Il caso Cospito: tra politica e diritto


Una analisi storico-giuridica del 41bis alla luce delle vicende di Alfredo Cospito anarchico della FAI


A cura di Francesca Boscariol

Nelle ultime settimane l’attenzione mediatica è stata catalizzata dalla vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico rinchiuso al regime di carcere duro del 41bis ord. pen. che da più di tre mesi ha intrapreso uno sciopero della fame per manifestare il suo dissenso alla scelta del Ministro della Giustizia Marta Cartabia di sottoporlo alla misura carceraria tipicamente prevista per i boss mafiosi.
Pur non trattandosi di una notizia di primo pelo, la vicenda di Cospito ha riportato al centro del dibattito pubblico la legittimità del regime di carcere duro perlopiù quando applicato ad un detenuto condannato per una strage che non ha causato alcun morto o ferito, nell’ambito di una discussione che trova il suo vulnus nel principio di proporzionalità della pena e nella costituzionalità dell’ergastolo ostativo con cui, laddove applicato, perderebbe ogni possibilità di accedere ai benefici penitenziari.

Chi è Alfredo Cospito, il primo anarchico al 41bis

Nato a Pescara nel 1967, ma residente nel quartiere San Salvario di Torino, Alfredo Cospito è ritenuto uno degli elementi di spicco del mondo anarchico torinese.
Redattore del foglio anarchico rivoluzionario Kn03 con la compagna Anna Beniamino – detenuta nel carcere romano di Rebibbia – ha creato un gruppo che proprio da quella pubblicazione prendeva il nome. È considerato dagli investigatori uno dei leader della Fai, la Federazione anarchica informale, movimento composto da vari gruppi dediti all’intimidazione armata rivoluzionaria e ritenuto un’associazione per delinquere con finalità di terrorismo.
Condannato a 10 anni e 8 mesi di reclusione per la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, mentre era in carcere è stato accusato dell’attentato del 2006 contro la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, quando due ordigni erano stati piazzati all’interno di due cassonetti all’ingresso dello stabile senza però causare né morti né feriti.
Per quell’atto Cospito è stato condannato dalla Corte D’appello piemontese a 20 anni di reclusione con l’accusa di “strage contro la pubblica incolumità”, successivamente riqualificata dalla Cassazione nel più grave reato di “strage contro la sicurezza dello stato” di cui all’art. 285 c.p. secondo cui è prevista la pena dell’ergastolo per chiunque commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato.
Ed è proprio in seguito a queste vicende che Cospito risulta essere il primo anarchico detenuto al regime del 41bis ord. pen., in quanto considerato dai magistrati e dal Ministro della Giustizia che ne ha disposto l’applicazione nei suoi confronti quale caposaldo e vertice della Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale (Fai-Fri), equiparandola ad una organizzazione con struttura verticale e gerarchica al pari della criminalità organizzata di stampo mafioso.

