Il 26 giugno ricorre la Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura per manifestare solidarietà alle migliaia di persone che, al giorno d’oggi, subiscono le più svariate torture nel mondo, le quali vengono attuate con metodi sempre più crudi e sofisticati. L’Africa registra ogni anno nuovi casi di tortura: Nigeria, Libia, Marocco, Congo, Somalia sono solo alcuni dei Paesi in cui questi abusi si verificano.
Nel 1997 – dopo più di dieci anni dalla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CAT)[1] – l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, attraverso la risoluzione 52/149, ha indicato il 26 giugno come data simbolo per fornire sostegno alle numerose vittime di tortura che ogni anno si registrano nel mondo. La tortura, intesa come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali[2]”, viene attuata con lo scopo di estorcere informazioni o confessioni alla vittima, punirla, intimorirla o discriminarla. Ad infliggere la tortura, secondo la definizione della Convenzione, deve essere “un agente della funzione pubblica o ogni altra persona che agisce a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”; ciononostante, è risaputo che a praticare la tortura non sono solo i funzionari pubblici o loro incaricati, ma anche cittadini comuni spinti dalle più svariate ragioni. Infatti, per riprendere un caso di tortura verificatosi in Nigeria, poco meno di due anni fa, in particolare nella città di Kaduna, più di 500 ragazzi, tra cui anche bambini, sono stati liberati dopo essere stati tenuti prigionieri nella cosiddetta “casa degli orrori” – una scuola islamica. Per mesi, se non anni, sono stati sistematicamente torturati dai loro insegnanti, proprio in quell’edificio. Le frustrate, l’incatenamento, la sottoposizione forzata a rapporti omosessuali, sono solo alcune delle pratiche utilizzate. Lo scopo? Recuperare o, addirittura, correggere questi ragazzi con alle spalle piccoli precedenti penali.[3] In Marocco, invece, nella città di Oulad Ayad, nel 2018 è toccato ad una diciassettenne: un gruppo di uomini l’ha rapita e torturata, obbligandola all’assunzione di droghe e alcool di modo da rendere la vittima inerme per sottoporla a numerose violenze sessuali. Quando la ragazza ha ripreso coscienza, si è ritrovata il corpo ricoperto di inchiostro indelebile: aveva tatuaggi che raffiguravano svastiche, donne nude e il nome di uno degli stupratori[4]. In questo caso, il triste scopo di tale tortura – sebbene non esplicitato dagli autori dell’atto – non potrebbe che essere puro divertimento. Sulla stessa linea di violenza, si colloca, poi, il Congo, il quale viene tristemente definito “capitale degli stupri[5]”. Nel 2016, è stato documentato che numerose donne e bambine venivano prelevate, dalle proprie abitazioni, nel cuore della notte, violentate nel bosco e abbandonate. Altre, invece, oltre a tali abusi sessuali, venivano sottoposte alla pratica dell’infibulazione: una vera e propria mutilazione del loro apparato genitale. Nella società congolese, gli uomini, siano essi funzionari pubblici o cittadini comuni, si considerano superiori e privilegiati rispetto alle donne; perciò, ritengono quest’azione deplorevole come un atto normale, giustificato e a loro dovuto. Ecco, questi sono solo alcuni dei casi che dimostrano come la tortura non venga inflitta solo da funzionari pubblici – come sottolineato dalla definizione della Convenzione contro la tortura – ma anche da comuni cittadini, siano essi spinti dalla volontà di punire, di divertirsi o da una mentalità tossica. Ciò non toglie che gli Stati restino comunque in prima linea nell’attuazione di questa pratica. Il caso libico lo dimostra a pieno. Ogni anno, migliaia di persone tentano di fuggire da Paesi come Mali, Burkina Faso, Senegal, Costa D’Avorio – con la speranza di costruire una vita migliore in Europa – ma vengono catturate, detenute e torturate dalle forze di sicurezza del Paese, all’interno di quelle strutture conosciute come centri di detenzione libici. Tra le varie testimonianze, spicca quella di Saberen, una donna eritrea: “una volta stavo cercando di difendere mio fratello dai colpi di manganello e hanno picchiato anche me, sfregiandomi il viso. Una delle pratiche utilizzate in questa prigione era quella delle manganellate sulla pianta del piede, punto particolarmente sensibile al dolore[6]”. Saberen è solo una tra le cinquemila e le settemila persone, secondo le stime di Medici senza frontiere, che risiede nei centri di de-umanizzazione libici. Ritornando, poi, in Nigeria, Amnesty International, nel 2014, ha stilato un rapporto che riporta diversi casi di violenza – estrazione delle unghie o dei denti, soffocamento, scariche elettriche e altro – attuate dai funzionari delle forze dell’ordine nigeriane (alcuni dei quali considerati veri e propri addetti alla tortura) per estorcere informazione ai detenuti o punirli per presunti crimini commessi.
