I movimenti separatisti in Ucraina: cronistoria di ingerenza diplomatica e azione bellica


Donetsk e Lugansk: queste le due Repubbliche Popolari filorusse che minacciano la stabilità ai confini orientali dell’Unione Europea. Esse reclamano piena indipendenza dal territorio amministrativo e politico ucraino a seguito della crisi governativa apertasi a fine 2013. Gli scontri armati sono tutt’ora un grande dilemma, fonte anche di ambiguità diplomatiche che coinvolgono non solo il continente europeo.


 

Lo scoppio della crisi: tra ingerenza…

L’accordo di Associazione tra UE e Ucraina avrebbe dovuto siglarsi il 28 novembre 2013 a fronte della promessa di ingenti prestiti devoluti a Kiev da parte di Bruxelles e del FMI, condizionati a pressioni fiscali, all’aumento dei prezzi al consumo di energia elettrica, ai tagli alla spesa pubblica in materia di educazione e sistema pensionistico nonché concessioni di vendita all’estero delle proprietà agricole ucraine.
Tali condizionalità furono alla base del rigetto del Presidente Viktor Janukovyč di far parte di un accordo che lo avrebbe allontanato dall’Unione Doganale con la Russia: svariati furono gli incontri tra l’establishment del Cremlino e Kiev volti a delucidare Janukovyč sulla sconvenienza del progetto europeo. L’annuncio del ritiro dalle negoziazioni dell’accordo con Bruxelles produsse proteste e rivolte di numerose frange sociali filoccidentali, che credevano nel mito del progresso europeo per cambiare un lungo destino di corruzione e immobilismo dell’apparato politico-economico del paese, sostenuti dall’opposizione politica.
La situazione degenerò nel febbraio 2014: gli scontri si fecero sempre più violenti, la tensione crebbe grazie anche all’azione di alcuni cecchini che sparsero sangue fra la folla che occupava le piazze di Kiev e la polizia[1].
Vani si dimostrarono i rimpasti governativi e Janukovyč intraprese contrattazioni con i leader di opposizione. La tensione sociale era altissima e gli esponenti dei movimenti di estrema destra richiedevano a gran voce la destituzione del Presidente, condannando la trattativa appena raggiunta. Putin richiese l’impegno di Barack Obama nel fare pressioni sui leader dell’opposizione affinché rispettassero l’accordo ma bastò l’allontanamento di Janukovyč da Kiev ad alimentare atti di criminalità[2] dando modo ai leader di opposizione di indire una votazione nella Verchovna Rada[3] a riguardo della destituzione del Presidente: l’esito fu positivo ma incostituzionale.[4] Le opposizioni, dunque, hanno fermato quel processo di risoluzione politica della crisi che sarebbe passato dalla costituzione ucraina, prediligendo una destituzione illegittima del Presidente in virtù delle istanze sociali più estremiste, con la connivenza europea.
Agli occhi del popolo e della classe politica russi, si è trattato di un pieno regime change collaudato tramite sostegni paramilitari e sostegno incondizionato dell’Unione Europea nonché degli Stati Uniti alle violente proteste contro un Presidente democraticamente eletto. Alcune conversazioni tenutesi fra i delegati americani e l’Ambasciatore statunitense in Ucraina dimostrano come l’ingerenza del Dipartimento di Stato faceva un passo avanti rispetto all’UE: Arsenij Jacenjuk, ex ministro dell’Economia e degli Esteri supportato dagli USA, favorevole all’ingresso del paese nella NATO fu eletto Primo Ministro del nuovo governo, ai danni delle preferenze di Bruxelles.
L’espressione “Fuck the EU”[5] pronunciata a due settimane dalla destituzione di Janukovyč da Victoria Nuland, (referente del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per gli Affari Europei ed Eurasiatici) all’Ambasciatore Geoffrey Pyatt inquadra bene il clima di competizione tra Stati Uniti e Unione Europea nel mercato politico ucraino. Allo stesso tempo, Mosca è sotto accusa occidentale per aver costruito e fomentato deliberatamente ai danni di Kiev la rivolta nel Donbass.