Art. 41bis ed ergastolo ostativo

Per meglio comprendere la complessità della questione appare opportuno fare un passo indietro e ricostruire la storia del 41bis ord. pen. al fine di capirne la ratio nonché l’importanza che questo ha rivestito nella lotta alla criminalità di stampo mafioso. Infatti, fino all’inizio degli anni ’80, anziché un luogo di detenzione quello carcerario risultava per i mafiosi un posto in cui poter meglio consolidare le loro alleanze strategiche, sottolineare il proprio potere e arruolare nuovi uomini d’onore.
Erano dinamiche ben note al giudice Falcone, che ne era riuscito a cogliere l’importanza grazie alla collaborazione del primo grande pentito di mafia: Tommaso Buscetta.
Dall’interno del carcere dell’Ucciardone di Palermo, infatti, i mafiosi emettevano sentenze di morte fuori e dentro l’istituto di pena, festeggiavano con caviale e champagne “avvenimenti” di rilievo, ricevevano visite fuori orario, anche di latitanti, e quasi sempre erano ospiti dell’infermeria. Il vecchio carcere borbonico si presentava all’esterno come un carcere modello, quasi del tutto estraneo alle rivolte dei detenuti poiché assoggettato al totale controllo dei mafiosi e proprio da questi considerato una specie di “Grand Hotel”, addirittura un “luogo di villeggiatura”, sul quale la procura della Repubblica aprì anche un’inchiesta per verificare la veridicità delle dichiarazioni dei pentiti Mutolo, Mannoia e Don Masino.
Proprio per far fronte al problema, una prima e più approssimativa introduzione del 41bis risale al 1986 quando la l. 663/86, meglio nota come legge Gozzini, prevedeva in via eccezionale e transitoria la possibilità per il Ministro della Giustizia di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione doveva essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e avere una durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.
Trattavasi dunque di una previsione normativa volta a prevenire situazioni di pericolo e di rivolta all’interno delle carceri, posta a completamento di quell’articolo che prevedeva un “sistema di sorveglianza particolare” applicabile a tutti i detenuti ritenuti pericolosi a causa dei loro comportamenti all’interno degli istituti di pena. Era il 1992 quando la tv del carcere dell’Ucciardone di Palermo dava la notizia della morte di Giovanni Falcone e molti mafiosi esplodevano in una esultanza.
Si trattava dell’ennesima strage che in quegli anni colpiva la Sicilia e coloro i quali avevano fatto della lotta alla mafia l’obiettivo della loro esistenza.
La strategia stragista di Cosa Nostra, che raggiunse il suo apice proprio con l’omicidio dei giudici Falcone e Borsellino, fu la spinta che portò all’ampliamento della normativa sul carcere duro.
Con la firma del Decreto Martelli-Scotti, convertito nella legge 356/1992, si consentiva dunque al Ministro della Giustizia di sospendere le garanzie e gli istituti dell’ordinamento penitenziario, per applicare “le restrizioni necessarie” nei confronti dei detenuti condannati, indagati o imputati per i delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso, nonché i delitti commessi per mezzo dell’associazione o per avvantaggiarla. L’obiettivo principale della novella legislativa era quello di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le organizzazioni sul territorio, al fine di recidere qualsiasi tipo di contatto tra i detenuti e gli affiliati in libertà.
Tra le limitazioni applicabili ai detenuti in regime di 41 bis figurano l’isolamento, l’ora d’aria limitata rispetto ai detenuti comuni e comunque anch’essa in regime di isolamento, la sorveglianza costante, il visto di censura della posta in uscita e in entrata, la limitazione dei colloqui con i familiari e dei beni e degli oggetti che possono essere tenuti o ricevuti dall’esterno.
Il provvedimento che dispone il carcere duro ha durata pari a quattro anni ma è prorogabile per periodi successivi di due anni ciascuno qualora risulti ancora plausibile la capacità del detenuto di mantenere collegamenti con l’organizzazione criminale.
Previsioni specifiche riguardano poi i reati per cui è consentita l’applicabilità della norma in questione.
Ben diverso è poi l’istituto giuridico dell’ergastolo giuridico, spesso confuso con il primo e disciplinato dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, che impedisce alle persone condannate per alcuni reati alla pena dell’ergastolo di accedere alla libertà condizionale e ai benefici penitenziari, tra cui permessi premio, lavoro all’esterno e semilibertà. Tra i reati che «ostano» all’accesso a questi benefici (da qui l’espressione “ergastolo ostativo”) figurano l’associazione di stampo mafioso, il terrorismo e l’associazione finalizzata al traffico di droga.