«I soldati ci hanno portato tutti in un centro di detenzione a Potiskum […]. Hanno una grande buca [nel terreno], in un angolo di questo campo, dove mettono le persone per lunghe ore e anche per giorni… Hanno messo circa sette di noi in quella buca. […] C’erano delle bottiglie rotte all’interno e siamo stati messi nella buca solo con i pantaloni. Eravamo a piedi nudi. Ho passato più di tre giorni lì. Uno degli altri uomini nella buca aveva macchie di sangue su tutto il corpo. In seguito, ho saputo che era lì da tre giorni. Le sue mani erano ancora legate dietro la schiena, e la pelle si stava staccando. Dopo ho saputo che il cavo con cui l’avevano legato aveva dell’acido che aveva fatto decomporre la sua mano. Mentre eravamo nella buca, ci hanno versato acqua fredda e acqua calda su di noi e altre volte bruciavano il politene e lo facevano cadere sulla nostra schiena[7]». Questa è la testimonianza di Aliyu, agricoltore di 55 anni e uomo d’affari, prelevato dai soldati del suo villaggio e sottoposto a pratiche di tortura in quanto accusato di appartenere al movimento fondamentalista islamico, Boko Haram.Ovviamente, questi sono solo due casi emblematici delle numerose torture praticate dalle forze dell’ordine nei vari Paesi del continente: non basterebbe un trattato per racchiuderli tutti. Bisogna, però, sottolineare che oltre agli agenti statali e ai comuni cittadini, vi è anche un altro soggetto politico che spesso ricorre alla tortura: i gruppi terroristici. Nello stato della Somalia, una ragazza di 13 anni è stata lapidata pubblicamente dal gruppo militante Al-Shabaab in quanto colpevole di adulterio. Inizialmente, la giovane si era recata alla stazione di polizia dopo essere stata stuprata da alcuni uomini, poi, dopo aver denunciato l’accaduto, è stata arrestata, accusata e condannata a morte per aver subito, contro la sua volontà, rapporti sessuali da uomini diversi da suo marito. L’esecuzione si è verificata di fronte ad un pubblico di circa mille persone. Aisha Ibrahim Duhulow è stata messa in una buca e seppellita fino al collo ed è stata colpita infinite volte e da infinite pietre[8].Nonostante, quindi, la tortura sia una pratica proibita dal diritto internazionale cogente – e, in quanto appartenente a quest’ultimo, non giustificata in nessuna circostanza – essa è ancora troppo utilizzata nel mondo e, anzi, è lontana dallo scomparire.
Ma quando è nata questa pratica? Tale “strumento giudiziale non convenzionale” affonda le sue radici nel periodo dell’Inquisizione – anche se alcune tracce risalgono ai tempi dei regni degli Antichi Egizi – e, inizialmente prevedeva pratiche come il rogo, la cremagliera, la flagellazione… Poi, nel corso della storia, queste procedure hanno fatto spazio ad altre, forse da ritenersi meno cruente e più sofisticate nelle modalità. Non a caso, oggi, nella definizione di tortura fornita dalla Convenzione, rientra, oltre che la sofferenza fisica inflitta ad un individuo, anche quella mentale, mentre in passato quest’ultima non veniva affatto presa in considerazione: infatti, era da ritenersi tortura solo il dolore corporeo. È con l’arrivo del vecchio secolo, che si assiste ad un cambio di rotta: l’obiettivo non è più punire la vittima infliggendo dolore fisico, ma annientarla dal punto di vista psicologico, rendendola impotente. In particolare, con l’inizio della Guerra Fredda, molte persone iniziarono a subire torture psicologiche attraverso l’esposizione continua alla luce o al buio, la privazione del sonno e la sottoposizione a rumori assordanti e continui. Ciò si verificò in seguito alla diffusione del manuale nato negli Stati Uniti, il Kubark[9], ideato con l’intento di istruire gli agenti sulle modalità di conduzione di un interrogatorio, le quali prevedevano l’attuazione del modello delle tre D: dependency, debility, dread[10] (dipendenza, debilitazione, terrore). Tuttavia, l’evoluzione dei metodi di tortura continua ancora oggi… Infatti, alla domanda “quando la tortura cesserà di essere praticata?”, la risposta è mai. Ciò perché, con il passare degli anni, si è sviluppato un vero e proprio business nella produzione di strumenti di tortura. Oggi, infatti, esistono strumenti di tortura ad “alta tecnologia” i quali, addirittura, permettono di non lasciare alcuna traccia dopo che la vittima è stata maltrattata. I manganelli elettrici, ad esempio, entrano in funzione premendo un semplice pulsante, dopodiché rilasciano potenti scariche elettriche che causano dolori atroci, senza però lasciare tracce fisiche permanenti.