Anti-Majdan

Alla fine di febbraio 2014, nelle regioni sudorientali dell’Ucraina gran parte della popolazione si riversava nelle piazze per manifestare avversione verso il processo per cui una minoranza nazionalista, fomentata pubblicamente da istituzioni e organizzazioni occidentali. Esse presero il nome di “Anti-Majdan”, e furono caratterizzate di tanto in tanto dagli inneggi al Cremlino contro l’eventuale “rappresaglia” governativa. È questo il contesto in cui maturò la presa della Crimea, penisola situata sul Mar Nero in cui la stragrande maggioranza della popolazione è russa. La Crimea fu donata da Chruščëv alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nel 1954 ma sin dal momento dell’indipendenza ucraina la differenziazione in termini di cultura politica dall’establishment ucraino pose i primi dubbi sulla resilienza alla fragile coesistenza fra l’autonomia regionale, il centralismo di una nuova autorità e una profonda crisi sociopolitica. Oltre ai milioni di russi crimeani, da proteggere era la Flotta del Mar Nero, stanziata nel porto di Sebastopoli sin dal XIII secolo, grande snodo commerciale e militare di Mosca.
A fine febbraio 2014, le truppe di stanza nella regione occuparono il parlamento regionale e gli aeroporti di Simferopoli e Sebastopoli; ai militari ucraini fu concesso di scegliere tra i due schieramenti. Il 2 marzo truppe russe “marciarono” in Crimea convincendo il parlamento verso la secessione e ad indire il referendum, che si tenne il 16 marzo successivo e vide favorevoli all’annessione il 95% dei votanti recatisi alle urne (84%).
Anche il Donbass, la parte più orientale dell’Ucraina nonché la più produttiva e ricca di miniere e industrie, si sollevò in occasione di manifestazioni organizzate al fine di organizzare dei referendum indipendentisti. Nel Doneck circa 2000 manifestanti assalirono la sede dell’Amministrazione statale Regionale (RSA) e al fallito tentativo di vedersi riconosciute le richieste di implementazione di un referendum di Stato, a seguito di una riunione del 7 aprile proclamarono la Repubblica popolare di Doneck. Similmente, a Lugansk circa 1000 manifestanti si riunirono all’esterno dell’edificio del Servizio di Sicurezza ucraino (SBU) in un’assemblea popolare in cui si discussero la federalizzazione e l’incorporazione alla Federazione Russa. Entrambe le nuove assemblee sancirono degli ultimatum a Kiev fondati sul rilascio dei detenuti delle manifestazioni e sull’indizione di un referendum nazionale; pena: la presa delle infrastrutture strategiche della regione.
Il Presidente ad interim Oleksandr Turčyno, annunciò ufficialmente l’inizio dell’“Operazione Antiterrorismo” e cominciò la vera e propria guerra tra le forze dell’Esercito regolare ucraino e i ribelli filorussi, in gran parte civili con armi in braccia a difesa della propria terra. Il neopresidente inquadrò le milizie paramilitari nazionaliste già coinvolta negli scontri di Evromajdan, all’interno della Guardia Nazionale inviandole verso le regioni orientali per sedare le proteste.
Tra i vari gruppi che fanno parte della Guardia Nazionale spicca il Battaglione Azov, un’organizzazione militare posizionata ideologicamente a destra, che arruola volontari provenienti da formazioni neonaziste di tutta Europa sotto la supervisione del Ministero dell’Interno. Se a Lugansk l’operazione antiterrorismo rese evidente uno stallo, le forze di polizia di Doneck si allearono, il 12 aprile, ai manifestanti aiutandoli ad issare la nuova bandiera sul palazzo amministrativo e sugli uffici delle reti televisive nonché ad estendersi in numerose città del Donbass.
Nelle settimane seguenti in molte aree i ribelli separatisti affiliati principalmente alle due repubbliche proclamate contendevano con le forze nazionali regolari o speciali il controllo delle città non senza decessi. Un evento particolarmente sanguinario si verificò a Odessa[6], dove la “Casa dei Sindacati”, in cui si erano riuniti dei manifestanti fil-russi, fu arsa da nazionalisti ucraini e ultras calcistici con l’appoggio inerme delle forze di polizia, causando la morte di circa 48 civili.

