo forte in un sistema che si enuclea nella società odierna”. Tra una fotografia e l’altra, il messaggio è chiaro “non lasciamo indietro nessuno”. Amicizia, odori, profumi lasciati in quei paesi dove le donne salvano la propria famiglia, lottano per la pace.
I due autori Maria Clara Mussa e Daniel Pagani hanno avuto possibilità di incontrare le donne e avere vicinanza con i soldati che erano lì a combattere.
ExitTragedy è nato dal dolore, dalla sofferenza e dalla volontà di dover definire la situazione attuale in Afghanistan incorniciato da una politica che colpisce duramente le donne.
Le esperienze vissute, dalla propria pelle alla penna, hanno permesso agli autori di comprendere le sofferenze e farle proprie, raccontando l’urlo delle donne.
Le istituzioni italiane hanno considerato la missione in Afghanistan come missione di pace. Diplomatici, giornalisti e differenti classi di competenze si sono messe a disposizione di quel paese – ma anche del nostro. L’attuale “abbandono dell’Afghanistan” non è un “exit strategy”, ma un’ “exit tragedy”. Ciò che è successo alle donne afghane, secondo gli autori, costituisce “il primo genocidio femminile della storia”, che ha macchiato le mani dei talebani e ha cancellato ogni traguardo raggiunto in epoche precedenti. “C’è un solo modo per non dimenticare: continuare a ricordare”. In questo inizio di secolo le guerre non sono lontane da noi, sono nelle nostre case e c’è un filo rosso, un tema di nuovi posizionamenti che costringeranno tutti ad assumere nuove responsabilità.
La Senatrice Anna Cinzia Bonfrisco evidenzia che le associazioni di donne afghane andrebbero riconosciute come una speciale ONG, una sorta di forum nei paesi europei in cui sono rifugiate, un “Parlamento in esilio” accanto al Parlamento Europeo che affronti la necessità di sostenere le donne afghane.
Problematica in Afghanistan è ad oggi la morsa mortale della crisi economica, della povertà, del traffico degli esseri umani. La furia assassina dei talebani nulla potrà portare all’Afghanistan; non sono i rappresentanti di un malessere sociale di società elitarie o tribali; non si deve credere alla disinformazione: i talebani non sono i portavoce dei miserabili o degli svantaggiati, bensì solo la proiezione di radicalismi e del fanatismo in un’area geografica fragile, in cui urge una maggiore garanzia di sicurezza.
L’ambasciatore Khaled A. Zekriya e l’inclusione
È necessario comprendere il vero senso dell’inclusione in Afghanistan, dove i talebani ricercano il riconoscimento diplomatico, l’eliminazione dalla lista delle sanzioni dei terroristi, l’ accesso alle risorse congelate, la bramosia di espansionismo, il cui carattere distintivo e transnazionale è il forte legame con Al-Qaeda. Risulta quindi fondamentale ristabilire i legami di pace, ma soprattutto urge una modifica alla Costituzione.
Eppure l’articolo 6 della Costituzione afghana recita: “Lo stato ha il dovere di creare una società prospera fondata sulla giustizia sociale, sulla tutela della dignità umana, e dei diritti umani, sulla realizzazione della democrazia e di garantire l’unita nazionale e l’uguaglianza tra tutti i gruppi etnici e tribali e di provvedere allo sviluppo equilibrato di tutte le aree del paese”.[1]
Le donne afghane chiedono libertà, istruzione, educazione per le proprie figlie, in una società tristemente segnata da minacce e persecuzioni. Queste donne si sono ribellate per non esser private di diritti inviolabili e inalienabili, in una battaglia ancora aperta. Purtroppo spesso alla base vi è l’idea che i percorsi che portano all’emancipazione femminile non debbano necessariamente svilupparsi adottando il modello universalista dell’ideologia femminista occidentale, ma che possano invece realizzarsi attraverso l’accettazione e la reinterpretazione critica della propria tradizione culturale.
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Note
[1] Costituzione della Repubblica Islamica dell’Afghanistan” traduzione a cura dell’Unità Tecnica Locale di Kabul, organo de Ministero degli Affari Esteri Italiano.