Il numero aziende che si occupa della produzione di questi dispositivi è in continua crescita[11], e, secondo uno studio combinato tra la Omega Research Foundation e Amnesty International[12], anche le aziende europee – e tra queste almeno cinque sono italiane[13] – sono coinvolte in questo processo. Allora, a cosa possono mai servire le innumerevoli petizioni che chiedono l’abolizione di questa pratica se in gioco ci sono gli interessi economici delle grandi aziende? Infine, dal momento in cui uno degli scopi principali che spinge le forze dell’ordine ad infliggere tortura, è ricavare informazioni o confessioni, c’è da chiedersi quanto possa essere affidabile quanto affermato dalla vittima in un momento di totale sofferenza, quando il suo corpo e la sua mente sono sotto il pieno controllo del carnefice. Insomma, oltre ad essere moralmente sbagliato torturare, è utile farlo? Su questo punto vengono in aiuto, innanzitutto, le testimonianze delle vittime, le quali affermano che sotto tortura, avrebbero confessato anche il nome della madre pur di stoppare la sofferenza a cui erano sottoposti, e, in secondo luogo, le opinioni di diversi analisti che ammettono di non credere nell’efficacia di tali metodi. Uno tra questi è l’ex segretario della Difesa statunitense, John Mattis. Infatti, egli, durante un meeting con Donald Trump, ha affermato che, secondo il suo parere, avrebbe ottenuto risultati migliori nella confessione con un pacco di sigarette e un paio di birre[14] offerte all’indagato, piuttosto che se avesse utilizzato il purtroppo famoso metodo del waterboarding: quella pratica per la quale “ti mettono su una tavola, in posizione supina, ti legano, non puoi muoverti. Iniziano a versarti acqua in faccia. Ti finisce nel naso, non respiri più. In quel brevissimo istante, ti rendi conto che l’unica cosa che conta davvero nella vita è l’ossigeno. Puoi fare a meno di un mucchio di cose, ma se non respiri, morirai.”[15]È appurata, dunque, l’inefficacia degli scopi che tale crimine si prefigge di conseguire. Eppure, gli strumenti di tortura continuano a circolare sul mercato, le vittime continuano a crescere, e i responsabili restano impuniti. Infatti, gli unici a pagarne le conseguenze sono i sopravvissuti, i quali si ritrovano a fare i conti con gli irreversibili e devastanti effetti che la tortura ha apportato ai loro corpi, e in più larga misura, alle loro anime.
Note
[1]Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, New York, 10 dicembre 1984, https://www.unhcr.org/it/wp content/uploads/sites/97/2020/07/Convenzione_contro_la_Tortura.pdf
[2]Art. 1 della Convenzione contro la tortura ed altre pene crudeli, inumani o degradanti (CAT)
[3] “Nigerian ‘torture house’: Hundreds freed in Kaduna police raid, BBC, 27 settembre 2019 https://www.bbc.com/news/world-africa-49850408
[4] Magra Iliana, Teenager’s Account of Gang Rape and Torture Rattles Morocco, New York Times, 6 settembre 2018 https://www.nytimes.com/2018/09/06/world/africa/morocco-teenager-gang-rape.html
[5]C. Grasso, L. Zanasi, R. Zanoli, Essere donne in Africa, stupri e violenze sessuali, Medici Senza Frontiere, 24 marzo 2019 https://scuole.medicisenzafrontiere.it/2019/03/24/essere-donna-in-africa-stupri-e-violenze-sessuali-di-c-grasso-l-zanasi-r-zanoli/
[6] Camilli Annalisa, Cronache dai centri di detenzione libici, L’Internazionale, giugno 2018 www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/06/28/libia-centri-di-detenzione-msf
[7]Nigeria, Welcome to the hell fire: torture and other ill-treatment in Nigeria, settembre 2018https://www.amnesty.org/en/documents/AFR44/011/2014/en/ (tradotto in italiano)
[8]https://www.independent.co.uk/news/world/africa/don-t-kill-me-she-screamed-then-they-stoned-her-to-death-1003462.html
[9] Kubark counterintelligence interrogation, luglio 1963 https://nsarchive2.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB122/CIA%20Kubark%201-60.pdf
[10]Ergun Kakal, Debility, dependency and dread: On the conceptual and evidentiary dimensions of psychological torture, 2018
[11]https://www.amnesty.it/universalmente-proibita-universalmente-praticata-la-tortura-nel-mondo/ [12]https://omegaresearchfoundation.org/sites/default/files/uploads/Publications/Ending%20the%20Torture%20Trade%20-%20The%20Path%20to%20Global%20Controls%20on%20the%20%27Tools%20of%20Torture%27.pdf [13]https://www.repubblica.it/cronaca/2010/03/17/news/torture_aziende_italiane_nel_business-2715769/
[14] https://www.businessinsider.com/james-mattis-trump-torture-2016-11?r=US&IR=T https://www.agi.it/estero/tortura_amnesty-1425523/news/2017-01-28/
[15] www.huffingtonpost.it/ 2018/05/11/ecco-cos-e-il-waterboarding-secondo-chi-l-ha-provato-sulla-sua-pelle_a_23432309/
Foto copertina: Tortura in Africa