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Problemi costituzionali

Alcuni problemi hanno riguardato poi la legittimità costituzionale delle due normative, ritenute in contrasto con alcuni fondamentali principi sanciti dalla nostra Carta Costituzionale in quanto eccessivamente restrittive della libertà personale del detenuto e, proprio per questo, in contraddizione con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e finalità rieducativa della pena.
Quello che in questa sede preme sottolineare è il difficile equilibrio tra le due esigenze fondamentali perseguite dall’ordinamento, legate da un lato alla difesa dello Stato e dall’altro alla tutela della dignità umana anche laddove si tratti di detenuti.
Quanto alla prima, si fa riferimento alla necessità dello Stato di difendersi dalle organizzazioni criminali (che siano mafiose, terroristiche o eversive) che ne minacciano l’esistenza stessa, ricorrendo a misure in grado di interrompere ogni ponte di comunicazione tra i vertici dell’organizzazione in stato di detenzione e il mondo esterno.
Altra questione riguarda poi il contributo che il 41bis ha dato all’aumento del fenomeno del pentitismo in quanto, pur essendo difficile stabilire quanto questo abbia pesato, rimane un dato di fatto che dopo la sua introduzione dagli anni ‘90 ad oggi il numero dei collaboratori di giustizia è vertiginosamente aumentato.
Quello che è certo è che comunque un regime carcerario di portata così invalidante come quello del 41bis deve trovare il suo contrappeso nel fondamentale principio costituzionale di cui all’art. 2 Cost.
Negli anni si sono pronunciate due Corti sulla normativa, seppure nessuna ne ha mai sancito espressamente l’incostituzionalità.
Nel 2017 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la scelta di rinnovare il regime di carcere duro al boss mafioso Bernardo Provenzano prorogandolo, nonostante le sue precarie condizioni di salute, fino alla sua morte avvenuta nel 2016, in palese violazione dell’art. 3 CEDU poiché trattamento inumano e degradante.
Anche la Corte costituzionale è spesso intervenuta sulla materia in esame e, di recente, ha apportato modifiche che paiono affievolire la natura – afflittiva e dibattuta – dell’istituto, censurando peraltro l’assenza di attività rieducative per i detenuti sottoposti al regime del 41bis.
Quanto agli operatori del diritto, autori e magistrati che ne difendono la legittimità ritengono che non ci siano violazioni dello stato di diritto in quanto non solo lo stato offre la possibilità al condannato di uscire dal regime di carcere duro iniziando a collaborare con la giustizia, ma anche perché ogni applicazione dell’istituto è sottoposta all’esame di un giudice che la dispone per un massimo di quattro anni prorogabile di volta in volta di due anni.
Al contrario, altri sottolineano la temporaneità del provvedimento che era stato in origine adottato sull’onda delle indignazioni post stragi e ritengono inconcepibile non solo la scelta di estorcere la collaborazione di giustizia ma anche quella di porre in secondo piano l’obiettivo del recupero sociale del condannato.

Considerazioni conclusive

Riprendendo le fila del nostro discorso appare ora opportuno fare qualche breve considerazione finale sulla questione che ha aperto un dibattito di portata nazionale.
Se da un lato l’applicazione del regime del carcere duro ad Alfredo Cospito lascia certamente adito a qualche dubbio, ulteriormente considerato che l’anarchico è stato condannato per un reato che non fu applicato neanche agli autori della strage di Bologna e di quella Via D’Amelio, dall’altro lato bisogna tenere presente il rischio che la cattiva gestione di una questione così delicata possa diventare oggetto di mistificazione da parte delle organizzazioni mafiose che da circa trent’anni hanno come principale obiettivo l’abolizione definitiva del 41bis.
Che una simile preoccupazione non possa essere considerata come una mera psicosi di pochi è dimostrato dalle intercettazioni che il vicepresidente del Copasir, Giovanni Donzelli, si è lasciato scappare in Camera dei Deputati; si trattava di captazioni in cui si faceva richiamo a conversazioni intercorse tra l’anarchico Cospito e alcuni esponenti della criminalità mafiosa, i quali peroravano la causa del primo, incitandolo a portarla avanti finché questa non avesse raggiunto le istituzioni centrali non solo italiane ma anche europee (da sempre considerate dalla criminalità come ultimo baluardo nell’ambito di una guerra allo Stato che si consuma su un piano di legalità).
Difficile a questo punto prevedere come la situazione si evolverà, essendo nel pieno di un’impasse non solo giuridico ma anche politico in cui le parti hanno assunto le vesti di una tifoseria da stadio.
Quello che è certo è che in un momento di così alta tensione, una eventuale revoca del 41bis ad Alfredo Cospito proveniente direttamente da parte del Ministro Nordio non solo rischia di far emergere tutta la debolezza di uno Stato spaccato politicamente a metà, ma pone l’ulteriore problema della creazione di un rischiosissimo precedente.


Foto copertina: Alfredo Cospito

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Laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Bologna e specializzata in diritto penale e geopolitica. Nel corso dei suoi studi ha approfondito prevalentemente tematiche di storia politica, attualità e criminalità organizzata nel tentativo di far luce sulle intricate trame relative ad alcune delle vicende storiche più controverse che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese. Admin della pagina Instagram @poster.ius, luogo di approfondimento e dibattito aperto in cui temi di attualità vengono fusi con lezioni del passato al fine di esaminare il presente alla luce della storia.