I referendum di Doneck e di Lugansk

L’11 ed il 12 maggio nell’ ‟Oblast‟ di Doneck e di Lugansk, si tennero i due referendum che proiettarono la proclamazione delle due repubbliche popolari indipendenti: la Repubblica Popolare di Doneck (DNR) e la Repubblica Popolare di Lugansk (LNR)[7]. Kiev era intenzionata a tutti i costi a riconquistare le regioni ma l’Esercito era ormai alle prese con milizie variegate ed irremovibili che presto avrebbero costituito l’Esercito ufficiale della DNR e della LNR. Nel corso dell’estate, infatti, il governo ucraino era riuscito a riportare sotto il suo controllo circa un terzo delle aree ribelli ma a metà di agosto una clamorosa contro-offensiva aveva riportato dubbi in seno alle forze politiche filoccidentali circa la fine del conflitto. Lo scontro ha proiettato anche una serie di ambiguità tra cui quelle relative all’utilizzo di armi al fosforo, bandite dall’ONU, nonché, più in generale, il dispiegamento di razzi in zone popolate che costituirebbe una violazione del diritto internazionale e di quello bellico, e dunque un crimine di cui si accusano l’esercito ucraino e quello ribelle. Inoltre, il coinvolgimento diretto delle forze russe, attraverso convogli umanitari e bombardamenti (ciò che i governatori delle neonate repubbliche hanno richiesto), così come attestato da esponenti politici e militari ucraini e dai vertici della NATO[8] e negato dal Cremlino, resta una questione irrisolta ma indice di un parallelismo nocivo per le sorti del paese. Secondo l’UNHCR i morti civili superano sicuramente i 1100 dall’inizio del conflitto, gli sfollati del Donbass ammontano a circa 260 000 mentre i rifugiati in Russia sono più di 800 000.

