Il cambiamento climatico può portare ad importanti conseguenze legate ai diritti umani delle persone. Il caso del kiribatiano Ioane Teitiota rappresenta tutte le difficoltà del caso nel riconoscimento dello status di rifugiato ambientale. Nell’articolo seguente vengono delineate le difficoltà e le conseguenze legate al caso.
Il contesto
Internally displaced people (Idp), è così che viene denominato il fenomeno dello sfollamento interno, associato principalmente ai cambiamenti climatici e ai disastri ambientali. Gli effetti del cambiamento climatico sono molteplici: dall’alluvione (più facilmente circoscrivibile) all’innalzamento del livello del mare e delle temperature, oppure l’inquinamento delle acque e del suolo.[1]
Secondo alcuni dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, entro il 2050 circa 200-250 milioni di persone si sposteranno dal loro luogo di nascita per cause legate al cambiamento climatico. Ciò significa che in un futuro, non troppo lontano, una persona su quarantacinque nel mondo sarà un migrante climatico.[2]
A livello giuridico, non è così semplice stabilire chi siano questi nuovi rifugiati ambientali. Secondo l’esperto in materia Luca Saltalamacchia, “i rifugiati ambientali e climatici non sono riconosciuti a livello internazionale da un trattato o un accordo formale […]. La Convenzione di Ginevra sui rifugiati elenca una serie di situazioni che determinano lo status di rifugiato che però non sono riconducibili a condizioni ambientali”.[3] Per molti esperti in materia giuridica, la Convenzione di Ginevra del 1951 e i Guiding Principles per gli Idp del 1998 non rappresentano nel concreto scenari realmente possibili. In ogni caso, esistono però dei riferimenti e dei casi nella normativa internazionale.
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Il caso di Ioane Teitiota
Il caso più importante per quanto riguarda la sfera dei rifugiati a causa del cambiamento climatico riguarda il kiribatiano Ioane Teitiota. Nel 2015, Ioane chiese protezione alla Nuova Zelanda sostenendo che la sua vita e quella della sua famiglia erano a rischio a causa dei seri effetti del cambiamento climatico, come l’innalzamento del livello del mare. A inizio 2020, la Commissione Onu per i Diritti Umani rifiutò la sua richiesta affermando che “potrebbero esserci interventi da parte della Repubblica di Kiribati, con l’assistenza della comunità internazionale, per adottare misure di protezione e ricollocazione della sua popolazione”.[4] Quindi, la vita di Ioane e della sua famiglia non fu riconosciuta in pericolo e il ricorso fu rigettato.
Le conseguenze
Nonostante l’esito negativo del caso Teitiota vs Nuova Zelanda, alcune considerazioni del Comitato Onu hanno aperto nuovi orizzonti di tutela per i migranti climatici e ambientali. Questo portò il Comitato a stabilire che tutti coloro che fuggono dagli effetti dei cambiamenti climatici e dei disastri ambientali non possono essere rimpatriati qualora il paese d’origine presenti situazioni incompatibili con la tutela dei diritti fondamentali. Importante risultato è che si è registrato per lo meno un ampliamento del principio di non respingimento: gli stati hanno il divieto di rimpatriare i richiedenti asilo non solo per le circostanze elencate nell’articolo 33 della Convenzione sui Rifugiati, ma per qualsiasi altra situazione del paese di origine che possa determinare una violazione dei diritti fondamentali, come per esempio il cambiamento climatico.[5]
Note
[1] Bompan, E. “Rifugiati climatici e ambientali, arriva il riconoscimento giuridico in Italia”, Oltremare, Aprile 2021. https://www.aics.gov.it/oltremare/articoli/pianeta/rifugiati-climatici-e-ambientali-arriva-il-riconoscimento-giuridico-in-italia/
[2] Ibid. Vedi anche Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. https://www.unhcr.org
[3] Ibid
[4] Ibid
[5] Licata, A. & Massanisso, A. “Profughi ambientali: dall’esempio del caso Teitiota al consenso internazionale”, Osservatorio Diritti, 5 maggio 2022. https://www.osservatoriodiritti.it/2022/05/05/profughi-ambientali/
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