…e diplomazia di guerra

Il 5 settembre 2014, il gruppo di contatto trilaterale rappresentato da Russia e Ucraina sotto l’egida dell’OSCE, firmò con i leader di DNR e LNR, il Protocollo di Minsk, volto a concludere una tregua prevedendo, tra l’altro, il cessate il fuoco immediato, uno scambio totale dei prigionieri, il ritiro di armi pesanti, l’istituzione di zone di sicurezza e monitoraggio e l’impegno da parte del nuovo Presidente Petro Porošenko nel garantire elezioni locali e maggiori poteri alle amministrazioni di Doneck e Lugansk, coinvolte in un aspro conflitto sempre più polarizzato ideologicamente a seguito di attacchi strategici su target militari che hanno accresciuto risentimento ed ostilità in ambedue le fazioni. L’accordo fu violato sin dal giorno seguente alla stipula e nella misura in cui previde anche un memorandum supplementare e misure di confronto politico e l’adozione di uno statuto speciale per la DNR e la LNR, ha subito dei contraccolpi implementativi legati soprattutto alla modifica unilaterale della legge sullo status speciale da parte del Parlamento ucraino e alla mutua accusa di violazione.
Il rimprovero alla Russia di non rispettare gli accordi di Minsk aveva già legittimato il rinnovo semestrale delle sanzioni di Bruxelles, legate al rispetto dell’accordo.
Tuttavia, il contrasto russo-ucraino è aperto sulla responsabilità causale delle violazioni. Infatti, per chi si concentra sulle misure politiche riportate nell’accordo (elezioni locali e garanzie di amnistia per i combattenti pro-russi) l’inazione è a carico del Governo ucraino mentre a livello securitario quest’ultimo accusa il Cremlino per la violazione del cessate il fuoco e del ritiro di miliziani stranieri. Un ulteriore contrasto sussiste nella narrazione dell’intervento bellico russo: se le decisioni del Cremlino hanno coadiuvato la resistenza delle repubbliche indipendentiste attraverso finanziamenti e invio di armamenti ai gruppi separatisti, non è assicurata un’effettiva invasione territoriale. Certo, invece, è l’impegno volontario di moltissimi cittadini russi nel partire a sostegno dei separatisti del Donbass e, al contempo, il dispiegamento di attacchi informatici nella rete di approvvigionamento energetico ucraina.
I leader di Russia, Ucraina, Germania, Francia, e delle due repubbliche separatiste naufragarono verso le varie interlocuzioni per il cosiddetto Minsk II, ma pochi sono stati i risultati raggiunti in termini di pacificazione. Dopo questo secondo accordo, l’unico timido passo avanti è stato siglato a Parigi nel corso del vertice del Quartetto Normandia e riguarda lo scambio di prigionieri e l’indizione di elezioni libere in Donbass. Il nuovo presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nonostante abbia incentrato la sua campagna elettorale sulla promessa di fine della piaga bellica, mostra grandi difficoltà nel raggiungere un compromesso con Mosca, imperterrita nella rivendicazione di elezioni in Donetsk e Lugansk, nel rifiuto di procedere al ritiro delle truppe finanziate dal Cremlino e ritrattare le condizioni di amnistia dei ribelli nel rispetto dell’accordo. Così la Russia condanna la mancata applicazione della “Formula Steinmeier”[9] riguardo alle elezioni e ad uno status differenziato del Donbass: se infatti già da Porošenko, era riuscito a far approvare la legge sullo status speciale per il Donbass[10] nonostante la sua rigidità al dialogo, Zelensky ha dichiarato che tale concessione avverrebbe solamente a seguito della revoca del supporto russo, del disarmo dei separatisti e dalla ripresa del controllo della frontiera.
Una posizione reiterata implicitamente attraverso disposizioni belliche miranti a occupare interamente le regioni di separatiste con l’obiettivo ultimo di garantire le “ambite” elezioni locali previste per il 31 marzo 2021 nonché tramite progetti di legge da lui incaricati di provvedere a fornire alle unità di difesa territoriale tutti i mezzi necessari a combattere il separatismo.
Una apertura condizionata al cedimento di Mosca[11], dunque, è alla base delle negoziazioni circa il processo di de-escalation, ma lo stallo diplomatico non può non essere compreso se non indagando le reali intenzioni e le mosse di Kiev. In tale ottica anche le consultazioni dell’ultimo incontro del contatto trilaterale dello scorso dicembre non hanno portato ad alcun progresso, come dichiara l’ambasciatore Y.H. Cevik, capo della Missione speciale di Monitoraggio dell’OSCE, in concomitanza all’escalation unilaterale lungo le linee di contatto, in violazione degli accordi, giustificata come reazione a presunte offensive illegittime degli eserciti delle repubbliche indipendentiste. Nel mentre, la pandemia non frena le brutalità nelle periferie di Lugansk, le operazioni dei cecchini nel Donetsk, il dispiegamento di blindati, lo sfollamento dei cittadini e la distruzione di interi villaggi sotto i bombardamenti.
Anche l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca pone un ulteriore dilemma alla questione ucraina.
I suoi interessi finanziari nel paese, costruiti nel tempo grazie all’appoggio di soci oligarchi, sono ormai noti grazie agli scandali che hanno coinvolto Hunter Biden, figlio del Presidente, in indagini per fenomeni di corruzione legati alle attività della società del gas Burisma Holding di cui era membro nel CDA, con la connivenza dell’apparato politico-amministrativo di Kiev[12], di fatto, un avamposto degli interessi occidentali.


Note

[1] È ormai noto il coinvolgimento dei capi europei e dei partiti di opposizione nel finanziamento dei cecchini  coinvolti nelle sparatorie. Si veda: G. MICALESSIN, “Quelle verità nascoste sui cecchini di Maidan”, Gli Occhi della Guerra, 2017, http://www.occhidellaguerra.it/ucraina-le-verita-nascoste-parlano-cecchini-maidan/.
[2] Tra i vari, in queste ore fu assassinato il procuratore generale e la residenza di Janukovyc fu sequestrata.
[3] Parlamento unicamerale ucraino
[4] L’articolo 111 della Costituzione afferma infatti che il Presidente può essere sollevato dal suo incarico tramite la procedura di impeachment solo in caso di tradimento o di altri crimini da lui commessi. Stabilisce anche che la richiesta di impeachment dev’essere approvata dalla maggioranza costituzionale; al fine di indagare contro il Presidente la Rada deve creare una commissione speciale d’inchiesta e che i risultati dell’indagine devono essere esaminati dalla Rada in plenaria; se ci sono prove concrete a favore della colpevolezza del Presidente, i due terzi della maggioranza costituzionale della Rada possono votare l’impeachment; la decisone di destituire il Presidente deve essere presa dai tre quarti dei membri della Verchovna Rada. Tale procedura di impeachment non fu rispettata in quanto la rimozione di Janukovyč avvenne senza alcuna indagine preliminare e fu decisa dai 328 membri presenti allora in Parlamento su 450 membri totali non attendendo la maggioranza di tre quarti così come previsto dalla Costituzione. Qui l’Art. 111 della Costituzione dell’Ucraina: http://www.president.gov.ua/ua/documents/constitution/konstituciya-ukrayini-rozdil-v
[5] La conversazione è stata immediatamente divulgata su Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=WV9J6sxCs5k
[6] Ad Odessa si ricorda la strage neonazista. Il Manifesto, 3/5/2015
[7] . I rappresentanti separatisti istituirono anche il Partito “Nuova Russia” che nel contesto bellico ha visto infranto il suo obiettivo di costituire uno Stato Federale di religione ortodossa russa e fondato sulla nazionalizzazione delle industrie principali.
[8] Russia Moves Artillery Units Into Ukraine, NATO Says, su nytimes.com. URL consultato il 21 marzo 2021 (archiviato)
[9] La formula suggerita dal Presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier nel 2015. La formula non è né una tabella di marcia per la realizzazione degli Accordi di Minsk, né un piano di distensione, secondo l’ex Ministro degli esteri dell’Ucraina Pavlo Klimkin. Riguarda solamente un paragrafo degli Accordi di Minsk – quello sul cosiddetto “status speciale” o un sistema particolare dell’autogoverno locale nei territori occupati. La formula risponde alla domanda sul quando i territori occupati ucraini sarebbero potuti tornare sotto il controllo del governo dopo aver ricevuto lo “status speciale” e a quali condizioni.Оригінал статті – на сайті Українського кризового медіа-центру: https://uacrisis.org/it/73511-la-formula-di-steinmeier-e-discussioni-accese
[10] Qui il testo : https://zakon.rada.gov.ua/laws/show/1680-18?fbclid=IwAR1JSduiegvYoOxmsxyoNO7yJ7A1Ffl8sv9Nu4TuFjmHKI6rxsD39lPOY3g#Text
[11] https://www.euronews.com/2019/09/19/what-is-the-steinmeier-formula-and-will-it-lead-to-peace-in-eastern-ukraine
[12] L’ex procuratore generale ucraino Viktor Sokin aveva indagato l’infiltrazione di Biden nei meccanismi di capitalizzazione di reti di approvvigionamento di gas russo ed ha dichiarato che la sua improvvisa rimozione, nel 2016, fosse collaudata dalla minaccia a parte del neopresidente statunitense a Porošenko della revoca di un miliardo di dollari di sussidi. Nel dettaglio, sui rapporti tra Ucraina e i due partiti statunitensi: https://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/09/30/il-donbass-rimane-sullo-sfondo-della-lite-tra-trump-biden-0119146


Foto copertina: Immagine web

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